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LES GARDIENNES – Il coraggio delle donne

24/10/2018

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​“Generale dietro la collina, ci sta la notte, crucca e assassina, e in mezzo al prato c’è una contadina, curva sul tramonto sembra una bambina…”

​(Francesco De Gregori, "Generale")

Prima Guerra Mondiale. Uomini al fronte. Figli e mariti che rischiano la vita per la patria. Nel frattempo, lontana dalle bombe, una fattoria. Immersa nel verde. Un luogo bucolico dove madri e mogli portano avanti l’attività di famiglia, lavorando duramente nei campi dall’alba al tramonto, ogni giorno. La semina, la mietitura, il raccolto. Il bestiame. Il sudore. La fatica. Senza pause. Nell’attesa del ritorno dei propri cari. Con la speranza di vederli riapparire da un momento all’altro lungo il viale che porta alla fattoria, congedati o perlomeno sgravati dalla battaglia per qualche giorno di permesso. Lo sguardo là, verso quel viale, con il sogno di riabbracciarli e allo stesso tempo il terrore di non vederli tornare più.
​Settimane, mesi, scanditi dai ritmi incessanti del lavoro. Progettando il difficile acquisto di innovativi e costosi macchinari con cui alleggerire lo sforzo. Il caldo e poi il freddo, i mancamenti, la forza di volontà. Donne che vacillano ma resistono. Compiono scelte talvolta estreme per difendere la sacralità e il buon nome della famiglia. Si impegnano fino allo stremo per accumulare risparmi e darsi una qualsiasi possibilità di futuro. Donne che pregano di non ricevere la visita di un uomo vestito di nero attraverso il quale conoscere l’insopportabile notizia del soldato “morto con onore”. Donne che combattono la loro personale guerra e intanto amano. E sperano. Aspettando la fine dell’incubo. 
​
Xavier Beauvois, attore e regista classe 1967, dopo alcune opere giovanili già molto apprezzate si era definitivamente imposto all’attenzione generale nel 2010 con lo splendido Des Hommes et des Dieux (Uomini di Dio), premiato a Cannes e vincitore di un meritatissimo premio César come miglior film francese dell’anno. In questo nuovo lavoro, uscito nei cinema francesi alla fine del 2017 e purtroppo al momento non distribuito in Italia, l’autore adatta per il grande schermo un romanzo pubblicato nel 1924 da Ernest Pérochon, la cui copia gli era stata regalata tempo prima dalla produttrice Sylvie Pialat ed era rimasta a lungo sul comodino prima che l’autore la leggesse e se ne innamorasse. Un romanzo ricco di tragedie, malattie e dolori, che Beauvois ha voluto parzialmente mitigare pur senza rinunciare all’inevitabile cupezza del contesto. Un buio interiore posto in piena antitesi con la straordinaria luce naturale di un luogo racchiuso nella bellezza atavica della natura. 
Come in Des Hommes et des Dieux, anche qui il regista non rinuncia al lirismo, alla ricercatezza formale, alla bellezza estetica (incarnata dalla sontuosa fotografia di Caroline Champetier, non a caso la stessa operatrice del film del 2010, nonché di Holy Motors di Carax e Les Innocentes di Anne Fontaine), accompagnando lo spettatore in un immobile viaggio liturgico in cui si abbracciano i colori suadenti del bosco, dei fiori, delle spighe di grano. Eppure, in una confezione di notevole eleganza, Beauvois riesce a trovare anche concretezza, fornendo un incisivo ritratto di donne forti e coraggiose che portano sulle proprie spalle il costante peso della perdita ma riescono ad asciugare le lacrime e dedicare ogni stilla di energia ai campi, alle attività da svolgere giorno dopo giorno, al mantenimento della fattoria come obiettivo primario e intoccabile. Sfidando lo sfinimento e proseguendo sempre a testa alta, a denti stretti, chiudendo il loro cuore nel nome della saggezza oppure aprendolo a un desiderio di emancipazione e/o verso un genuino sogno d’amore.
​Per oltre due ore anche noi stiamo là, alla tenuta dei Paridier, ipnotizzati davanti a un film in cui si parla poco e si lavora tanto, tantissimo. Lo stile di Beauvois, quasi sacrale e mai invasivo, accoglie panoramiche silenti, primi piani di volti scavati dallo sforzo, note solenni del grande compositore Michel Legrand e connotazioni vicine al western. Una visione che richiede un minimo di concentrazione, in teoria priva del puro elemento emozionale, in realtà fiera, intensa e toccante.

​Per dare corpo e tangibilità alle sue protagoniste, Beauvois si affida alla sempre bravissima Nathalie Baye, alla discreta Laura Smet (madre e figlia nella vita reale, per la prima volta insieme su un set cinematografico) e alla debuttante Iris Bry. Accanto a loro alcuni uomini, presenze assenze con minutaggi inferiori, tra i quali si segnala Olivier Rabourdin (che ricordiamo ad esempio per l’ottimo Eastern Boys). Quattro nomination ai César per Les Gardiennes, compresa quella come miglior speranza femminile proprio per l’esordiente Iris Bry, il cui approdo nel mondo del cinema è stato a dir poco sorprendente. Si tratta infatti di una ragazza che non aveva alcuna esperienza di recitazione né alcun progetto di diventare attrice. Un giorno, per caso, all’uscita di una libreria, è stata notata dalla direttrice del casting Karen Hottois, che colpita dal suo viso l’ha inseguita e fermata per strada, chiedendole se fosse interessata a fare un provino per un film. L’ennesima dimostrazione di come, a volte, il destino possa davvero cambiare tutta una vita.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Les Gardiennes
Regia: Xavier Beauvois
Sceneggiatura: Xavier Beauvois e Frédérique Moreau (dal romanzo Les Gardiennes di Ernest Pérochon)
Montaggio: Marie-Julie Maille
Costumi: Anaïs Romand
Fotografia: Caroline Champetier
Musiche: Michel Legrand
Anno: 2017
Durata: 134’
Attori: Nathalie Baye, Iris Bry, Laura Smet, Cyril Descours, Gilbert Bonneau, Olivier Rabourdin, Mathilde Viseux-Ely

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EASTERN BOYS - La solitudine dell'amore

6/2/2015

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Nato in Marocco nel 1962 e cresciuto a Aix-En-Provence, Robin Campillo debutta alla regia nel 2004 con Les Revenants, film horror tornato in auge negli ultimi tempi perché da questa pellicola è stata tratta la bellissima serie Tv approdata in Italia su Sky a fine 2014. Dopo il promettente esordio l'autore franco-marocchino non realizza però altri lavori dietro la macchina da presa; diventa invece uno dei più stretti collaboratori di Laurent Cantet, per il quale si occupa del montaggio, e in molti casi anche della sceneggiatura, di Risorse umane, A tempo pieno, Verso il Sud, La classe, Foxfire e Ritorno a L'Avana. Nel 2013 finalmente Campillo decide di realizzare un nuovo film in veste di regista e dà vita a Eastern Boys, pellicola che vince la sezione Orizzonti a Venezia ed esce in Francia ad aprile 2014, riscuotendo notevoli consensi da parte della critica d'Oltralpe. Il film conquista anche tre nomination ai César, inclusa quella come miglior film dell'anno.

Eastern Boys inizia con una concitata ed estremamente scenografica sequenza girata all'interno della Gare du Nord di Parigi, per la quale Campillo si è ispirato a Uomini di domenica, film semi-documentaristico del 1930 scritto da Billy Wilder. Un gruppo di ragazzi, di provenienza russa, ucraina e moldava, bighellona all'interno della stazione, studiando i movimenti dei tanti viaggiatori che la affollano, in cerca di qualche sprovveduto da derubare. Un elegante uomo tra la quarantina e la cinquantina, Daniel, individua uno di questi ragazzi, Marek, lo segue fino a quando quest'ultimo è solo, lo approccia e gli domanda una prestazione sessuale; raggiunto un accordo sul prezzo gli fornisce il suo indirizzo, affinché il ragazzo si rechi a casa sua il giorno seguente a un'ora prestabilita. 
Quando giunge il momento e suona il citofono, Daniel apre la porta convinto di trovarsi di fronte Marek, ma nel giro di pochi minuti l'abitazione è invasa da tutta la banda che aveva visto il giorno prima alla stazione. Da quel momento inizia un crocevia di eventi che cambierà profondamente e definitivamente tutta la sua vita. Daniel viene derubato, resta inebetito di fronte all'inganno subito, ma quando qualche giorno dopo Marek bussa alla sua porta, l'uomo accantona la paura e il rancore per lasciare strada all'amore; le conseguenze saranno complesse e molti saranno i rischi da affrontare.

Il film di Campillo è tratto dalla vera storia di un uomo che ha adottato un ragazzo dopo esserne stato l'amante qualche anno prima, per favorirne i diritti relativi alla futura eredità; una sentenza che ha generato un forte dibattito in Francia, paese peraltro sicuramente molto più avanti rispetto al nostro nell'accettazione culturale e legislativa delle coppie sganciate dalla tipica struttura familiare. Partendo da questa base, l'autore ha scritto e diretto un film ricchissimo di tematiche, con significazioni profonde che si sviluppano a partire dalla difficile situazione di giovani immigrati costretti a vivere lontano da casa e a tirare avanti con mezzucci spesso ai limiti (e oltre) della legalità. 
I ragazzi dell'est soggiornano in un albergo parzialmente tramutato in centro di accoglienza e obbediscono alle regole imposte dal loro capo, non a caso soprannominato Boss, che si impone come una sorta di padre-padrone a cui fare riferimento; si tratta di un individuo umorale, preda di inquietanti scatti nevrotici ma anche capace di momenti di sorprendente dolcezza (come dimostra la tenera scena in cui accarezza e bacia i piedi della moglie). Se dunque in teoria Marek e i suoi compagni sono liberi di fare ciò che vogliono, in realtà le loro azioni sono sempre sorvegliate, nell'ambito di una struttura gerarchica che impone leggi ben precise la cui mancanza di rispetto genera violente punizioni. 
Marek prova ad allontanarsi dalle imposizioni del clan, trasferendosi in pianta stabile a vivere a casa di Daniel, che nel frattempo si è innamorato di lui e ha deciso di mantenerlo e proteggerlo; da quel momento inevitabilmente il giovane si espone al rischio di rappresaglie da parte di Boss, deciso a mantenere unita, in un modo o nell'altro, la famiglia di cui si è autoproclamato leader. L'ultima parte del film, forse la meno efficace a causa di un certo schematismo narrativo, assume dunque toni tesi e concitati, scivolando verso una resa dei conti inevitabile. 

Immagine
Al di là della risoluzione del racconto, il film di Campillo sorprende e cattura l'attenzione per come riesce a dipingere con invidiabile efficacia il rapporto tra Daniel e Marek, soggetti che all'inizio non riescono quasi neanche a comunicare tra loro per via delle barriere linguistiche, si limitano al sesso e a pochi gesti di raccordo e assenso, salvo poi sviluppare un legame che muta pelle e si trasforma mano a mano che i giorni passano e l'intimità tra i due cresce e si sviluppa. Daniel è un uomo profondamente solo; abbandonato dal suo ex amante, dedito a un lavoro che non ci viene mai rivelato, vive in una casa piena di ninnoli e ricchezze materiali in fondo utili solo per nascondere il senso di profonda tristezza e malinconia che scaturisce in ogni istante dal suo volto. L'incontro con Marek gli regala una luce nuova, ben sottolineata da piccoli gesti come la gioia nel poter desinare insieme al ragazzo, anche senza bisogno di scambiarsi chissà quali parole, eliminando finalmente il vuoto di una vita fondamentalmente priva di senso. 
L'eccitazione nei confronti di Marek, risolta in scene di sesso niente affatto volgari, in cui anzi Campillo evidenzia con brillante acume momenti di umanissimo e comune imbarazzo come l'attimo in cui bisogna spogliarsi, perde poco alla volta le proprie connotazioni. Da semplice amante Marek diventa per Daniel qualcosa d'altro, un compagno da salvaguardare in ogni modo, un amico con cui combattere lo spleen del quotidiano, poi infine un figlio adottivo, a cui regalare una stanza tutta per sé, un telefonino e le chiavi di casa. 
In questa magnifica trasmutazione di senso risiede gran parte della forza di Eastern Boys, pellicola abile a intrecciare tanti fili senza mai perdere le redini del discorso, e dotata di sufficiente forza per vibrare attraverso comparti di stordente impatto, come nel caso della lisergica sequenza iniziale in cui la banda occupa la casa di Daniel: una lunga e ipnotica scena accompagnata da musica house, che lascia storditi e al contempo estremamente affascinati per la bizzarria di ciò che accade davanti ai nostri occhi e per l'incredibile reazione di Daniel. Da qui in avanti il film alterna sorrisi e sofferenze, speranze e paure, scomode realtà e rischiose ambiguità che restano impresse nella mente ben oltre il termine della visione. 
Una segnalazione a parte meritano i tre attori protagonisti, tutti di ottimo livello: Olivier Rabourdin, artista di ampia esperienza cinematografica e teatrale, già ammirato ad esempio in Welcome di Lioret e nello splendido Des hommes et des dieux di Beauvois; il giovane e intenso Kirill Emelyanov, nominato ai César; il grintoso Daniil Vorobjev, scoperto da Campillo dopo la visione di una lunga serie di film e telefilm russi, scelto in un primo tempo per il ruolo di Marek e poi destinato alla parte di Boss per la troppa differenza di età con il personaggio previsto dalla sceneggiatura: una scelta quasi obbligata ma risultata più che vincente.
Nei volti di questi tre personaggi Eastern Boys, destinato purtroppo a restare inedito nei cinema italiani ma rintracciabile online e visibile in streaming con sottotitoli nell'ambito del My French Film Festival, si impone come uno dei più stimolanti e originali titoli francesi realizzati negli ultimi 2-3 anni, al netto delle imperfezioni che lo accompagnano; un lavoro insieme fisico e mentale, intimo e sociale, privo di inganni morali e in grado di fornire tanti utili strumenti di riflessione.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Regia: Robin Campillo
Sceneggiatura e montaggio: Robin Campillo
Attori: Olivier Rabourdin, Kirill Emelyanov, Daniil Vorobyev
Musiche: Arnaud Rebotini
Fotografia: Jeanne Lapoirie
Anno: 2013
Durata: 128'

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