ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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LA BÊTE DANS LA JUNGLE, di Patric Chiha

17/2/2024

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​Fine anni Settanta. May e John si incontrano in una discoteca senza nome. Lui cade dalle nuvole, pare aver davanti un’estranea. Lei invece ricorda che si erano già conosciuti tanto tempo prima e che il ragazzo le aveva confessato un fatto importante: prima o poi sarebbe accaduto qualcosa, un qualcosa di straordinario che gli avrebbe per sempre cambiato la vita. I due cominciano a vedersi, ogni sabato sera, nello stesso locale. John sembra un’entità quasi astratta, senza alcuna vita materiale al di fuori del club, mentre May porta avanti i suoi studi e ha una relazione in corso, con annessa proposta di matrimonio. Gli anni passano, le mode cambiano, la musica anche, la società pure. Tutti i sabati John e May sono però sempre lì, sempre più vicini, facce di un’amicizia speciale, di un legame unico avvolto in un segreto inafferrabile per chiunque altro: l’attesa condivisa di questo evento memorabile, una ricerca immobile ma inesausta che si protrarrà per diversi lustri, sino all’alba del nuovo millennio.

Uscito nelle sale francesi ad agosto 2023, passato in concorso al My French Film Festival 2024 e inedito in Italia (lacuna per nulla sorprendente), La Bête dans la jungle, diretto dall’austriaco Patric Chica e liberamente tratto dal romanzo di Henry James, si pone come oggetto cinematografico senza dubbio originale e straniante, in grado allo stesso modo di respingere o attrarre, annoiare o stimolare, a seconda che si abbia o meno voglia di entrare nel mood che lo contraddistingue. Vent’anni abbondanti di narrazione, ma due soli personaggi attorno a cui tutto si dipana. Anche se, a ben guardare, il vero centro focale è proprio la discoteca priva di nome, ritrovo di gioia e distrazione, cocktail e sballo, suoni e luci. Scatola territoriale limitata eppure vibrante di umori e sensazioni, notti scatenate e sogni primitivi che si dissolvono solo al sorgere del giorno. Tranne uno, invero non proprio un sogno bensì una certezza: la cosa, quella cosa che John è sicuro dovrà giungere come salvifica rivelazione, pur senza avere la minima idea di quale forma essa mostrerà.

Così, mentre le lancette del tempo inesorabili proseguono la loro lunga marcia, la terra muta confini e situazioni. L’elezione di Mitterand, l’avvento esiziale dell’AIDS, la caduta del Muro di Berlino, l’11 settembre. Rivoluzioni e disintegrazioni della realtà. Ma John e May, dal 1979 fino al 2001, continuano imperterriti a calcare quel luogo, prima come avventori un po’ confusi, poi nelle vesti di un Re e una Regina che dall’alto della balconata, seduti sui loro scranni, osservano i ragazzi che danzano. Sempre diversi, generazione dopo generazione, in una sorta di evoluzione (o involuzione?) antropologica il cui interesse è comunque relativo, in quanto l’obiettivo vero e totalizzante non cambia: l’attesa della cosa. 

Il film si spalma lungo i decenni seguendo un’atmosfera bizzarra, surreale, quasi onirica, persino esoterica. Assomiglia a una storia di fantasmi, ma la costante musica pompata dalle casse ci avvicina alla realtà tangibile. Sussurra un viaggio verso il niente, ma la spasmodica ricerca pulsa di emozione. Ci sono figure laterali, come la padrona del club (Beatrice Dalle), guardiana che ogni sera apre le porte del paradiso (o dell’inferno?), oppure Monsieur Pipi, il responsabile delle toilette, personaggio lynchiano nella sua singolarità. E poi c’è una bestia senza volto, racchiusa tra quelle mura intrise di vita e sudore, pronta a mordere nell’eterno fuoco del rimpianto.

May danza e dopo osserva. Talvolta se ne va ma torna, ancora e ancora. John non danza, osserva e basta. Lui ha la recitazione meccanica (voluta?) di Tom Mercier, immune allo scorrere delle primavere; lei, in totale opposizione, ha la preziosa gamma espressiva di Anaïs Demoustier, stella splendente la cui bravura (e versatilità) ormai non conosce limiti. La loro beckettiana stasi, l’ossessione, la speranza, convergono in una dinamica da molti considerata come mero e stancante esercizio di stile o poco più. Da queste parti, al contrario, abbiamo attraversato con piacere la selva dell’assurdo, lasciandoci ipnotizzare da una fluttuazione magnetica e quasi mistica che, non a caso, cede parzialmente solo nel finale, ovvero l’unico passaggio in cui si esce davvero dai confini della discoteca. Perché è lì, nell’ombelico stroboscopico del mondo, che striscia silente la bestia, ed è lì che finalmente emergerà l’anelato miracolo. Anche se forse, purtroppo, lo si capirà troppo tardi.

Nel frattempo, comunque, c’è da avere pazienza. Respirare. Resistere. Credere.

E ballare.

Alessio Gradogna


Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: La Bête dans la jungle
Anno: 2023
Regia: Patric Chiha
Durata: 110'
Sceneggiatura: Patric Chiha, Axelle Ropert, Jihane Chouaib
Fotografia: Céline Bozon
Montaggio: Karina Ressler, Julien Lacheray
Musiche: Yelli Yelli, Dino Spiluttini, Florent Charissoux
Attori: Anaïs Demoustier, Tom Mercier, Béatrice Dalle
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CÉSAR 2020 – Caos, proteste e splendide sorprese

1/3/2020

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​“Honte”. È stata questa la parola più utilizzata in Francia nelle ultime ore. “Honte”, ovvero “vergogna”, vocabolo pronunciato da Adèle Haenel nel momento in cui l’attrice ha abbandonato la sala dopo l’annuncio del premio per la miglior regia a Roman Polanski, nonché termine declamato e ripetuto da decine di utenti infuriati sui social network. L'epilogo di una cerimonia dei César complicatissima, iniziata con le veementi proteste di gruppi femministi davanti alla Salle Pleyel di Parigi, sede dell’evento, per le tante nomination assegnate al film di Polanski J’accuse (L’ufficiale e la spia); proteste condite da lacrimogeni, scontri con la polizia e cordone di protezione per far entrare i candidati.
​Una serata piena di tensione, condotta tra mille difficoltà da Florence Foresti nell’arduo tentativo di restare in precario e balbettante equilibrio tra distensione e rivendicazioni, imbarazzi e frenesia, autoironia e frecciate, gag riuscite (un bellissimo sketch con Isabelle Adjani) e interventi discutibili. Clima dunque a dir poco turbolento, in conseguenza del putiferio nato dopo le nuove accuse di stupro recentemente rivolte a Polanski, a cui si sono aggiunte le dimissioni collettive dei membri dell’Académie des César pochi giorni prima della cerimonia, in nome di una maggiore trasparenza e dell'esigenza di condizioni paritarie tra uomini e donne.
​
Insomma, quella che doveva essere una festa del cinema (i César sono l'equivalente francese degli Oscar) si è invece tramutata in un gran caos, prima, durante e dopo. Con dissensi comprensibili e condivisibili, ma anche esagerazioni e cadute di stile perfino grottesche. Sì perché se da un lato è sacrosanto l’uso del termine “honte” volto al rispetto e alla richiesta di giustizia per le donne umiliate e molestate, ci è però al contempo parso “honteux” (vergognoso) il modo in cui Jean-Pierre Darroussin, attore che abbiamo sempre adorato, ha volutamente storpiato il nome di Polanski quando ha aperto la busta al cui interno si svelava il primo premio della serata a lui destinato, quello per il miglior adattamento. Un’idea davvero pessima, che mai ci saremmo aspettati da un personaggio di tale classe. Così come ci è sembrato “honteux” il tentativo, peraltro fallito, di boicottare un film (J’accuse) nel quale hanno lavorato con impegno centinaia di persone che nulla hanno a che fare con le colpe, vere o presunte, di Polanski. Il cinema è fatto da tante persone, non da una sola, e le opere dovrebbero essere valutate secondo le loro qualità artistiche, indipendentemente da ogni altra questione, per quanto grave. 
Infine, a nostro parere, è stata eccessiva e sbagliata anche la fuga dalla sala della Haenel e di Céline Sciamma dopo l’annuncio del secondo premio (la miglior regia) a Polanski, peraltro assente così come tutto il suo cast. La competizione automaticamente concedeva al discusso autore la possibilità di vincere, per cui, pur consapevoli del fatto che la Haenel si sia sentita emotivamente coinvolta a fondo in queste vicende, in quanto lei stessa ha dichiarato pochi mesi fa di essere stata vittima di abusi da parte di un regista, sarebbe stata magari più opportuna l’eventuale decisione di non presenziare all’evento, piuttosto che un gesto così plateale, traducibile in una mancanza di rispetto nei confronti dei colleghi.

Nella baraonda, ovviamente, tutto il resto è purtroppo passato in secondo piano. Negli organi di stampa si è parlato solo dell’affaire Polanski e quasi nessuno si è interessato agli altri riconoscimenti. Noi invece, innanzitutto, vogliamo celebrare con forza e con tantissima gioia l’inatteso premio come miglior attrice protagonista attribuito ad Anaïs Demoustier, per la sua brillante prova in Alice et le maire (Alice e il sindaco). Un verdetto imprevisto, in una eccezionale lista di candidate che prevedeva la stessa Haenel, Noémie Merlant, Karin Viard, Chiara Mastroianni, Eva Green e Dora Tillier. 
Eppure, contro ogni pronostico, a trionfare è stata lei, Anaïs, interprete che seguiamo con grandissimo affetto sin da quando era ragazzina, tanto da aver visionato negli anni anche molti film da lei recitati mai usciti in Italia, dedicando inoltre ad alcuni di essi ampio spazio su queste pagine (le recensioni di À trois on y va, Au fil d’Ariane, Thérèse Desqueyroux, La fille au bracelet, Demain et tous les autres jours, tutti purtroppo qui non distribuiti). Un premio che consacra definitivamente la Demoustier nell’élite del cinema francese, e che in fondo ci piace sentire un pochino anche “nostro”, proprio per come l’abbiamo sempre apprezzata e applaudita, accompagnandone la "crescita", di età e di maturità professionale. Il suo discorso di ringraziamento dopo la chiamata sul palco si è tramutato nella perfetta sintesi dei suoi pregi d’attrice: freschezza, spontaneità, genuinità, ironia, coraggio, intelligenza. Un luminoso raggio di sole che ha letteralmente illuminato la scena.
​
Abbiamo inoltre il piacere di festeggiare i tre premi portati a casa dal delizioso La belle époque di Nicolas Bedos (scenografie, sceneggiatura originale e Fanny Ardant miglior attrice non protagonista), il premio al bravo Swann Arlaud per Grazie a Dio di Ozon e i successi del divertente Pile poil come miglior corto e del tenebroso horror ecologista La nuit des sacs plastiques come miglior corto animato: tutti lavori di notevole livello. Delusa della serata, in tutti i sensi, Céline Sciamma, per il suo splendido Ritratto della giovane in fiamme, a cui è stato attribuito solo il premio per la fotografia. Vincitore del titolo di miglior film, stavolta in accordo con i pronostici della vigilia, Les Misérables di Ladj Ly.
L’Académie des César, dopo certi comportamenti squallidi avuti nel recente passato (i reiterati sabotaggi ai danni di Abdellatif Kechiche, reo di usare metodi di lavoro “poco ortodossi”), stavolta ha scelto la strada opposta, sfidando a petto nudo le contestazioni popolari. Il pandemonio seguente a quel punto è diventato inevitabile. La cerimonia del 28 febbraio ha però proposto anche momenti emozionanti e ricompense meritatissime, il cui valore resterà immutato nel tempo.

Alessio Gradogna

​Sezione di riferimento: La vie en rose

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LOCARNO 72 – La fille au bracelet, di Stéphane Demoustier

12/8/2019

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Lise ha 18 anni. Due anni prima la sua migliore amica è stata uccisa a coltellate. Lise è stata sin da subito la principale (e unica) sospettata. Dopo un iniziale periodo di fermo le è stata concessa la libertà vigilata, con l’obbligo di un braccialetto elettronico fissato alla caviglia per favorirne sempre il rintracciamento. Adesso siamo finalmente arrivati alla fase finale del processo: gli avvocati dell’accusa e della difesa espongono le rispettive arringhe, la ragazza siede al suo posto in tribunale ascoltando tutto con glaciale fermezza e faticando spesso a trovare le parole quando viene interrogata (o rifiutandosi di rispondere). Nuovi aspetti compromettenti della vita di Lise emergono, con particolare riferimento alle sue abitudini sessuali, ben più disinibite di quanto la morale comune vorrebbe. Le sedute si susseguono, il verdetto si avvicina. Lise ha davvero ammazzato l’amica, oppure no?

​Lili Hinstin, nuova direttrice artistica del Festival di Locarno, ha sottolineato come La fille au bracelet sia stato il primo titolo a essere scelto per la sezione dedicata a Piazza Grande, evidenziando così quanto lei e il suo staff abbiano fortemente creduto in quest’opera. A conti fatti non si può dar loro torto, dato il buon impatto del terzo lungometraggio di Stéphane Demoustier, bravo a mettere in scena con efficacia un dramma processuale in cui rispetta i canoni del genere ma riesce a inserire degli elementi in più, e senza remore nell’affidare il ruolo più “antipatico”, quello dello spietato pubblico ministero, alla sorella Anaïs Demoustier, attrice che come sapete noi amiamo tantissimo, e che aveva già interpretato la parte di un'avvocatessa nella bella commedia romantica À trois on y va (qui la nostra recensione).
​
Lo schema di base di La fille au bracelet (ispirato al film argentino Acusada) pare in realtà non discostarsi molto da altre pellicole similari, essendo fondato sull’accumularsi di oratorie racchiuse tra gli spazi del tribunale in cui si decide il destino della giovane protagonista (l’esordiente Mélissa Guers). Si ricostruiscono i fatti dei minuti in cui è avvenuto l’omicidio, di ciò che era stato prima e di ciò che è stato dopo; si analizza il rapporto tra Lise e l’amica; si mostrano elementi nuovi che colgono di sorpresa la parte avversa. Accusa e difesa giocano le loro carte, la sfida è serrata, l’equilibrio pare indirizzarsi talvolta verso una direzione talvolta verso l’altra, il contenzioso è di difficile risoluzione. In questo senso la narrazione appare solida e puntuale, ma non offre particolare guizzi.
​Gli elementi di maggiore interesse giungono però altrove, a partire dal giorno in cui il pubblico ministero mette in luce il video di una fellatio compiuta da Lise a un ragazzo con cui non aveva alcun rapporto sentimentale, video poi postato in rete dall’amica, gesto che aveva provocato la rabbia di Lise. Questo evento, oltre a porsi come (presunto) movente dell'assassinio, apre scenari atti a discutere l’emancipazione sessuale della sospettata, decisamente eccessiva per una società ancora incatenata a dogmi antiquati ma di complessa estirpazione. Lise diventa così una ragazza “facile”, una poco di buono che ha perso la retta via, una persona da guardare con sdegno e timore. Il processo esce a quel punto dai confini del mero omicidio e diviene atto sociale d’accusa verso la licenziosità della gioventù contemporanea.
In parallelo si attua poi un secondo, e ancora più coinvolgente, percorso narrativo complementare, quando la macchina da presa esce dal tribunale e si infila nell’auto che riporta Lise a casa, e poi tra le pareti della casa stessa, dove lei e i genitori vivono ore e notti d’attesa tra una seduta del processo e l’altra. In queste sospensioni temporali il regista si concentra sulle emozioni che percuotono la madre (la sempre ottima Chiara Mastroianni) e il padre (Roschdy Zem), incatenati in una situazione soffocante e dolorosa. Lui sta vicino alla figlia, ripassa con lei ciò che dovrà dire in tribunale il giorno dopo, cerca di accompagnarla attimo per attimo. La madre invece sembra distante, distaccata, perfino lontana. Sono in realtà due facce della stessa medaglia, due modi uguali e contrari di affrontare la stessa pena interiore, una pena non priva di dubbi nei riguardi della loro stessa figlia. Entrambi vogliono che Lise sia innocente, lo desiderano con tutto il cuore, ma devono affrontare momenti in cui perplessità e titubanze si insinuano nella mente. Ciò li rende genitori peggiori? No, affatto. Li rende semplici esseri umani.
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Alla fine, tra silenzi carichi di tensione, discussioni in aula e momenti di ribellione di un’adolescente inevitabilmente segnata (per sempre?) da due anni di ansia, La fille au bracelet giunge al suo culmine, che tale in fondo poi nemmeno è. Il verdetto infatti arriva, ma non elimina le incertezze. D’altronde, come ha giustamente dichiarato Stéphane Demoustier, “a me non interessa sapere se Lise sia colpevole o innocente; sarà lo spettatore a deciderlo”.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Locarno 72

Altri film con Anaïs Demoustier recensiti:     Demain et tous les autres jours        À trois on y va        Une nouvelle amie              La casa sul mare        Il viaggio di Jeanne        Au fil d’Ariane       La belle personne       Thérèse Desqueyroux

Scheda tecnica
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Regista: Stéphane Demoustier
Anno: 2019
Durata: 95’
Attori: Mélissa Guers, Roschdy Zem, Chiara Mastroianni, Anaïs Demoustier, Annie Mercier
Fotografia: Sylvain Verdet
Musica: Carla Pallone
Montaggio: Damien Maestraggi

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DEMAIN ET TOUS LES AUTRES JOURS – In fondo al mare

3/2/2019

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​“Figlia mia, dove sono finite le lacrime del tuo primo dolore?"

"La tua mano le ha asciugate. Poi il vento ha asciugato la tua mano. Così sono evaporate, e sono ricadute sotto forma di pioggia, un po’ più lontano.”

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Mathilde ha solo 9 anni. Ma deve affrontare problematiche che la costringono a diventare più grande di quanto in realtà sia. I suoi genitori sono infatti separati e la bimba vede il padre saltuariamente, limitandosi in molti momenti a colloqui con lui via web. La difficoltà peggiore, però, è il comportamento della madre, afflitta da seri disturbi mentali che spesso la conducono a smarrimenti di cui giocoforza subisce le conseguenze anche la giovane figlia.
​Tra fughe improvvise, acquisti insensati, viaggi in treno senza meta, vagabondaggi per strade e centri commerciali, giornate trascorse immobile come un automa e atteggiamenti imbarazzanti in mezzo alla gente, il teorico ruolo di protezione della madre perde di significato, sviando anzi verso la direzione opposta: è Mathilde, più volte, a doversi prendere cura di lei, a occuparsi della casa, a dover gestire quegli aspetti della vita quotidiana di cui una ragazzina di quell’età non dovrebbe farsi carico. Il cuore di Mathilde la porta a “salvare” uno scheletro utilizzato in via didattica dagli insegnanti della sua scuola, mentre a farle compagnia appare dal nulla un piccolo gufo parlante, che si tramuta in buon amico e confidente. Intanto gli eccessi della madre aumentano, giorno dopo giorno. Nel frattempo Mathilde cresce, suo malgrado, troppo in fretta, costretta dagli eventi.
​
Presentato in Piazza Grande a Locarno 2017, selezionato in concorso al My French Film Festival 2019 e purtroppo non distribuito in Italia, Demain et tous les autres jours è il sesto lungometraggio come regista di Noémie Lvovsky, vista recentemente in D’après une histoire vrai di Polanski e qui anche co-sceneggiatrice e co-protagonista insieme alla piccola Luce Rodriguez, rivelazione luminosa di nome e di fatto. L’opera della Lvovsky è una favola ad altezza di bambina, messa in scena con una notevole libertà espressiva che scava nei duri contorni del reale miscelando quest’ultimo con inserti diretti verso il magico mondo del fantastico. La storia assomma le connotazioni del racconto di formazione, le tante sfumature di un complesso e combattuto rapporto madre-figlia, le difficoltà di sopravvivenza di tante famiglie sfaldate da silenzi e incomprensioni. Materiale eterogeneo, ancor più in virtù della variante onirica, evidenziata dalla presenza dell’onnisciente uccello parlante e dalle cupe scene gotiche partorite dalla mente di Mathilde, la quale inventa fosche storie con cui dare sfogo alle proprie insicurezze e alla rabbia repressa per le pazzie della genitrice.
Va da sé come non sia semplice trovare un giusto e duraturo equilibrio tra tutte queste componenti. Non c’è dunque da stupirsi se il film talvolta pare lievemente sfilacciarsi. Eppure, anche nelle imperfezioni, la regista non perde mai di vista il senso e la forza della narrazione, utilizzando gli occhi profondi di Luce Rodriguez come tramite per lasciarci entrare nel dramma di una donna “qui ne peut plus coexister avec le monde” (1) e di una bimba che non si arrende e non smarrisce la volontà di mordere il presente. Oltre al lavoro in fase di scrittura e dietro la macchina da presa, l’autrice dell’apprezzato Camille Redouble (2012) si ritaglia anche un ruolo attoriale impegnativo, recitando il “grain de folie” (2) di una madre traviata dai demoni della mente con un intenso stordimento espressivo non lontano dalla Séraphine di Yolande Moreau (non a caso citata nei ringraziamenti alla fine dei titoli di coda). 

1) Thomas Sotinel, Le Monde
2) Ariane Allard, Positif


Coraggioso e convinto delle proprie scelte, il film, girato nell’appartamento dei defunti genitori di due amici d’infanzia della Lvovsky e portato a termine nonostante l’abbandono anticipato del set da parte della Rodriguez per problemi di salute, si avvale di intense musiche che spaziano da Vivaldi a Philip Glass, da Prokofiev alla dolce Oh! My Mama di Alela Diane, trovando una bellissima alternanza di tonalità chiare e scure in una tavolozza riempita con passione e freschezza. Inoltre, la pellicola si copre di radici ancor più solide grazie alle folgoranti apparizioni di Mathieu Amalric e Anaïs Demoustier, capaci entrambi di realizzare ciò che solo i grandi attori sanno compiere, ovvero rendersi indimenticabili anche con un minutaggio assai limitato. 
Così, tra dignità e compassione, voli empatici e corse di speranza, notti di Natale attese e poi carbonizzate e compleanni racchiusi in uno scrigno in fondo al mare, vaghe stelle in divenire e inevitabili prigioni, Demain et tous les autres jours raggiunge con successo il suo obiettivo, trovando l’apice in un finale di pura poesia, con un’ipnotica e fradicia danza che accomuna madre e figlia. Un ballo che è insieme lirismo, complicità, catarsi definitiva, elogio della diversità e glorificazione di un legame che non potrà mai essere incenerito dalle amarezze. Perché il sole e la luna, pur nelle loro inconciliabili differenze, sapranno sempre respirare la tenerezza di un abbraccio.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Demain et tous les autres jours
Regia: Noémie Lvovsky
Sceneggiatura: Noémie Lvovsky e Florence Seyvos
Fotografia: Jean-Marc Fabre
Montaggio: Annette Dutertre e Anne Weil
Anno: 2017
Durata: 95’
Attori: Luce Rodriguez, Noémie Lvovsky, Mathieu Amalric, Micha Lescot, Anaïs Demoustier, India Hair

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LA CASA SUL MARE (La Villa) – Al centro del mondo

5/5/2018

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​A volte accade. Succede che scopri un autore e te ne “innamori”, al punto di iniziare a seguirlo con assoluta e viscerale fedeltà lungo gli anni, ricavando la gioiosa impressione di incontrare un caro amico ogni volta che ti appresti a vedere un suo nuovo film. 
A volte accade. Sovente, a dire il vero. Ma raramente con un'intensità tale da superare i confini della semplice ammirazione. Per certi versi è ancora più bello se ciò si verifica con un autore non di primo piano, diciamo pure di nicchia; perché così lo senti ancora più “tuo” e l'affezione per lui assume contorni ancora più speciali. A maggior ragione se nel corso del tempo ti rendi conto di amare così tanto un personaggio che ti conferma in ogni occasione una qualità fondamentale, purtroppo troppo spesso trascurata o sbeffeggiata: la coerenza. 

L'esempio di Robert Guédiguian reca in sé aspetti assai poco paragonabili a qualsiasi altro regista. Sia per come ha sempre portato avanti la sua carriera innalzando la suddetta coerenza a tratto imprescindibile e intoccabile del suo cinema, sia per la magia con cui si è costruito intorno una vera e grande famiglia che lo accompagna con immutabile fedeltà da oltre 30 anni. Una famiglia che da un lato trascende l'arte per abbracciare la realtà (Ariane Ascaride, musa sullo schermo e fedele compagna nella vita) e dall'altro si rifugia proprio nell'arte per richiamare, ancora e sempre, gli stessi attori/amici (Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Jacques Boudet). Loro, ancora loro, sempre loro, con lui dall'inizio, sin dal primo lungometraggio (Dernier été, 1980, dove già c'erano la Ascaride e Meylan) o arrivati poco dopo (Darroussin in Ki lo sa, 1985) per poi non andarsene più. 
La lieta famiglia di Guédiguian non si è mai smembrata, si è rinfrescata dotandosi di nuovi membri (Anäis Demoustier), è nel frattempo ovviamente invecchiata, ma è sopravvissuta a tutto, con incredibile costanza, riunendosi felicemente per l'ennesima volta all'alba del 2017, per dare vita, corpo e anima a La casa sul mare (La Villa), ventesimo lungometraggio dell'autore marsigliese, presentato e applaudito al festival di Venezia e per fortuna approdato alcuni mesi dopo anche nelle sale.

L'amicizia e gli affetti della vita reale, in La Villa, si fondono ancor più del solito con la finzione scenica. La Ascaride, Meylan e Darroussin (tutti e tre magnifici, come sempre) interpretano infatti tre fratelli che dopo tanti anni di separazione si ritrovano nella loro casa d'infanzia, affacciata sul mare, al capezzale del padre, colpito da un ictus all'apparenza irreversibile. Angèle è un'attrice segnata dal lutto, perché proprio in quel luogo 20 anni prima aveva perduto una figlia, tragicamente annegata, e da quel momento non aveva più voluto tornare vicino a quelle acque, simbolo di un dolore mai rimarginato. Joseph è un ex sindacalista votato alla lotta operaia, un aspirante scrittore disilluso e colpito dalla perdita del posto di lavoro e da una depressione mai superata, nonostante uno spirito sagace e la dolce presenza al suo fianco di Bérangère, fidanzata molto più giovane di lui. Armand è invece un uomo semplice, rimasto sempre lì a fianco del padre, per mantenerne in vita ideali e ambizioni (il ristorante a prezzi bassi per gente con pochi soldi) e salvaguardare la terra natia dagli inevitabili cambiamenti del tempo. 
Intorno ai tre fratelli, all'improvviso di nuovo insieme dopo 20 lunghi anni, si muovono figure di contorno solo in apparenza secondarie, come Martin, vecchio amico che non vuole in alcun modo accettare l'aiuto del figlio per il proprio sostentamento e progetta, insieme all'amata compagna, una fuga “definitiva”, e Benjamin, giovane pescatore follemente innamorato di Angèle e capace di recitare a memoria intere opere teatrali.
Cambiamenti, si diceva. In quel posto davanti al mare nulla è più come in passato. I turisti se ne sono quasi tutti andati, la gente vende le proprie case, le feste e l'eccitazione fremente di una volta non esistono più. Ma forse sono soprattutto loro, i protagonisti della vicenda, a essere cambiati, marchiati dal destino, da fortune e sventure, da scelte giuste o errate, da vittorie e sconfitte. Eppure, per qualche giorno, quel piccolo angolo di Francia diventa “il centro del mondo”, un nucleo in cui accadono eventi imprevisti e incontri sorprendenti, amori nascono e altri intrecciano le proprie mani per l'eternità, si riacquistano sorrisi smarriti nell'oblio e si acquisiscono consapevolezze, rinasce la speranza e appaiono nuovi sogni. Perché sì, è evidente, tutto “era meglio prima”; ma ciò non significa che anche adesso non possa palesarsi qualcosa di magico, forse perfino di miracoloso. Un qualcosa destinato a mutare percezioni del presente e proiezioni future.
​Così, proprio lì, “au centre du monde”, da dove si era fuggiti per sopravvivere e dove si è tornati controvoglia, forse alla fine si vorrà perfino rimanere. Magari per sempre.

Purezza. In questo parola risiede la coscienza più profonda del film. Guédiguian parla d'amore soffiando su melodie intime e soavi, rimpiange il passato dandosi (e dandoci) però anche speranze per l'avvenire, conferma se stesso e ci culla con un delicato racconto che commuove con semplicità. Non siamo di fronte a una favola (come nel recente Au fil d'Ariane), né a una storia che sfocia nella Storia (come in L'armée du crime o Une histoire de fou). È forse un lavoro che si avvicina di più alle opere giovanili dell'autore; non a caso Guédiguian, oltre a citare Claudel e Brecht, cita se stesso (inserendo una giocosa scena tratta da Ki lo sa, con la triade Ascaride-Darroussin-Meylan presente al gran completo), ma non si vede alcun tipo di arroganza o supponenza in una scelta simile. È semplicemente un omaggio alla giovinezza ormai lontana, sua e dei suoi attori/compagni/amici, e al contempo un messaggio dedicato alla vita che avanza, colpisce, ferisce ma non si spegne. 
L'ultima parte, in cui il racconto intimo dei protagonisti si allarga a tematiche attuali inerenti l'immigrazione, riconduce parzialmente al Kaurismaki di Miracolo a Le Havre e L'altro volto della speranza. Un elemento narrativo forse non indispensabile, che peraltro si amalgama senza difficoltà al resto dell'opera e nulla toglie alla concretezza della pellicola, acuendone anzi i tratti rivolti al senso atavico dell'umana solidarietà. E se è vero che La casa sul mare non tocca i picchi emotivi di opere come La ville est tranquille, Marius et Jeannette e À la place du coeur, è altresì vero che davanti a un simile dipinto filmico, candido e colorato di bontà, rispetto e sensibilità, non si può che ringraziare per l'ennesima volta Monsieur Guédiguian e la sua splendida famiglia. Artisti di grandissimo spessore e persone vere, avvolte da legami profondissimi, da fili impossibili da spezzare, da sentimenti che non finiranno mai.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose, Film al cinema

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Scheda tecnica

Titolo originale: La villa
Anno: 2017
Durata: 117'
Regia: Robert Guédiguian
Sceneggiatura: Serge Valletti e Robert Guédiguian
Fotografia: Pierre Milon
Montaggio: Bernard Sasia
Attori: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Jacques Boudet, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin

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A TROIS ON Y VA - Il triangolo della passione

29/4/2016

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​Charlotte e Micha si amano. Stanno insieme da 4 anni, e hanno appena comprato casa a Lille. Lui studia medicina e lavora a contatto gli animali, lei dipinge e aspetta l'ispirazione. Nonostante il forte legame tra i due, Charlotte tradisce Micha con la graziosa Mélodie, giovane e grintosa avvocatessa. A un certo punto anche Micha si accorge di provare una forte attrazione, subito contraccambiata, nei confronti di Mélodie.
​Inizia così un bizzarro e frenetico triangolo sentimentale dove Micha e Charlotte, di nascosto l'uno dall'altra, si tradiscono con la stessa persona. Dal canto suo Mélodie si trova invischiata in un vortice difficilmente controllabile, dato che li ama entrambi, non riesce a scegliere tra loro e allo stesso tempo deve inventarsi mille sotterfugi per far sì che i due non scoprano i reciproci tradimenti. Le continue bugie danno vita a una serie di situazioni surreali, sino a che, inevitabilmente, arriverà il momento in cui qualcuno, tra i tre protagonisti, dovrà prendere una sofferta decisione. 

Jérôme Bonnell, classe 1979, si era già fatto notare dal pubblico francese nel 2013, in occasione di Le temps de l'aventure, valido dramma sentimentale in cui Emmanuelle Devos e Gabriel Byrne affrontavano una dirompente e improvvisa passione nei riguardi di una persona sconosciuta. Qui Bonnell prosegue (parzialmente) sulla stessa strada, componendo un ménage à trois originale, bizzarro, per certi versi anche stralunato, eppure pervaso da una magnifica delicatezza di fondo.
Il triangolo amoroso ha radici ben piantate nella tradizione del cinema francese; il punto di riferimento tutelare resta, sempre e comunque, l'immortale Jules et Jim di Truffaut, ma molti sono gli autori, transalpini e non, a essersi cimentati anche recentemente in questo sottogenere, con esiti più che soddisfacenti; si pensi, ad esempio, a Christophe Honoré con Les Chansons d'Amour, a Xavier Dolan con Les amours imaginaires, a Emmanuel Mouret con Caprice. 
Il rischio, in questo tipo di operazione, è restare inchiodati alla superficialità, all'apparenza, al desiderio di soddisfare i gusti del pubblico, senza approfondire nella giusta maniera le infinite traiettorie di cui il cuore umano è capace. Bonnell scansa senza fatica l'ostacolo, mettendo in scena un'opera dolce e sensuale, profonda e completa, leggera ma non banale, in grado di soffiare verso gli occhi dello spettatore una lieve e giusta malinconia che peraltro non sopravanza mai la naturalezza del racconto e la tenerezza dei toni.
Uscito nei cinema francesi a marzo 2015 e assai amato dalla stampa d'Oltralpe, che lo ha accolto con definizioni come “une merveille de comédie sentimentale” (Nicolas Schaller, Le Nouvel Observateur) e “un coup de coeur” (Yves Grosjean, TF1 News), A trois on y va ribalta i consueti canoni del triangolo, con l'uomo al vertice e due donne alla base, per mettere in scena un autarchico schema donna-donna-uomo, in cui il desiderio scavalca ogni confine e apre la strada a un erotismo che manda all'aria ogni limitazione relativa all'orientamento sessuale. Il centro dello schema, la frenetica Mélodie, ama allo stesso modo un uomo e una donna, fa l'amore con entrambi, ne conserva odori e sapori, mentre intorno alle vibrazioni della passione la sua vita, così come quella dei due partner, si misura nei vantaggi di un'età in cui è ancora possibile “fregarsene di essere adulti”, dove si può godere dell'attimo senza pensare alle conseguenze.
L'idea di fondo, ovvero “l'exploration de la libre circulation du désir et du plaisir” (Philippe Rouyer, Positif), dà adito a una serie di situazioni grottesche e divertenti, in cui il film accoglie il gusto del burlesque senza mai scivolare nella parodia; si veda, ad esempio, il momento in cui Mélodie scappa per i tetti e, subito dopo, l'immagine in cui, in campo lungo, si vedono Charlotte e Micha che, a pochi metri di distanza tra loro e inconsapevoli della presenza l'uno dell'altra, le rivolgono un identico gesto in cui la invitano alla fuga.
Tra messaggi continui sul telefono, scuse da accampare per trovare il modo di incontrare uno dei due amanti, bugie con le gambe corte e incroci pericolosi e paradossali, A trois on y va, purtroppo inedito in Italia, assume i contorni di un marivaudage peraltro ben assiso al sentiero della contemporaneità; un film soffice, carezzevole, niveo, dove tutto si snoda senza forzature, glorificando un'alchimia totale che, nel suo ambito, lo trasforma in uno dei migliori lavori francesi degli ultimi anni.
A interpretare i lati del triangolo troviamo la brava Sophie Verbeeck, il luminoso Félix Moati (candidato ai César come miglior attore emergente) e, al vertice della narrazione, una sempre splendente e più che mai scatenata Anaïs Demoustier, che corre per le strade e i corridoi, si arrampica sui tetti, balla la techno, indossa la toga d'avvocato, difende con ardore i suoi clienti in tribunale e poi si spoglia di ogni indumento e inibizione, risultando irresistibile in ogni contesto. Va sottolineato, in questo senso, che lei e Moati erano grandi amici nella vita anche prima di lavorare insieme nel film, fattore che ha contribuito a rinforzare la chimica tra i due durante le riprese. 
Negli occhioni sgranati della Demoustier, protagonista anche del sopracitato Caprice di Mouret, ruota la girandola delle emozioni iscritte alla danza del cuore; un turbine in cui si alternano e confondono sospiri e gemiti, risate e lacrime, pazzie guidate dall'istinto e razionalismi frenati dal potere dell'attrazione, sino a giungere a un epilogo magari non del tutto credibile ma ben incastonato nell'economia del racconto. Un finale che quasi assomiglia a una favola, bella e forse ancora possibile: la favola del vero amore.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

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                                                                              Thérèse Desqueyroux          Il viaggio di Jeanne

Scheda tecnica

Titolo originale: À trois on y va
Regia: Jérôme Bonnell
Sceneggiatura: Jérôme Bonnell e Maël Piriou
Musiche: Mike Higbee
Fotografia: Pascal Lagriffoul
Durata: 86'
Anno: 2015
Attori: Anaïs Demoustier, Félix Moati, Sophie Verbeeck, Patrick d'Assumçao

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AU FIL D'ARIANE - La lieta favola di Guédiguian

21/4/2015

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Ariane compie 50 anni. Prepara la torta di compleanno, si appresta a spegnere le candeline. Ma è sola. Il marito e i figli le mandano a casa mazzi di fiori e le lasciano messaggi d'auguri in segreteria. Ma non sono lì, non sono presenti. Per sfuggire alla tristezza della situazione la donna d'istinto esce di casa, sale in macchina e si dirige non sa nemmeno lei dove. Nei pressi di un ponte levatoio accoglie l'invito di un ragazzo sconosciuto, abbandona l'auto e si lascia portare in una trattoria situata vicino al mare. 
Una volta giunta all'imprevista destinazione, Ariane taglia i contatti con la sua normale vita di sempre e si lancia in un'avventura durante la quale, nei giorni successivi, farà la conoscenza di una serie di personaggi assai inconsueti: un tassista che possiede 45 gatti a cui fa ascoltare musica classica, un ristoratore di mezza età scorbutico e in perenne conflitto con il mondo, un anziano scrittore/filosofo che finge di essere americano, un pensionato di colore che ogni notte piange di nostalgia ripensando ai 30 anni trascorsi come custode al Museo di Scienze Naturali, un'avvenente ragazza che divide il suo tempo tra il lavoro di commessa e quello ben più redditizio di prostituta, il suo gelosissimo fidanzato... e una tartaruga parlante. Circondata dalla bizzarra “comunità” Ariane stravolge ogni vecchia abitudine, dorme in barca, si reinventa come cameriera e cerca di aiutare ognuno dei nuovi amici a combattere le proprie malinconie. 
Ma tutto questo sta accadendo veramente? Oppure è soltanto un sogno? O una via di mezzo tra l'immaginazione e la realtà?

Robert Guédiguian è un regista a cui non si può non voler bene. Parliamo di un autore, purtroppo poco conosciuto in Italia, che da più di trent'anni porta avanti con invidiabile coerenza un'idea di cinema sempre fresca, gradevole, efficace nella sua semplicità, insieme a un gruppo di attori e tecnici con cui, caso forse unico al mondo, ha costruito una grande famiglia che lo accompagna praticamente in ogni film sin dagli esordi nei primi anni Ottanta, con straordinaria fedeltà. Sempre loro, ogni volta, a partire dalla musa e compagna di vita Ariane Ascaride per arrivare agli immarcescibili Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan e Jacques Boudet. 
Non a caso sono tutti presenti anche nella penultima fatica del loro mentore, Au fil d'Ariane, uscita in Francia a giugno 2014, presentata a Torino in occasione del festival Rendez-Vous e accompagnata a fine proiezione da un vivace dibattito in cui lo stesso Guédiguian, con la consueta classe, ha risposto alle numerose domande del pubblico, difendendosi anche, con il garbo che sempre lo contraddistingue, dalle “accuse” inventate da qualche frustrato intellettualoide che ha cercato di seminare zizzania con incomprensibili sproloqui totalmente fuori luogo.

Cinema fresco e semplice, si diceva. Un aggettivo che ben si confà a tutta la carriera di Guédiguian e che trova piena conferma in Au fil d'Ariane, lavoro girato in poche settimane i cui intenti si scoprono senza alcuna remora sin dai titoli di testa, durante i quali l'originale dicitura “une fantaisie de...” sostituisce il classico “un film de...”, sottolineando senza possibilità di errore l'intenzione ricreativa del racconto che ci si appresta a scoprire. 
Aiutandosi con un ampio spettro musicale che coinvolge Schubert, Rossini, Verdi e il cantautore popolare Jean Ferrat, Guédiguian mette in scena una piccola e lieta favola contemporanea, in cui una donna cerca di sfuggire alla solitudine che la attanaglia e all'omologazione della città gettandosi a capofitto, da un istante all'altro, in una vita nuova e rigenerante a contatto con la natura e il mare. Al tempo stesso la protagonista Ariane sfrutta i nuovi orizzonti che le si aprono per tentare di realizzare sogni mai espressi, veleggiando lungo un binario diretto verso singulti di libertà mai sperimentati prima. In questo modo il film (anzi, la fantasia...) assume i contorni di una riflessione sulla possibilità di reinventare se stessi a qualsiasi età, senza dimenticare la chiara indicazione rivolta verso l'opportunità di risolvere i propri conflitti interiori aggrappandosi alle genuine bellezze che il mondo, scavando oltre al grigiore delle apparenze, può forse ancora offrirci.
Per cento minuti l'autore marsigliese ci trasporta in un mondo sopra le righe, pieno di sole e di colore, in cui può anche succedere che all'improvviso, morettianamente, tutti i personaggi si mettano a cantare e ballare, e ci invita a divertirci con giochi cinefili sparsi, accumulando citazioni (anzi, reverances) riferite a Pasolini, Godard, Sartre, Cechov, Brecht e Fellini e facendo indossare all'amata Ascaride lo stesso costume utilizzato in Cabaret di Bob Fosse. I suoi attori-feticcio si divertono con lui e con noi, sdoppiandosi e triplicandosi, scomparendo e riapparendo con sembianze e ruoli diversi. Accanto a loro conquistano spazio anche le ultime arrivate “in famiglia”, ovvero le giovani Anaïs Demoustier, ora sugli schermi italiani nell'ottimo Une Nouvelle Amie di Ozon e già con Guédiguian nel 2011 in Les Neiges du Kilimandjaro e Lola Naymark, che si esibisce in un coraggioso nudo integrale e che già aveva lavorato con lui nel 2009 per L'armée du crime. 

Au fil d'Ariane conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'amore dell'autore per il suo mestiere, pur trattandosi di un'opera minore e senz'altro non di qualità eccelsa. Sembra più che altro una rilassata rimpatriata tra amici che si conoscono da una vita e si ritrovano una sera, davanti a una birra, per concepire una divertente e innocua avventura vagamente esotica. Senza alte pretese, ma solo per il puro gusto di sorridere, intrattenere e provare magari a sognare un po', prima di tornare in quel rifugio fondamentale chiamato casa e ridisegnare, forse, le sembianze della realtà.
A novembre uscirà (in Francia) il nuovo film del regista, Une histoire de fou, lavoro più impegnato e impegnativo dato il tema trattato (il genocidio armeno). In attesa di vederlo abbracciamo con gioia la piccola favola di Ariane, ribadendo il concetto già sopra espresso: non si può non voler bene a Robert Guédiguian.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Au fil d'Ariane
Regia: Robert Guédiguian
Sceneggiatura: Robert Guédiguian e Serge Valletti
Fotografia: Pierre Milon
Montaggio: Bernard Sasia
Musiche: Gotan Project
Durata: 100'
Anno: 2014
Attori: Ariane Ascaride, Jacques Boudet, Jean-Pierre Darroussin, Anaïs Demoustier, Youssouf Djaoro, Gérard Meylan, Lola Naymark

Estratto dell'incontro con Robert Guédiguian, Cinema Massimo, Torino, 13 aprile 2015.
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LA BELLE PERSONNE - Il cuore in fuga

4/1/2014

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Ormai da alcuni anni il pubblico francese (e non solo) ha imparato ad amare Christophe Honoré, autore apprezzabile per la versatilità con cui sa costruire opere che spaziano dalla gloriosa tradizione del cinema autoctono a tematiche scomode e non prive di coraggio e ambizione. 
Salito alla ribalta con Ma Mère, dramma edipico buio ed estremizzato, e Les Chansons d'Amour, frizzante lavoro capace di attualizzare i tratti distintivi della commedia musicale, lo abbiamo di recente applaudito per lo splendido Les Bien-Aimés, presentato al Torino Film Festival 2011 e poi purtroppo mai distribuito nelle sale italiche. Nel mezzo, andando a ritroso, ha diretto anche l'interessante Homme au bain, il notevole e malinconico Non ma fille tu n'iras pas danser, e un ulteriore film rimasto inedito da noi, La Belle Personne, uscito in patria nel 2008.
Liberamente ispirato al romanzo La principessa di Clèves, di Madame de la Fayette, da cui già Manoel de Oliveira aveva tratto il film La Lettera, il lungometraggio di Honoré trae spunto dalla narrazione originale, trasportandola però nel presente. Al centro della scena la giovane e ombrosa Junie, ragazza sedicenne che dopo la morte della madre si trasferisce cambiando città e scuola. Al liceo entra a far parte di una consolidata compagnia di amici, e sviluppa un rapporto sentimentale con Otto, ragazzo romantico, timido e idealista. Non molto tempo dopo, inizia a covare una forte attrazione verso Nemours, il suo professore di italiano, non nuovo a storie con studentesse ben più giovani di lui. Junie tenta di combattere questa pericolosa infatuazione, allontanandola con ogni mezzo possibile, ma alla fine è proprio Nemours a sviluppare un amore irresistibile, e forse impossibile, nei suoi confronti.
Per La Belle Personne il regista ha a disposizione tre tra i migliori attori usciti allo scoperto nel cinema francese in quest'ultimo decennio: Louis Garrel, Léa Seydoux e (in un ruolo minore) Anais Demoustier. Con il giusto acume ne sfrutta a dovere le rispettive qualità, sottolineando a ogni inquadratura soprattutto il fascino maledetto del primo e le cupe vibrazioni della seconda, per comporre un quadro stilistico che accarezza l'adolescenza traghettandola verso i complessi lidi dell'età adulta. Nel film si analizzano con discreta puntualità le dinamiche sociali che caratterizzano il gruppo come insieme di elementi eterogenei e non sempre armonici: da qui scaturiscono invidie, gelosie, rancori, segreti e legami di devastante intensità.
I compagni di scuola frequentano ogni giorno lo stesso bar, alternano complicità e incomprensioni, sviluppano l'irrequieta quotidianità tipica dell'età di riferimento. Il loro senso dell'amore travalica i ristretti confini del microcosmo d'appartenenza, facendosi universale strumento di devozione e condanna, guidandoli verso territori inattesi nei quali la gioia della scoperta cozza con gli ostacoli della vita, sino a conseguenze perfino tragiche. L'eterosessualità e l'omosessualità compongono due facce di un'unica medaglia, e studenti e professori annullano le distanze per farsi veicoli delle stesse incertezze. Il triangolo Otto-Junie-Nemours morde i freni della comune apparenza, mentre tutt'intorno altre storie non meno intense condiscono una ricetta filmica calibrata e appassionante.
Devoto alla musica come asse portante di qualsiasi prodotto cinematografico, Honoré anche questa volta non rinuncia a far cantare i suoi personaggi (anche se qui avviene in una sola occasione), e inserisce in scene fondamentali la voce ipnotica di Maria Callas e il testo di “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e Poveri, trovando come sempre un gustoso punto d'incrocio tra parole, note e significazioni visive. Il romanzo di riferimento, ambientato nel 1600, è soltanto una base di avvio, utile a comporre i segni del melò: i duchi e le dame di Madame de la Fayette si trasformano nei riccioli scomposti e nelle cravatte disordinate di Garrel e nei seducenti silenzi della Seydoux, mina vagante pronta a esplodere in ogni istante. Tra i due l'amore nasce, cresce, si allontana e si avvicina, fugge e conduce alla follia; i baci rubati o mai dati diventano il simbolo di un futuro inesistente. Resta infine soltanto il mare, fonte pura di abbandono e rinascita.
Come detto, La Belle Personne è rimasto inedito in Italia, ma è stato comunque premiato al Festival del cinema europeo di Lecce, e ha ricevuto due nomination ai César nel 2009, come miglior adattamento e per l'interpretazione della Seydoux, candidata nella categoria di miglior promessa femminile in una cinquina che comprendeva anche la stessa Anais Demoustier (in lizza però per Il viaggio di Jeanne di Anna Novion) e Deborah François (premiata per Le premier jour du reste de ta vie di Rémi Bezançon). 
Nel film vanno infine segnalate la presenza di Agathe Bonitzer (futura protagonista di Une bouteille à la mer) e la fugace ma indispensabile presenza, in un breve cameo, di Chiara Mastroianni, vera Musa ispiratrice di tutto il cinema di Honoré.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: La belle personne
Anno: 2008
Durata: 90'
Regia: Christophe Honoré
Sceneggiatura: Christophe Honoré, Gilles Taurand
Fotografia: Laurent Brunet
Musiche: Alex Beaupain
Attori: Louis Garrel, Léa Seydoux, Grégoire Leprince-Ringuet, Agathe Bonitzer, Anaïs Demoustier

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THÉRÈSE DESQUEYROUX – Il saluto di Claude Miller

24/7/2013

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L'addio di un grande autore. Un commiato intriso di dolore e malinconia, ma anche decorato con un sottile filo di speranza.
Thérèse Desqueyroux è stato terminato pochi giorni prima della morte di Claude Miller, avvenuta il 4 aprile dello scorso anno, per poi essere presentato come film di chiusura al festival di Cannes. Tratto dall'omonimo romanzo di François Mauriac, è ambientato nei pressi di Bordeaux, negli anni Venti del secolo scorso, in un periodo in cui spesso i matrimoni erano decisi a tavolino dai genitori. È ciò che capita alla giovane e irrequieta Thérèse, fin da ragazzina destinata al figlio dei vicini di casa: una liaison incentrata sui ricchi possedimenti terrieri delle rispettive famiglie.
L'incipit, situato sei anni prima della cerimonia nuziale, ci mostra una ragazza vivace, allegra, libera: uno spirito ribelle, con “troppe idee per la testa”. Non è dunque difficile prevedere le conseguenze di un destino votato al sacrificio, capace di spegnere ogni velleità rivolta alla purezza dell'amore, a (s)vantaggio di una vita borghese cullata dal freddo della noia e dalle corde strette di una fiacca quotidianità priva di ogni slancio emotivo.
Thérèse si mostra cordiale e obbediente verso il marito Bernard, ma cova desideri di fuga; odia nel profondo l'amica del cuore Anne, perduta nell'amore vero, lancinante, immerso nella poesia della passione; resta incinta assolvendo la sua funzione di moglie e futura madre; naviga stanca nell'antro oscuro di giornate sempre uguali avvolte nel grigiore della banalità; infine lascia esplodere la sua frustrazione, attuando una meschina vendetta nei confronti dell'uomo colpevole di averla ridotta in catene.
Attento, elegante, curato nei costumi e nella ricostruzione scenografica del periodo di riferimento, il film di Miller segue schemi piuttosto prevedibili, senza cercare slanci stilistici innovativi e forse aleatori. Abbraccia il calligrafismo, indubbiamente, ma è ben lontano dal poter essere assimilato a certe terrificanti fiction televisive nostrane, come qualcuno ha scritto. Suvvia, non scherziamo: paragonare un lavoro come questo, più che dignitoso pur senza frecce folgoranti, ad alcune scempiaggini che si vedono nelle Tv italiche ci pare operazione errata, frettolosa e di dubbio gusto. Qui c'è comunque il cinema, nella sua accezione più lieve e sinuosa, composta e quadrata, solida e puntuale.
La storia di Thérèse Desqueyroux, nella sua veste vagamente flaubertiana, accoglie un disperato percorso di annullamento del sé, e rievoca con intelligenza la lobotomia spirituale a cui erano costrette tante donne del tempo. Nella sofferenza si partorisce l'inganno, nella tristezza nasce e cresce il demone della rivalsa; non c'è spazio per eroine senza macchia. Resta però l'odore soffocante dei pini bruciati, il senso di un'esistenza che scivola via troppo in fretta, il sogno perfino erotico di un'emancipazione impossibile, i gesti inconsulti che in fondo non si possono nemmeno spiegare con le forme sinuose della razionalità. 
Miller dipinge questo ritratto disperato passeggiando sottotraccia, attraverso reiterate dissolvenze che sfumano i contorni del dramma, affidandosi al viso dolce e agli occhioni neri di una brava Audrey Tautou, molto maturata come attrice rispetto agli esordi. Accanto a lei un Gilles Lellouche sobrio, misurato, quasi irriconoscibile rispetto ai bagordi dello splendido Les Petits Mouchoirs (Piccole bugie tra amici) e alla promiscuità orgasmica del controverso Les Infidèles. Con loro anche una sempre efficace Anais Demoustier (Il viaggio di Jeanne, Le nevi del Kilimangiaro, Elles), il miglior talento tra le nuove leve del cinema francese insieme a Deborah François.
Senza voli pindarici, con una messinscena quasi liturgica ma non per questo fiacca e soporifera, Claude Miller dipana il suo ultimo racconto, accompagnando per mano i suoi personaggi votati alla sconfitta sino alla sequenza finale, avvolta in frasi decisive che restano lì, vicino a un treno in partenza, ferme sulla punta della lingua e del cuore; parole che in un senso o nell'altro cambieranno, una volta per tutte, il destino della vita.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Thérèse Desqueyroux
Regia: Claude Miller
Sceneggiatura: Claude Miller, Natalie Carter (dal romanzo di François Mauriac)
Fotografia: Gérard de Battista
Montaggio: Véronique Lange
Durata: 106'
Anno: 2012
Attori: Audrey Tautou, Gilles Lellouche, Anais Demoustier, Catherine Arditi

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IL VIAGGIO DI JEANNE - Un sorriso verso la vita

8/4/2013

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Talvolta qualcuno chiede al sottoscritto il motivo di questo suo amore sfrenato nei confronti del cinema francese. Alla domanda si può tranquillamente rispondere evitando qualsiasi argomentazione linguistica e culturale, limitandosi ad affermare come il segreto stia tutto nelle immagini, nelle storie, nella quotidianità.
In fondo è sufficiente visionare alcuni lavori francesi usciti negli ultimi anni per comprendere la profondità emotiva e strutturale del cinema transalpino. La tourneuse de pages (La voltapagine) di Denis Dercourt, Stella di Sylvie Verheyde, Le premier jour du reste de ta vie di Rémi Bezançon, Les Neiges du Kilimandjaro di Robert Guédiguian, Un poison violent di Katell Quillévéré, Les petits mouchoirs di Guillaume Canet, Les grandes personnes di Anna Novion, La loi du marché e Quelques heures de printemps di Stephane Brizé, Respire di Mélanie Laurent, Fatima di Philippe Faucon: sono solo alcuni esempi, tasselli di quella straordinaria “medietà” compositiva con la quale i francesi, con clamorosa continuità, sono in grado di comporre piccoli sonetti, romanzi di formazione, racconti di vita, imbevuti di una tale grazia, semplicità, purezza, da renderli ogni volta gioielli d'inarrivabile fascino. In questi lavori, più ancora che nelle produzioni maggiori, dimora la bellezza unica del cinema d'Oltralpe. 
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Uno dei titoli sopra citati, Il viaggio di Jeanne, in originale Les grandes personnes, è l'esordio nel lungometraggio di Anna Novion, regista francese di madre svedese. Il film è stato realizzato nel 2008 e ha avuto una fugace apparizione nei cinema italiani l'anno successivo. 
Al centro della storia il bibliotecario Albert e la figlia adolescente Jeanne. Come ogni anno, nel periodo estivo, i due organizzano un viaggio alla scoperta di luoghi mitici situati in giro per l'Europa. Questa volta è il turno di Orust, isola della Svezia dove la leggenda narra sia nascosto il tesoro di un guerriero vichingo. Giunti a destinazione, si trovano loro malgrado a dover dividere un appartamento con altre due donne, con cui peraltro Jeanne sviluppa una solida amicizia. Separato dalla moglie e iper-protettivo nei confronti della figlia, Albert cerca di coinvolgerla nelle sue bizzarre ricerche, mentre la giovane pare più interessata alla vita sociale, ai ragazzi del posto, ad acciuffare un processo di crescita utile per intraprendere il percorso verso l'età adulta. L'idiosincrasia tra i due conduce verso l'inevitabile esplosione di conflitti da tempo latenti, ma la vacanza svedese, tra avventure e delusioni, sarà comunque utile affinché entrambi possano prendere coscienza di ciò che realmente vogliono estrarre dal succo della vita.
Candore, pienezza d'intenti, eliminazione di qualsiasi sovrastruttura aleatoria: Il viaggio di Jeanne sfrutta la fascinazione scenografica del luogo di riferimento e indaga nei volti e nell'anima dei due personaggi principali, seguendone con timidezza azioni e reazioni. Una classicheggiante storia di solitudine, abbandono, incertezza, rinascita, dipinta con la consueta, brillantissima “medietà” sopra espressa.
Un film lieve e ammaliante, così come il volto della protagonista, Anais Demoustier, folgorazione di questi ultimi anni: un'attrice limpida, naturale, pulita, seducente, coraggiosa e versatile, sia nei primi ruoli da ragazzina che nelle successive interpretazioni da donna ormai adulta (Une nouvelle amie di Ozon). Accanto a lei una garanzia, Jean-Pierre Darroussin, splendida faccia da cane bastonato, come sempre inappuntabile nella sua recitazione dimessa e sconfitta.
Il film della Novion è abile a inserire un paio di non-invadenti citazioni bergmaniane, e in qualche punto naviga non lontano dall'ottimo My Summer of Love di Pawlikowski. Ci mostra gli imbarazzi dell'adolescenza e le incomprensioni degli adulti, il desiderio di comprensione e i sogni forse non del tutto svaniti. Si muove compatto, rasenta la perfezione nella prima parte, cala lievemente d'intensità nella seconda e torna a salire nel finale; una conclusione dolce e amara, ben esemplificata dall'ultima inquadratura, in cui la macchina da presa si sofferma sui piedi di Jeanne, la quale, dopo aver portato per tutto il film anonime scarpe da ginnastica, indossa ora un paio di ciabattine infradito: un segno di freschezza, liberazione, crescita, emancipazione e speranza. Con un sorriso rivolto al cielo. Verso il futuro. Verso la vita.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Les grandes personnes
Anno: 2008
Regia: Anna Novion
Sceneggiatura: Béatrice Colombier, Anna Novion, Mathieu Robin
Fotografia: Pierre Novion
Musiche: Pascal Bideau
Durata: 84'
Uscita in Italia: 20-11-2009
Interpreti principali: Jean-Pierre Darroussin, Anais Demoustier, Judith Henry, Lia Boysen

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