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PAPICHA – Un sogno chiamato libertà

11/10/2020

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​Cantare. Ballare. Urlare. Organizzare una piccola sfilata di moda. Giocare con un pallone a piedi nudi tra le pozzanghere. Ridere insieme alle amiche. Sentirsi viva e affermare la propria individualità. Sentimenti e gesti semplici, ovvi, scontati. In teoria, ma non nella pratica, se sei una ragazza in età universitaria nell'Algeria degli anni '90, luogo indirizzato verso il buio della ragione, dove i fondamentalismi religiosi crescono a dismisura e tracimano in regole becere che privano le donne di qualsiasi diritto.
​Eppure vuoi lottare, per il presente e il futuro, perché ami la tua terra, per il desiderio di sottrarti all'orrendo oscurantismo dilagante. Anche se intorno a te le ragazze “ribelli” iniziano a essere persino ammazzate a bruciapelo, se rifiutano di coprirsi interamente il corpo e cercano di non rassegnarsi a un'esistenza silente racchiusa nella prigione del pensiero e dell'azione.

Il quadro appena enunciato scuote l'anima e il senso di Papicha, esordio nel lungometraggio di Mounia Meddour, selezionato a Cannes 2019, uscito nei cinema francesi a ottobre dello stesso anno con cospicuo successo di pubblico e critica, premiato con 2 César (migliore opera prima e migliore attrice emergente per la protagonista Lyna Khoudri) e arrivato finalmente nelle sale italiane a fine agosto 2020, con il titolo Non conosci Papicha (consueta variazione risibile e inutile). Un'opera che unisce valore tecnico, abilità di scrittura e profonda importanza di un messaggio che parte dallo specifico ambito di riferimento per farsi appello universale contro follie e sopraffazioni insopportabili e inaccettabili.

La storia è appunto quella di Nedjma, detta Papicha, ragazza che in un'Algeria in rapido affondamento verso l'estremismo trascorre le sue giornate in un campus universitario da cui in pratica può uscire solo per visite alla madre o notturne fughe clandestine, favorite da un compiacente guardiano a cui lasciare di volta in volta una lauta mancia. Nedjma ama cucire, ha talento e fantasia, compone vestiti su misura che vende alle compagne e immagina di mettere in atto una vera sfilata. Le amiche del cuore, come lei disgustate dalle norme sempre più restrittive in via di definizione o al contrario già promesse spose, la spalleggiano nel progetto, mentre fuori la violenza e l'intolleranza assumono i contorni di un mostro spaventoso da cui si rischia di essere divorati.

Nella paura, tra le fauci della tensione, camminando tra squarci di autonomia che si assottigliano inesorabilmente, Papicha morde il terreno, sputa in faccia alla cecità dell'ossessione religiosa, si sveste invece di coprirsi e si rende sensuale con trucchi e smalti, rincorrendo l'intenzione di esprimere istinto e indipendenza. Ma il mondo malato che la attornia toglie (letteralmente) la corrente e stringe il giogo, travisando e bruciando cervelli, cavalcando le onde di una tragedia ormai già in atto e alzando muri attorno al collegio-carcere. 

Nonostante gli sforzi e il coraggio, tutto sembra perduto. C'è però bisogno di combattere. Ancora e ancora più che mai. 

La Meddour porta nel suo lavoro elementi di chiaro autobiografismo: la regista infatti ha trascorso l'adolescenza in Algeria, studiando giornalismo in una cité simile a quella ricostruita nel film, prima di fuggire verso la Francia insieme alla famiglia (il padre, anche lui cineasta, era già stato vittima di minacce per la sua attività intellettuale). Percorso non dissimile da quello di Lyna Khoudri, anche lei scappata dall'Algeria insieme al padre durante quegli stessi anni '90 qui rappresentati in una finzione che tale non è, in quanto specchio fedele della realtà del periodo. 

La costruzione della sceneggiatura e il tratteggio spazio-temporale riportano dunque a concrete esperienze di vita, ma la Meddour non si limita a uno schema simil-documentaristico, regalando al film emozioni forti, intense, brulicanti, in bilico e alternanza tra fasi leggere e gaudenti dove il dramma gratta sottopelle e pugni nello stomaco che tolgono il fiato. A questo si aggiunge una brillantezza nella messinscena tutt'altro che banale, simboleggiata ad esempio da una devastante scena di omicidio in cui l'atto stesso è inquadrato in flou sullo sfondo e in piano ravvicinato si assiste al graduale shock espressivo di Nedjma, la quale comprende ciò che è appena avvenuto anche senza bisogno di girarsi e guardare; il sonoro inoltre per qualche istante sparisce, al fine di costringerci a "subire" l'evento sconvolti e muti.

Papicha, in originale parlato nel particolare dialetto françarabe (commistione di lingua francese e termini francofoni “arabeggiati”), è un film da applaudire a lungo e senza dubbio alcuno, per l'invidiabile amalgama di tanti tasselli ognuno al posto giusto: la qualità di conduzione, i toccanti turbamenti, il ritmo sostenuto, il magnetismo della splendida protagonista, il disegno di alcune figure secondarie ma essenziali (l'indisciplinata ma fragile Wassila, la docile Samira, il proprietario della merceria, il custode e la direttrice dell'istituto).
​Sopra a tutto si erge poi quel messaggio, onnipresente e mai troppo ribadito, rivolto verso un'utopia che tale nemmeno dovrebbe essere, in Algeria come in ogni altro paese: un grande sogno chiamato libertà.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Papicha
Anno: 2019
Durata: 108'
Regia: Mounia Meddour
Sceneggiatura: Mounia Meddour e Fadette Drouard
Musiche: Robin Coudert
Attrici: Lyna Khoudri, Shirine Boutella, Amira Hilda Douaouda, Zahra Doumandji
Uscita in Italia: 27 agosto 2020

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