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ROUBAIX, UNE LUMIÈRE – Una luce nell’ombra

15/7/2020

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​Roubaix. La città più povera di tutta la Francia. Un luogo un tempo florido, dove oggi invece restano soltanto povertà, degrado, squallore e delinquenza. Una terra desolata e desolante, teatro di nefandezze quotidiane: furti nei panifici per pochi euro, uomini di mezza età che danno fuoco alla loro macchina e poi fingono di essere stati assaliti per provare a intascare i soldi dell’assicurazione, adolescenti in fuga dai genitori, stupri nei sottopassaggi, ragazzi di strada che sopravvivono con mezzi poco leciti.
​
Questa è la normalità di Roubaix. Anche a Natale. Non è facile essere commissario di polizia in un posto così: ogni sforzo pare inutile, ogni crimine risolto è immediatamente sostituito da un altro, ogni delinquente consegnato alla giustizia è rimpiazzato in un istante. Eppure continui a fare il tuo lavoro, spinto da una missione quasi mistica. La tua famiglia è partita, se n’è andata altrove. Tu invece sei rimasto, perché questa terra la ami. Ci sei cresciuto, giocavi al parco da bambino, la senti parte della tua anima. Dunque vai avanti, pur nella solitudine e nell’eterna frustrazione.
​ 
E ormai conosci. Sai. Hai visto praticamente tutto, al punto che per smascherare colpevolezza o innocenza ti è sufficiente guardare una persona negli occhi o immedesimarti nel suo modus operandi. Riesci perfino a ricostruire alla perfezione il percorso esistenziale di un sospettato, seguendo unicamente istinto ed esperienza. Così prosegui, senza orari, tra interrogatori e deposizioni, tracce e confessioni, ricerche e collegamenti, per poi vagare insonne, di notte, ragionando sul nuovo caso da risolvere, tra i resti ossuti della città una volta bella e ricca. Cammini nel buio, alla ricerca della prossima luce nell’ombra. La luce della verità e della giustizia. Quella fiamma che dà un senso alla tua vita.
​
Roubaix. Terra natia di Arnaud Desplechin, in cui l’autore già era tornato più volte, ad esempio nello splendido Trois Souvenirs de ma Jeunesse. Casa, di nuovo riemersa dalle tenebre per il suo nuovo film, ispirato a un documentario del 2008 che prendeva spunto da un fatto reale accaduto nel 2002. Opera spiraliforme, la cui prima parte, frenetica e febbrile, si pone come cornice narrativa per contestualizzare la vicenda principale, ovvero l’omicidio di un’anziana signora, derubata e strangolata. Il segmento iniziale di Roubaix, une lumière (presentato in anteprima italiana al Sacher di Nanni Moretti e in uscita nelle sale in autunno, si spera) pare giungere direttamente dalle tasche di Les Misérables: un pressoché identico micromondo spietato e dolente, oscuro e corrosivo. Ma se il lavoro di Ladj Ly, pur nella sua efficacia, si pone a un livello di immediata fruibilità, non a caso capace di garantire un clamoroso successo di pubblico e critica, Desplechin come sempre va oltre, non si ferma, scava sotto la radice e costringe lo spettatore a un impegno maggiore, invitandolo a pazientare e scavare con lui per esplorare le terre di mezzo e gli anfratti sepolti.
​
Dall’analisi introduttiva, focalizzata sulle abitudini del commissario Daoud e sulle segnalazioni che ogni giorno arrivano alla centrale, si passa dunque al caso specifico. Dal generale si va al particolare, costituito dalla donna assassinata e da altre due donne, conviventi, possibili testimoni, poi possibili sospettate, infine probabili colpevoli del (mis)fatto. Due figure per certi versi antitetiche e complementari: Marie, debole, fragile, sottomessa e tanto innamorata, al punto di inventare bugie per difendere la compagna, scagionarla e assumere su di sé gran parte del danno; Claude, più forte, decisa e dominante, pronta a scaricare l’esiziale fardello dell’evento sulla schiena di Marie pur di proteggere se stessa e il figlio che in caso di condanna rischia di non vedere a lungo.
Tra loro, imperioso come un totem, Daoud, in grado di decifrare il fiume delle menzogne. Nei suoi metodi, tra interrogatori e contro interrogatori, inganni e piccoli trucchetti, tutta l’abilità del mestiere; nei suoi occhi calmi, invece, una sorta di affetto verso due ragazze perdute, imbruttite da alcool e fumo, che hanno imboccato un tunnel forse senza ritorno. A differenza degli altri agenti, perennemente urlanti allo scopo di sfiancare le ragazze e farle confessare, Daoud resta deciso ma quieto, mantiene i toni bassi, preferisce carezze ai ceffoni e tratta le insolite sospette “avec une infinie douceur” (Françoise Delbecq, Elle), come un padre premuroso di fronte a figlie responsabili di una marachella.
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In fondo, a ben vedere, abbiamo a che fare con “un grand film sur la compassion, où le portrait d’un bon flic, qui est aussi un flic bon, prend une dimension quasi spirituelle” (Jean Serroy, Le Dauphiné Libéré). Daoud ama i gatti e i cavalli, soffre per l’imbruttimento della città, si affligge per il difficile rapporto con un nipote chiuso in prigione, assiste alla costante distruzione dell’armonia. Ma non per questo sfoga sui presunti criminali la rabbia che potrebbe avvolgerlo. Al contrario: nel rapporto con i sospettati, soprattutto nel caso di Marie e Claude, il capo della polizia cerca sempre di guardare dentro al cuore di chi gli sta di fronte, sezionandolo per estrarre una misericordiosa scintilla tra i fantasmi nell’oscurità.
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La creatura filmica di Desplechin abbraccia connotazioni tipiche del polar e del genere procedural cercando al contempo di costruirsi un’identità unica. Non raggiunge i picchi dei suoi migliori lavori, titoli strepitosi come Un conte de Noël o il sopracitato Trois Souvenirs, e sconta qualche difetto di sceneggiatura, figure secondarie lievemente stereotipate (i chiassosi gendarmi alla centrale) e deviazioni abbozzate ma subito abbandonate o non abbastanza sviluppate (i problemi familiari di Daoud, la fede religiosa del tenente Louis), rifacendosi però con la forza dell’insieme e la magnifica profondità emotiva dei tre protagonisti, resi vibranti e intensissimi dalla bravura dei rispettivi attori. Roschdy Zem si gioca con pieno successo il ruolo della vita, portando a casa il César per la miglior interpretazione (e avrebbe meritato lo stesso premio anche a Cannes); Sara Forestier ipnotizza per maturità e compostezza, trasformandosi in un pulcino bagnato e tremante; Léa Seydoux rimane un gradino sotto, non facendo comunque mancare il suo carisma. 
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Attorno a queste tre figure da applausi si regge l’impalcatura di Roubaix, une lumière, saggio cinematografico sul concetto di verità e sulle mille sfumature intermedie che stanno dentro a qualsiasi verità. Un racconto che cresce piano, richiede attenzione ma sa ripagare in termini di qualità espressiva, trovando approdi da cui scaturisce un’emozione silente eppure chiarissima. Come nel momento in cui viene annunciato a Daoud l’arresto di uno stupratore seriale, finalmente catturato dopo lunghe ricerche e lui, con apparente noncuranza, si limita a sussurrare un “très bien” neutro e incolore. Nel suo sguardo, in quell’attimo, c’è però molto, molto di più. Gioia, soddisfazione, fierezza, sollievo. Luce.

Alessio Gradogna
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Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Roubaix, une lumière
Anno: 2019
Durata: 119’
Regia: Arnaud Desplechin
Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Léa Mysius
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Laurence Briaud
Musiche: Grégoire Hetzel
Attori: Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz

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JOURNAL D'UNE FEMME DE CHAMBRE - Cattivi servi, cattivi padroni

25/2/2016

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​“Esistono solo cattivi posti e cattivi padroni”, dice all'inizio la cameriera Célestine, nel momento in cui le viene offerto un impiego in un paesino di campagna presso i coniugi Lanraire. Per lei lasciare la mondanità di Parigi è un piccolo trauma, ma in fondo vivere in città o in un misero sobborgo non è poi così differente: i borghesi sono uguali dappertutto, con la loro crudeltà, i loro dispetti, la loro falsità e le perenni attenzioni e violazioni sessuali che Célestine, a causa della sua avvenenza, subisce regolarmente da anni.
La nuova quotidianità della ragazza non è diversa da altre; tanto lavoro, tanta fatica, una padrona infingarda che la umilia ogni volta che può e un padrone che cerca in tutti i modi di infilarsi nel suo letto, non contento di portare già avanti una relazione adultera con la procace cuoca di casa. La differenza, rispetto a simili contesti, è la presenza di Joseph, domestico, giardiniere e tuttofare; un uomo di fatica, silenzioso, sgarbato e ombroso, che la affascina sino al punto di farla innamorare.
Siamo agli inizi del Novecento, in un periodo in cui in Francia cova il germe dell'odio antisemita, di cui Joseph si fa agguerrito rappresentante. Célestine trascorre le sue giornate tra le vessazioni dei Lanraire e l'attrazione crescente per l'uomo che distribuisce volantini contro gli ebrei. Nel frattempo, nei rari attimi di quiete, la cameriera rivive nella mente frammenti di ricordi relativi a occupazioni e avventure vissute nel recente passato. Quando Joseph propone a Célestine di essere sua complice in un losco piano grazie al quale potranno fare soldi e trasferirsi insieme altrove, la ragazza accetta. Per lei, forse, ci sarà una nuova vita, impreziosita finalmente dall'agiatezza ma sporcata dal crimine.

Presentato in concorso al festival di Berlino 2015, uscito in Francia ad aprile dello stesso anno e non distribuito in Italia, Journal d'une femme de chambre è il quarto adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di Octave Mirbeau, pubblicato nel 1900. Vi si erano già cimentati due maestri del calibro di Jean Renoir e Luis Buñuel, con versioni peraltro estremamente diverse, molto più cauta e speranzosa la prima, profondamente eversiva la seconda. Benoît Jacquot, reduce dalle stroncature ricevute per il precedente 3 coeurs, sceglie un approccio se vogliamo più vicino all'opera buñueliana del 1964, pur restando a debita distanza dalla ferina carica antiborghese dell'autore spagnolo. Giovandosi di una buona ricostruzione storica e ambientale, Jacquot percorre la strada dell'ambiguità, mettendo in scena personaggi che non offrono né approdi felici né configurazioni divise in maniera netta tra il bene e il male. 
La bella Célestine, perenne oggetto di sfruttamento psicologico e fisico, è una figura ribelle e umorale; non una semplice vittima, bensì una tigre in gabbia, combattuta in ogni istante tra il sogno di sfuggire alla sua condizione di sottomessa e il desiderio di essere in qualche modo dominata. Lo stesso Joseph, dipinto da Mirbeau e Buñuel come uomo spregevole dedito a violenta propaganda antisemita e a stupri e omicidi di ragazzine, qui è disegnato su toni intermedi; su di lui gravano all'occhio dello spettatore evidenti sospetti, ma nessuna certezza. In questa oscillazione cromatica si situa uno dei punti di forza del film di Jacquot, autore (con Hélène Zimmer) di una sceneggiatura ombrosa e dolente, nella quale si sottolinea a piè sospinto l'inconciliabile divisione delle classi sociali (“nemmeno i cani dei ricchi sono mai poveri”), ma dove nessuno resta piantato in prestabiliti ruoli di martire o carnefice.
​
Candidato a tre premi César (miglior adattamento, scenografie e costumi), il lavoro di Jacquot è stato accolto da giudizi critici contrastanti: fredde reazioni a Berlino, giudizi negativi di gran parte della stampa italiana e internazionale, recensioni invece per la quasi totalità positive sulle riviste francesi (entusiasta, ad esempio, il parere di Positif). Semplice sciovinismo? No, non crediamo; sarebbe una spiegazione troppo banale.
La verità è che l'opera presenta numerosi aspetti interessanti, a partire proprio dal buon lavoro di scrittura, a cui però fanno da contraltare inciampi di regia piuttosto gravi, dall'uso smodato e superfluo degli zoom, alle tecniche sin troppo elementari di introduzione ai flashback, sino a un paio di scene assai maldestre (il vibratore al controllo della dogana, la morte di un giovane rampollo durante un atto sessuale). Peccato, perché questa nuova rilettura offre una rappresentazione d'epoca non priva di qualità, mostrandoci le diverse sfumature di due condizioni agli antipodi, i padroni e i servi, tra le quali però proliferano più somiglianze di quanto si potrebbe mai pensare.
Il germe della violenza e della vendetta reclama la sua fame, dai primi passi della messinscena sino all'epilogo (molto più fedele al romanzo rispetto alla versione di Buñuel), in un film che cita Jacques Demy (i marinai di Cherbourg), si ammanta di sussurri chabroliani e sfrutta le luci naturali, riportandoci vagamente alle atmosfere di Barry Lindon, salvo poi scemare in un buio intriso di speranze ma privo di reali conferme.
A dare volto alla vicenda un'algida Léa Seydoux, ammaliante ma non sempre a suo agio in una parte tutt'altro che scontata, e lo straordinario Vincent Lindon, nell'anno della sua definitiva e meritatissima consacrazione (il trionfo a Cannes come miglior attore per La loi du marché), qui in un ruolo rude e taciturno, ma come sempre grandioso per la sua capacità di trafiggere lo schermo anche soltanto con un gesto, un movimento, uno sguardo. Con loro un quasi irriconoscibile Patrick D'Assumçao (lo ricordiamo pingue e sbarbato sulla spiaggia de L'inconnu du lac), bizzarro militare che si diverte a ingurgitare ratti e bruchi, esponente di una brutalità illogica che può esplodere da un istante all'altro, oggi come allora, sorvolando i confini del tempo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Journal d'une femme de chambre
Anno: 2015
Durata: 95'
Regia: Benoît Jacquot
Soggetto: Octave Mirbeau (romanzo)
Sceneggiatura: Benoît Jacquot, Hélène Zimmer
Fotografia: Romain Winding
Scenografia: Katia Wyszkop
Costumi: Anaïs Romand
Attori: Léa Seydoux, Vincent Lindon, Hervé Pierre, Clotilde Mollet, Patrick D'Assumçao

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LA BELLE PERSONNE - Il cuore in fuga

4/1/2014

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Ormai da alcuni anni il pubblico francese (e non solo) ha imparato ad amare Christophe Honoré, autore apprezzabile per la versatilità con cui sa costruire opere che spaziano dalla gloriosa tradizione del cinema autoctono a tematiche scomode e non prive di coraggio e ambizione. 
Salito alla ribalta con Ma Mère, dramma edipico buio ed estremizzato, e Les Chansons d'Amour, frizzante lavoro capace di attualizzare i tratti distintivi della commedia musicale, lo abbiamo di recente applaudito per lo splendido Les Bien-Aimés, presentato al Torino Film Festival 2011 e poi purtroppo mai distribuito nelle sale italiche. Nel mezzo, andando a ritroso, ha diretto anche l'interessante Homme au bain, il notevole e malinconico Non ma fille tu n'iras pas danser, e un ulteriore film rimasto inedito da noi, La Belle Personne, uscito in patria nel 2008.
Liberamente ispirato al romanzo La principessa di Clèves, di Madame de la Fayette, da cui già Manoel de Oliveira aveva tratto il film La Lettera, il lungometraggio di Honoré trae spunto dalla narrazione originale, trasportandola però nel presente. Al centro della scena la giovane e ombrosa Junie, ragazza sedicenne che dopo la morte della madre si trasferisce cambiando città e scuola. Al liceo entra a far parte di una consolidata compagnia di amici, e sviluppa un rapporto sentimentale con Otto, ragazzo romantico, timido e idealista. Non molto tempo dopo, inizia a covare una forte attrazione verso Nemours, il suo professore di italiano, non nuovo a storie con studentesse ben più giovani di lui. Junie tenta di combattere questa pericolosa infatuazione, allontanandola con ogni mezzo possibile, ma alla fine è proprio Nemours a sviluppare un amore irresistibile, e forse impossibile, nei suoi confronti.
Per La Belle Personne il regista ha a disposizione tre tra i migliori attori usciti allo scoperto nel cinema francese in quest'ultimo decennio: Louis Garrel, Léa Seydoux e (in un ruolo minore) Anais Demoustier. Con il giusto acume ne sfrutta a dovere le rispettive qualità, sottolineando a ogni inquadratura soprattutto il fascino maledetto del primo e le cupe vibrazioni della seconda, per comporre un quadro stilistico che accarezza l'adolescenza traghettandola verso i complessi lidi dell'età adulta. Nel film si analizzano con discreta puntualità le dinamiche sociali che caratterizzano il gruppo come insieme di elementi eterogenei e non sempre armonici: da qui scaturiscono invidie, gelosie, rancori, segreti e legami di devastante intensità.
I compagni di scuola frequentano ogni giorno lo stesso bar, alternano complicità e incomprensioni, sviluppano l'irrequieta quotidianità tipica dell'età di riferimento. Il loro senso dell'amore travalica i ristretti confini del microcosmo d'appartenenza, facendosi universale strumento di devozione e condanna, guidandoli verso territori inattesi nei quali la gioia della scoperta cozza con gli ostacoli della vita, sino a conseguenze perfino tragiche. L'eterosessualità e l'omosessualità compongono due facce di un'unica medaglia, e studenti e professori annullano le distanze per farsi veicoli delle stesse incertezze. Il triangolo Otto-Junie-Nemours morde i freni della comune apparenza, mentre tutt'intorno altre storie non meno intense condiscono una ricetta filmica calibrata e appassionante.
Devoto alla musica come asse portante di qualsiasi prodotto cinematografico, Honoré anche questa volta non rinuncia a far cantare i suoi personaggi (anche se qui avviene in una sola occasione), e inserisce in scene fondamentali la voce ipnotica di Maria Callas e il testo di “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e Poveri, trovando come sempre un gustoso punto d'incrocio tra parole, note e significazioni visive. Il romanzo di riferimento, ambientato nel 1600, è soltanto una base di avvio, utile a comporre i segni del melò: i duchi e le dame di Madame de la Fayette si trasformano nei riccioli scomposti e nelle cravatte disordinate di Garrel e nei seducenti silenzi della Seydoux, mina vagante pronta a esplodere in ogni istante. Tra i due l'amore nasce, cresce, si allontana e si avvicina, fugge e conduce alla follia; i baci rubati o mai dati diventano il simbolo di un futuro inesistente. Resta infine soltanto il mare, fonte pura di abbandono e rinascita.
Come detto, La Belle Personne è rimasto inedito in Italia, ma è stato comunque premiato al Festival del cinema europeo di Lecce, e ha ricevuto due nomination ai César nel 2009, come miglior adattamento e per l'interpretazione della Seydoux, candidata nella categoria di miglior promessa femminile in una cinquina che comprendeva anche la stessa Anais Demoustier (in lizza però per Il viaggio di Jeanne di Anna Novion) e Deborah François (premiata per Le premier jour du reste de ta vie di Rémi Bezançon). 
Nel film vanno infine segnalate la presenza di Agathe Bonitzer (futura protagonista di Une bouteille à la mer) e la fugace ma indispensabile presenza, in un breve cameo, di Chiara Mastroianni, vera Musa ispiratrice di tutto il cinema di Honoré.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: La belle personne
Anno: 2008
Durata: 90'
Regia: Christophe Honoré
Sceneggiatura: Christophe Honoré, Gilles Taurand
Fotografia: Laurent Brunet
Musiche: Alex Beaupain
Attori: Louis Garrel, Léa Seydoux, Grégoire Leprince-Ringuet, Agathe Bonitzer, Anaïs Demoustier

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