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VOIR DU PAYS - Ritorno (d)alla guerra

15/3/2017

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​Aurore e Marine sono due soldatesse. Insieme alla loro truppa, composta quasi esclusivamente da maschi, sono di ritorno dall'Afghanistan. Prima di poter riabbracciare la Francia, il gruppo deve però compiere una sosta di tre giorni in un hotel 5 stelle a Cipro, dove è previsto un momento di decompressione durante il quale compiere esercizio fisico, rilassarsi con un po' di svago ed esternare i traumi vissuti sul campo di battaglia attraverso sedute individuali e collettive di realtà virtuale. Il progetto, in teoria destinato a liberare la mente dei soldati prima di reintrodurli nella normale vita civile, si trasforma invece in un processo di autoanalisi in cui i ragazzi e le ragazze si troveranno a espletare rancori, paure e repressioni. 

L'occhio di Aurore. Proiettato verso il futuro, ma ancora offuscato dagli orribili ricordi di un recente passato che mai potrà dimenticare. La macchina da presa lo inquadra in dettaglio, per poi allargare leggermente l'inquadratura e andare a esplorare il resto del viso, scavando a fondo nell'epidermide, a caccia di una verità racchiusa in ogni poro. Inizia così Voir du pays, opera seconda delle sorelle Delphine e Muriel Coulin dopo il pregevole 17 filles (17 ragazze), uscito anche nei nostri cinema.
Non sono pochi i punti di raccordo con il film d'esordio che le Coulin insinuano nella narrazione: l'ineluttabile guerra dei sessi, l'esplorazione attenta delle fragilità del mondo femminile, lo scontro eterno tra la sensibilità di donna e l'istintuale brutalità testosteronica tipicamente maschile. Mentre però il racconto di 17 filles si concentrava sulle precipue derivazioni di un microcosmo limitato, in questo caso il discorso assume contorni universali, allargando il contesto verso le insanabili ferite che ogni soldato e soldatessa porta con sé al ritorno dal fronte.
Premiato lo scorso anno a Cannes (miglior sceneggiatura nella sezione Un certain regard) e presentato in concorso al Bergamo Film Meeting, Voir du pays si nutre dello straniamento causato dai contrasti, primo fra tutti quello tra la polvere e il sangue della guerra e i profumi ricchi e sensuali dell'hotel extra-lusso in cui la truppa soggiorna durante i tre giorni di (presunta) decompressione. L'arrivo dei soldati presso la struttura, la loro camminata in divisa militare tra ampie piscine, colori dorati e turiste che bevono cocktail ballando seminude (“dal burqa al tanga”, afferma divertito uno dei ragazzi), simboleggia senza possibilità di errore l'antinomia tra mondi inconciliabili e realtà opposte che ben difficilmente potranno trovare un reale punto d'unione.
L'universo programmatico nel quale i protagonisti sono costretti a sostare non soltanto non sortisce il teorico effetto desiderato, ovvero la liberazione dai traumi di guerra, ma risulta invece suo malgrado utile per dare sfogo a istinti troppo a lungo tenuti prigionieri nei cassetti dell'anima. Aurore e Marine, amiche da sempre pur nella loro netta diversità caratteriale, cercano l'emancipazione dalla gretta ideologia ancora dominante, secondo la quale le donne non sono affatto necessarie in battaglia, ma portano sfortuna e spesso si rivelano essere soltanto un ostacolo. A testa alta, sfidando l'arroganza muscolare dei colleghi uomini, le due ragazze mantengono salda la propria volontà, anche se la ribellione al ruolo preconfezionato che la società vorrebbe loro affibbiare genera a sua volta pruriti di vendetta nelle menti logore dei maschi; una situazione in delicato equilibrio e perenne pericolo, prevedibilmente indirizzata verso conseguenze spiacevoli.
Lo sguardo partecipe delle registe cambia centro focale più volte, soffermandosi in molti momenti sui turbamenti di Aurore e Marine ma dedicando ampio spazio anche alle diverse personalità degli altri soldati, ognuno alle prese con incubi e rimorsi per ciò che è accaduto nelle settimane precedenti. Cicatrici che presumibilmente non scompariranno più, confermando in ultima istanza il concetto secondo cui, per chi l'ha vissuta in prima linea, la guerra non può finire mai.
​
Non sempre circondato dalla giusta intensità espressiva e appesantito da un finale sovrabbondante, Voir du pays riesce comunque a lasciare il segno, per la sincerità d'intenti che muove il lavoro delle autrici e per la bontà degli interpreti, a partire dalla sempre più splendente Ariane Labed (Fidelio, l'odyssée d'Alice, Une place sur la terre), ipnotica in ogni movimento, a suo agio in ogni ruolo, dotata di un magnetismo clamoroso e destinata, se lo vorrà, a un futuro da numero uno. Accanto a lei la scontrosa e controversa Soko (attrice e cantante di successo) e altri volti francesi che già abbiamo imparato a conoscere, tra i quali vale la pena citare almeno Karim Leklou (protagonista del recente Coup de chaud, visto al TFF) e Damien Bonnard (protagonista del bellissimo Rester Vertical di Guiraudie).
Accompagnati dai loro visi, consumati da esperienze purtroppo indimenticabili, ci tuffiamo anche noi nelle acque limpide di Cipro, rielaborando al contempo il complesso destino di tutti quei ragazzi che vengono mandati alla guerra per difendere il proprio paese, salvo poi, a missione conclusa, dover affrontare un ulteriore compito altrettanto difficile: tornare alla vita. 

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Festival Report


Scheda tecnica

Titolo originale: Voir du pays (titolo inglese The Stopover)
Regia: Delphine e Muriel Coulin
Sceneggiatura : Delphine et Muriel Coulin (dal romanzo di Delphine Coulin)
Fotografia: Jean-Louis Vialard
Montaggio: Laurence Briaud
Durata: 102'
Anno: 2016
Attori: Soko, Ariane Labed, Ginger Romàn, Karim Leklou, Damien Bonnard

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RESTER VERTICAL - Senza compromessi

2/12/2016

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​Léo è uno sceneggiatore. In fuga da tutto e in cerca di se stesso. Dovrebbe iniziare la stesura di un nuovo copione, ma le idee latitano. Così l'uomo si mette in viaggio, inoltrandosi nella regione della Lozère. Incontra un giovanetto per il quale mostra sin da subito un interesse non corrisposto; poi conosce una ragazza, una pastorella che aiuta il padre a portare le pecore al pascolo. I due si innamorano e fanno un figlio. Dopo il parto, però, la ragazza dimostra insofferenza nei confronti del neonato, lo trascura sempre più e alla fine se ne va. Léo si trova a dover badare da solo al bambino, mentre i soldi che gli erano rimasti a disposizione vanno a esaurirsi. Inseguito dal suo produttore il protagonista, insieme al figlioletto, prosegue un bizzarro pellegrinaggio che lo porta a doversi confrontare con il giovanetto di cui si era invaghito, con l'anziano uomo presso per il quale il ragazzino abita e con una sorta di sciamana che vive nei boschi, fino a trovare un approdo a casa del padre della (ormai ex) compagna. 

Tre anni fa Alain Guiraudie stupì la realtà cinefila europea con L'inconnu du lac (Lo sconosciuto del lago), opera splendente a tutti i livelli: messinscena, contenuti e forza visiva. C'era dunque molta curiosità nel pensare come sarebbe stato il successore di quel gioiello, e ci si domandava se l'autore avrebbe mantenuto lo stesso tipo di linee guida e se avrebbe osato allo stesso modo (o ancor di più). Guiraudie, probabilmente conscio della difficoltà di replicare la perfetta compattezza dell'opera precedente, ha invece scelto una strada molto diversa, costruendo una partitura totalmente anarchica con cui spiazzare lo spettatore in ogni istante.
In Rester Vertical, passato in concorso a Cannes e visto per la prima volta in Italia al Torino Film Festival, assistiamo a una sarabanda all'apparenza semi-farsesca, all'interno della quale si aprono però numerose tematiche tutt'altro che giocose: il senso di responsabilità di un padre, pur scapestrato, nei confronti del proprio figlio; il soffocamento interiore di una madre occlusa dai doveri della condizione genitoriale; la complessità delle relazioni interpersonali tra persone vittime di attrazioni “sbagliate”; la resistenza delle barriere sociali a frantumare i muri di omertà che ancora troppo spesso ci avvolgono. 
Léo, giullare alla deriva, è il volto che ci accompagna in un viaggio sbalestrato e fiammante, dove le teoriche direzioni principali della vicenda deviano sempre e comunque verso l'altrove, al punto che in certi momenti ci si chiede perfino se ciò a cui si sta assistendo corrisponda alla realtà o non risieda invece soltanto nella fantasia del personaggio. 
Guiraudie semina indizi e poi li nasconde con abilità, si diverte e ci diverte, dando sempre, peraltro, l'impressione di padroneggiare con mano certa e sicurissima la sua straniante e affascinante creatura filmica. L'autore francese conferma l'abilità icastica già mostrata ne L'inconnu du lac, la delicatezza fotografica e l'ottimo utilizzo delle scenografie naturali; al contempo, pur con fare bislacco, tesse una bellissima riflessione sull'emancipazione sessuale, anelato obiettivo per il quale poter provare attrazione carnale verso chiunque, superando qualsiasi confine di genere ed età, in un glorioso trionfo dell'amore fisico incondizionato. 
In Rester Vertical le scene hard sono limitate, ma assistiamo al primissimo piano di una vagina, a un parto in diretta, all'innamoramento di un uomo per il padre di suo nipote, alla sodomia/eutanasia tra Léo e un anziano in punto di morte. Quest'ultima, senza dubbio la scena clou, su cui già tremiamo all'idea di tagli censori nel caso di una futura (ma improbabile) distribuzione nostrana, è la coraggiosa e definitiva consacrazione di un'idea di sesso (e di cinema) che scaglia all'aria inibizioni e paure, timori intellettuali e connivenze morali, per farsi oggetto di desiderio viscerale e mirabile spregiudicatezza.
​
Il titolo del film è spiegato nel momento in cui Léo (Damien Bonnard) e il padre della ex compagna, durante il pascolo, vengono circondati da pericolosi e affamati lupi: per sopravvivere, per non farsi sbranare, è necessario non distendersi, nemmeno chinarsi, bensì restare in piedi, dunque in posizione verticale. Una metafora perfetta, per il film in sé e per l'opera artistica a tutto campo: non cedere alla paura e ai compromessi ma rimanere dritti, a testa alta, con sguardo fiero e occhi rivolti là, verso quel meraviglioso paesaggio chiamato libertà.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: La vie en rose, Torino 34


Scheda tecnica

Titolo originale: Rester vertical
Anno: 2016
Regia: Alain Guiraudie
Sceneggiatura: Alain Guiraudie
Fotografia: Claire Mathon
Montaggio: Jean-Christophe Hym
Interpreti: Damien Bonnard, Christian Bouillette, Laure Calamy, India Hair, Raphaël Thierry
Durata: 100'

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