La sempre più ampia famiglia resta lì, ancorata al dottore, anche quando il medico, a sue spese, acquista una casa più grande per ottenere maggiore spazio per la coppia, i bambini e se stesso. Lo straordinario altruismo di Pinget assume un po' alla volta i contorni di un sinistro e perverso senso di proprietà nei confronti di Mounir, a cui ha dato tutto, e Murielle. La paradossale e intoccabile convivenza grava con sempre più forza e pesantezza sulle spalle della donna, costretta a barcamenarsi tra quattro figli piccoli e due uomini che ne reclamano i doveri quotidiani ma non provano nemmeno a capire la sofferenza che la attanaglia, per l'ormai insopportabile mancanza di autonomia e libertà. La donna cade in una depressione via via più profonda; un viaggio verso il buio dell'anima che la conduce a una scelta radicale e totalmente devastante.
Joachim Lafosse, talentuoso autore belga transitato a inizio 2017 sugli schermi italiani grazie all'uscita dello splendido e struggente L'économie du couple (Dopo l'amore), ha sempre avuto come punto fondante del suo cinema l'analisi delle disfunzioni del rapporto di coppia. Un'ossessione spinta ai massimi livelli sin da uno dei lavori d'esordio, il mediometraggio Folie privée (2004), in cui, precorrendo ciò che avrebbe poi compiutamente mostrato in L'économie du couple, Lafosse metteva in scena la fine di un legame sentimentale, attraverso dinamiche intrise di impressionante violenza fisica e psicologica.
Con À perdre la raison, uscito nel 2012, purtroppo mai arrivato nelle nostre sale e ispirato a un fatto vero accaduto nel 2007, il regista conferma traiettorie simili, anche se in questo caso non è il dopo a essere sviscerato, bensì il durante, ovvero il percorso distruttivo che convince una donna a compiere il più atroce gesto immaginabile (l'omicidio di tutti i suoi figli). Per provare a tessere il suo discorso, Lafosse sceglie un percorso stilistico non nuovo, tralasciando ogni possibile suspense, presentando sin da subito il fatto compiuto e risalendo poi all'indietro, per portarci agli albori della relazione tra Murielle e Mounir e avanzare gradualmente sino al già svelato epilogo.
Come spiegato in varie interviste, l'interesse primario di Lafosse non è mostrare la verità (l'infanticidio multiplo compiuto da Geneviève Lhermitte), o enunciare i fatti con mero afflato descrittivo. Secondo la sua ideologia, il cinema non è infatti mai realtà, ma soltanto una personale rappresentazione della stessa. La domanda che accompagna tutto il film, la questione a cui l'autore cerca di fornire una risposta, non è quindi il cosa, bensì il perché, ovvero come sia possibile che una madre possa arrivare al punto di commettere un simile insano gesto. Un quesito terribile, il cui sviluppo si estende lungo i 105 minuti di durata tramite una messinscena angosciante, opprimente, durante la quale il sentiero di Murielle verso la follia si fa sempre più cupo e senza ritorno.
Ci vuole una certa resistenza, durante la visione di À perdre la raison. Tolta la parte iniziale, in cui due semplici ragazzi innamorati sorridono spensierati di fronte al poetico destino che si illudono li attenda, tutto il resto della pellicola è infatti un ammanettamento crudele, con cui si viene sbattuti in una cella soffocante in cui filtrano raggi di luce sempre più piccoli e miseri. La prigione in cui lo spettatore è costretto suo malgrado a rinchiudersi è la stessa di cui è preda Murielle, donna inerme di fronte a una moltitudine di doveri, obblighi e attese, in un barbarico micromondo familiare, di evidente influenza culturale araba, in cui tutti da lei pretendono e nessuno cerca neanche per sbaglio di comprenderne personalità, esigenze e dolori.
Così, giorno dopo giorno, Murielle tiene dentro il suo muto urlo di ribellione, mentre intorno a lei la vita si attorciglia (e si spegne) tra mille stancanti reiterazioni: bambini da concepire, vestire, lavare, nutrire; un marito che ogni tanto se ne torna in Marocco per respirare l'aria della terra natia ma nemmeno concepisce l'idea che anche la moglie possa aver bisogno di spazio autonomo e momenti di svago; un uomo sfaccettato e controverso, il dottor Pinget, responsabile di una sorta di ménage à trois eterno e insostenibile, nato su basi di reale altruismo e affezione per il figlioccio Mounir ma poi trasformatosi in un asfissiante gioco di possesso (verso la donna), dominio (verso il territorio comune) e ricatto (il mantenimento economico e logistico, dal quale deriva l'onere del rispetto nei suoi confronti).
A Murielle, in fondo, non manca niente. Con questa accusa i due uomini la colpevolizzano per ogni minimo tentativo di emancipazione. E invece, a lei, manca la libertà. Cioè tutto. Murielle è una farfalla con le ali insanguinate, una mosca imprigionata in una ragnatela, una vittima murata in una stanza da cui non ha alcuna chiave per uscire. Eppure, tutt'intorno, nessuno comprende. Al contrario, i suoi momenti di distrazione sembrano perfino assurdi, le sue mancanze ingiustificabili. Non ci sono amiche che la possano smuovere dal torpore, se non Fatima, sorella di Mounir, che però sta in Marocco, a tanta, troppa distanza; non ci sono aiuti con cui tirarsi su; c'è solo una psicologa, che per deontologia professionale smette di riceverla quando viene a scoprire che la donna condivide la casa con un altro medico.
Resta dunque soltanto la notte, sempre più nera. La noia, sempre più famelica. La distanza dalla vita, sempre più inesorabile. Sino alla raccapricciante risoluzione.
Lafosse, che sceglierà di “rappresentare” al cinema una storia vera anche nel successivo Les Chevaliers blancs (2015, con Vincent Lindon e Valérie Donzelli), ha spiegato come in fase di stesura della sceneggiatura una delle sue maggiori preoccupazioni fosse gestire le ellissi temporali che accompagnano i sette anni di durata del racconto. In effetti, se vogliamo assumere un certo puntiglio critico, l'unico difetto riscontrabile risiede proprio in alcuni tagli troppo netti e rapidi, dove si avverte la mancanza di ulteriori sfumature. Negli occhi e nel cuore, al termine di un'opera in ogni caso pregevolissima, resta comunque un sentimento importante e deciso, in cui si scontrano stupore, rabbia, tristezza e pietà; umori contrastanti, “provocati” e gestiti con invidiabile capacità e uno sguardo abilissimo nel dosare interventi registici a gamba tesa e lunghi momenti di osservazione silenziosa e appartata.
Vincitore di 4 premi Magritte e candidato all'Oscar per il Belgio, un film come À perdre la raison non avrebbe potuto avere un esito così felice senza l'apporto di un cast di prima qualità. Giusto quindi citare e applaudire le ottime performance di Tahar Rahim (protagonista tra gli altri di Un prophète di Jacques Audiard e Le Passé di Farhadi), bravo a districarsi con un personaggio a tratti davvero nauseabondo, Niels Arestrup, la cui classe interpretativa trova da anni sempre e solo conferme e Émilie Dequenne, l'indimenticabile Rosetta dei Dardenne, qui alla sua migliore prova di sempre, non a caso premiata a Cannes nella sezione Un Certain Regard. Un lavoro eccelso e straziante, quello compiuto dall'attrice classe 1981, ottima nel calarsi in un progressivo disfacimento emotivo che buca lo schermo in ogni scena e trova il suo compimento nel momento più bello e commovente del film, a bordo di un automobile, in una rara parentesi senza uomini e figli intorno, quando Murielle ascolta il commovente brano Femmes, je vous aime di Julien Clerc, iniziando la canzone con un lieve sorriso che si tramuta in un disperato pianto.
In quelle lacrime si racchiude l'essenza di una donna privata di ogni forma di gratificazione, nel nome di ruoli prestabiliti, egoismi ciechi e spietate catene pronte a sferzare la nuda pelle sino a ricoprirla di ferite non rimarginabili. In quelle lacrime c'è l'addio ai sogni e al futuro, alla gioia e al cielo; perché la farfalla ormai non potrà volare più.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: La vie en rose
Scheda tecnica
Titolo originale: À perdre la raison
Regia: Joachim Lafosse
Sceneggiatura: Mathieu Reynaert, Joachim Lafosse, Thomas Bidegain
Fotografia: Jean-François Hengens
Montaggio: Sophie Vercruysse
Anno: 2012
Durata: 106'
Attori: Niels Arestrup, Tahar Rahim, Émilie Dequenne, Stéphane Bissot, Mounia Raoui