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MYFFF 2021 – Tu mérites un amour, di Hafsia Herzi

29/1/2021

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​«Tu mérites un amour qui veuille danser avec toi, qui trouve le paradis chaque fois qu’il regarde dans tes yeux, qui ne s’ennuie jamais de lire tes expressions… Tu mérites un amour qui balayerait les mensonges et t’apporterait le rêve, le café et la poésie.» (Frida Kahlo)
​
La fine di una relazione, con tutto ciò che ne consegue. Dolore, rabbia, angoscia. Lacrime, difficoltà di accettazione, desiderio di rivalsa. Gelosia, mancanza di lucidità, assenza di controllo. Volontà di lasciarsi andare alla deriva, naufragando dolcemente nel mare del buio. Oppure orgoglio e forza nel reagire e correre incontro alla vita. Sempre però con quel sentimento pulsante, intoccabile e indistruttibile che bussa alla porta.
​Scoprire lui a casa di un’altra donna, tuffarsi nella collera al punto di ridursi a pedinamenti e minacce. Ingaggiare sedicenti guru per riti pseudo magici. Vederlo allontanarsi sempre più, poi tornare, poi di nuovo sparire, poi ancora tornare. Nel frattempo darsi, ad altri, per rapporti fugaci, improvvisi e improvvisati, piacevoli ma forse del tutto inutili. Perché nella mente c’è ancora soltanto lui.
​
In occasione dell’uscita in Francia di Alice et le maire (Alice e il sindaco), durante un’intervista promozionale, un giornalista chiese ad Anaïs Demoustier quale fosse il film che in assoluto l’aveva più colpita ed emozionata tra tutti quelli visti durante l’anno (il 2019). Anaïs rispose Tu mérites un amour, di Hafsia Herzi. Una scelta sorprendente, almeno a livello teorico, ma a conti fatti non così tanto, dato che nell’opera d’esordio in veste di regista della Herzi ritroviamo molti elementi di quel cinema libero e sfrontato che alla Demoustier piace sempre interpretare.
Nel disegnare le chagrin d’amour di una giovane donna alle prese con le mille battaglie interiori che accompagnano il termine temporaneo o definitivo di una storia, la Herzi riempie i tratti di una rappresentazione aperta, vivace e passionale che osa e sfida le convenzioni. L’attrice salita alla ribalta in La grain e le mulet di Abdellatif Kechiche (Cous Cous, 2007) mette in scena un qualcosa che assomiglia a un one woman show: scrive la sceneggiatura, dirige, finanzia con i suoi soldi e si affida pure il ruolo di protagonista, alternando il lavoro davanti e dietro la macchina da presa, alla quale si concede con notevole intensità espressiva in un affascinante girotondo di variazioni d’umore.

Lila, personaggio che assomiglia nelle fattezze a Frida Kahlo («ma tu sei molto più bella» gli sussurra un timido apprendista fotografo che le chiede di fargli da musa), è lo specchio riflettente della stessa Herzi, la quale, ben coscia della propria sensualità, non ha paura di dedicarsi a baci voluttuosi con diversi partner e a mostrare (peraltro quasi del tutto fuori campo) persino un rapporto a tre, senza comunque che il sesso diventi il punto dominante del racconto. Nel suo viaggio tra i tormenti del sentimento l’attrice-regista soffia infatti nella narrazione un caleidoscopio di primi piani disfatti, sane risate, danze liberatorie, attimi giocosi, esplosioni d’ira, stasi di malinconia, solidificando una figura femminile a tutto tondo alla quale, dopo qualche remora iniziale, si finisce per affezionarsi e non poco.
In Tu mérites un amour non vi è nulla di nuovo o stupefacente. Ma ciò che c’è respira, scuote e trova evidenti elementi di contatto con la realtà di tanti di noi, facendosi portavoce di esperienze concretamente vissute. Sulla scia del suo mentore Kechiche, palese fonte di ispirazione (è anche ringraziato nei titoli di coda), Hafsia Herzi cerca di raccontare una storia comune attraverso uno sguardo però attento e brulicante di vibrazioni e sensazioni contrastate, dandoci l’impressione di entrare nella messinscena e partecipare a dialoghi con amici di tutti i giorni. Molto pare improvvisato, ma in verità tutto è scritto. Eppure suona naturale e fluido, caratteristica che non a caso ritroviamo splendidamente espressa nella filmografia dell’autore di La vie d’Adèle e Mektoub My Love.
Il valore aggiunto è lei, Hafsia; se stessa, le sfumature del viso, i lineamenti del corpo, il maglione giallo in contrasto con la pelle bruna, le frasi concitate, i farfugliamenti, le (volute) ripetizioni di gesti e parole. Rare sono le inquadrature in cui non è presente; questo aspetto lascia talvolta insinuare un sospetto di leggero egocentrismo, ma il fastidioso sentore è accantonato grazie alla bontà di alcuni personaggi di contorni completamente indovinati, in particolare l’amico gay pieno di verve e malizia (un irresistibile Djanis Bouzyani) e il sopracitato fotografo, simbolo d’innocenza in un mondo corrotto ed egoista.
​
Girato con pochi mezzi, selezionato a Cannes, applaudito in modo unanime dalla stampa transalpina, inedito in Italia ma acquistabile e visibile in streaming fino a metà febbraio 2021 con i sottotitoli nell’ambito del My French Film Festival, Tu mérites un amour cavalca e doma onde selvagge, approdando a una soffice sequenza finale che dà ulteriore lustro a tutta l’operazione. 
Lì risiede il piccolo grande rimedio alla pena del cuore. Un abbraccio. Una spalla silente a cui appoggiarsi. Una semplice carezza.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Tu mérites un amour
Regia e sceneggiatura: Hafsia Herzi
Musiche: Nousdeuxtheband
Fotografia: Jérémie Attard
Montaggio: Maria Giménez Cavallo e William Wayolle
Anno: 2019
Durata: 102’
Attori principali: Hafsia Herzi, Djanis Bouzyani, Jérémie Laheurte, Anthony Bajon, Sylvie Verheyde

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DEMAIN ET TOUS LES AUTRES JOURS – In fondo al mare

3/2/2019

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​“Figlia mia, dove sono finite le lacrime del tuo primo dolore?"

"La tua mano le ha asciugate. Poi il vento ha asciugato la tua mano. Così sono evaporate, e sono ricadute sotto forma di pioggia, un po’ più lontano.”

​
Mathilde ha solo 9 anni. Ma deve affrontare problematiche che la costringono a diventare più grande di quanto in realtà sia. I suoi genitori sono infatti separati e la bimba vede il padre saltuariamente, limitandosi in molti momenti a colloqui con lui via web. La difficoltà peggiore, però, è il comportamento della madre, afflitta da seri disturbi mentali che spesso la conducono a smarrimenti di cui giocoforza subisce le conseguenze anche la giovane figlia.
​Tra fughe improvvise, acquisti insensati, viaggi in treno senza meta, vagabondaggi per strade e centri commerciali, giornate trascorse immobile come un automa e atteggiamenti imbarazzanti in mezzo alla gente, il teorico ruolo di protezione della madre perde di significato, sviando anzi verso la direzione opposta: è Mathilde, più volte, a doversi prendere cura di lei, a occuparsi della casa, a dover gestire quegli aspetti della vita quotidiana di cui una ragazzina di quell’età non dovrebbe farsi carico. Il cuore di Mathilde la porta a “salvare” uno scheletro utilizzato in via didattica dagli insegnanti della sua scuola, mentre a farle compagnia appare dal nulla un piccolo gufo parlante, che si tramuta in buon amico e confidente. Intanto gli eccessi della madre aumentano, giorno dopo giorno. Nel frattempo Mathilde cresce, suo malgrado, troppo in fretta, costretta dagli eventi.
​
Presentato in Piazza Grande a Locarno 2017, selezionato in concorso al My French Film Festival 2019 e purtroppo non distribuito in Italia, Demain et tous les autres jours è il sesto lungometraggio come regista di Noémie Lvovsky, vista recentemente in D’après une histoire vrai di Polanski e qui anche co-sceneggiatrice e co-protagonista insieme alla piccola Luce Rodriguez, rivelazione luminosa di nome e di fatto. L’opera della Lvovsky è una favola ad altezza di bambina, messa in scena con una notevole libertà espressiva che scava nei duri contorni del reale miscelando quest’ultimo con inserti diretti verso il magico mondo del fantastico. La storia assomma le connotazioni del racconto di formazione, le tante sfumature di un complesso e combattuto rapporto madre-figlia, le difficoltà di sopravvivenza di tante famiglie sfaldate da silenzi e incomprensioni. Materiale eterogeneo, ancor più in virtù della variante onirica, evidenziata dalla presenza dell’onnisciente uccello parlante e dalle cupe scene gotiche partorite dalla mente di Mathilde, la quale inventa fosche storie con cui dare sfogo alle proprie insicurezze e alla rabbia repressa per le pazzie della genitrice.
Va da sé come non sia semplice trovare un giusto e duraturo equilibrio tra tutte queste componenti. Non c’è dunque da stupirsi se il film talvolta pare lievemente sfilacciarsi. Eppure, anche nelle imperfezioni, la regista non perde mai di vista il senso e la forza della narrazione, utilizzando gli occhi profondi di Luce Rodriguez come tramite per lasciarci entrare nel dramma di una donna “qui ne peut plus coexister avec le monde” (1) e di una bimba che non si arrende e non smarrisce la volontà di mordere il presente. Oltre al lavoro in fase di scrittura e dietro la macchina da presa, l’autrice dell’apprezzato Camille Redouble (2012) si ritaglia anche un ruolo attoriale impegnativo, recitando il “grain de folie” (2) di una madre traviata dai demoni della mente con un intenso stordimento espressivo non lontano dalla Séraphine di Yolande Moreau (non a caso citata nei ringraziamenti alla fine dei titoli di coda). 

1) Thomas Sotinel, Le Monde
2) Ariane Allard, Positif


Coraggioso e convinto delle proprie scelte, il film, girato nell’appartamento dei defunti genitori di due amici d’infanzia della Lvovsky e portato a termine nonostante l’abbandono anticipato del set da parte della Rodriguez per problemi di salute, si avvale di intense musiche che spaziano da Vivaldi a Philip Glass, da Prokofiev alla dolce Oh! My Mama di Alela Diane, trovando una bellissima alternanza di tonalità chiare e scure in una tavolozza riempita con passione e freschezza. Inoltre, la pellicola si copre di radici ancor più solide grazie alle folgoranti apparizioni di Mathieu Amalric e Anaïs Demoustier, capaci entrambi di realizzare ciò che solo i grandi attori sanno compiere, ovvero rendersi indimenticabili anche con un minutaggio assai limitato. 
Così, tra dignità e compassione, voli empatici e corse di speranza, notti di Natale attese e poi carbonizzate e compleanni racchiusi in uno scrigno in fondo al mare, vaghe stelle in divenire e inevitabili prigioni, Demain et tous les autres jours raggiunge con successo il suo obiettivo, trovando l’apice in un finale di pura poesia, con un’ipnotica e fradicia danza che accomuna madre e figlia. Un ballo che è insieme lirismo, complicità, catarsi definitiva, elogio della diversità e glorificazione di un legame che non potrà mai essere incenerito dalle amarezze. Perché il sole e la luna, pur nelle loro inconciliabili differenze, sapranno sempre respirare la tenerezza di un abbraccio.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose

Scheda tecnica

Titolo originale: Demain et tous les autres jours
Regia: Noémie Lvovsky
Sceneggiatura: Noémie Lvovsky e Florence Seyvos
Fotografia: Jean-Marc Fabre
Montaggio: Annette Dutertre e Anne Weil
Anno: 2017
Durata: 95’
Attori: Luce Rodriguez, Noémie Lvovsky, Mathieu Amalric, Micha Lescot, Anaïs Demoustier, India Hair

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EASTERN BOYS - La solitudine dell'amore

6/2/2015

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Nato in Marocco nel 1962 e cresciuto a Aix-En-Provence, Robin Campillo debutta alla regia nel 2004 con Les Revenants, film horror tornato in auge negli ultimi tempi perché da questa pellicola è stata tratta la bellissima serie Tv approdata in Italia su Sky a fine 2014. Dopo il promettente esordio l'autore franco-marocchino non realizza però altri lavori dietro la macchina da presa; diventa invece uno dei più stretti collaboratori di Laurent Cantet, per il quale si occupa del montaggio, e in molti casi anche della sceneggiatura, di Risorse umane, A tempo pieno, Verso il Sud, La classe, Foxfire e Ritorno a L'Avana. Nel 2013 finalmente Campillo decide di realizzare un nuovo film in veste di regista e dà vita a Eastern Boys, pellicola che vince la sezione Orizzonti a Venezia ed esce in Francia ad aprile 2014, riscuotendo notevoli consensi da parte della critica d'Oltralpe. Il film conquista anche tre nomination ai César, inclusa quella come miglior film dell'anno.

Eastern Boys inizia con una concitata ed estremamente scenografica sequenza girata all'interno della Gare du Nord di Parigi, per la quale Campillo si è ispirato a Uomini di domenica, film semi-documentaristico del 1930 scritto da Billy Wilder. Un gruppo di ragazzi, di provenienza russa, ucraina e moldava, bighellona all'interno della stazione, studiando i movimenti dei tanti viaggiatori che la affollano, in cerca di qualche sprovveduto da derubare. Un elegante uomo tra la quarantina e la cinquantina, Daniel, individua uno di questi ragazzi, Marek, lo segue fino a quando quest'ultimo è solo, lo approccia e gli domanda una prestazione sessuale; raggiunto un accordo sul prezzo gli fornisce il suo indirizzo, affinché il ragazzo si rechi a casa sua il giorno seguente a un'ora prestabilita. 
Quando giunge il momento e suona il citofono, Daniel apre la porta convinto di trovarsi di fronte Marek, ma nel giro di pochi minuti l'abitazione è invasa da tutta la banda che aveva visto il giorno prima alla stazione. Da quel momento inizia un crocevia di eventi che cambierà profondamente e definitivamente tutta la sua vita. Daniel viene derubato, resta inebetito di fronte all'inganno subito, ma quando qualche giorno dopo Marek bussa alla sua porta, l'uomo accantona la paura e il rancore per lasciare strada all'amore; le conseguenze saranno complesse e molti saranno i rischi da affrontare.

Il film di Campillo è tratto dalla vera storia di un uomo che ha adottato un ragazzo dopo esserne stato l'amante qualche anno prima, per favorirne i diritti relativi alla futura eredità; una sentenza che ha generato un forte dibattito in Francia, paese peraltro sicuramente molto più avanti rispetto al nostro nell'accettazione culturale e legislativa delle coppie sganciate dalla tipica struttura familiare. Partendo da questa base, l'autore ha scritto e diretto un film ricchissimo di tematiche, con significazioni profonde che si sviluppano a partire dalla difficile situazione di giovani immigrati costretti a vivere lontano da casa e a tirare avanti con mezzucci spesso ai limiti (e oltre) della legalità. 
I ragazzi dell'est soggiornano in un albergo parzialmente tramutato in centro di accoglienza e obbediscono alle regole imposte dal loro capo, non a caso soprannominato Boss, che si impone come una sorta di padre-padrone a cui fare riferimento; si tratta di un individuo umorale, preda di inquietanti scatti nevrotici ma anche capace di momenti di sorprendente dolcezza (come dimostra la tenera scena in cui accarezza e bacia i piedi della moglie). Se dunque in teoria Marek e i suoi compagni sono liberi di fare ciò che vogliono, in realtà le loro azioni sono sempre sorvegliate, nell'ambito di una struttura gerarchica che impone leggi ben precise la cui mancanza di rispetto genera violente punizioni. 
Marek prova ad allontanarsi dalle imposizioni del clan, trasferendosi in pianta stabile a vivere a casa di Daniel, che nel frattempo si è innamorato di lui e ha deciso di mantenerlo e proteggerlo; da quel momento inevitabilmente il giovane si espone al rischio di rappresaglie da parte di Boss, deciso a mantenere unita, in un modo o nell'altro, la famiglia di cui si è autoproclamato leader. L'ultima parte del film, forse la meno efficace a causa di un certo schematismo narrativo, assume dunque toni tesi e concitati, scivolando verso una resa dei conti inevitabile. 

Immagine
Al di là della risoluzione del racconto, il film di Campillo sorprende e cattura l'attenzione per come riesce a dipingere con invidiabile efficacia il rapporto tra Daniel e Marek, soggetti che all'inizio non riescono quasi neanche a comunicare tra loro per via delle barriere linguistiche, si limitano al sesso e a pochi gesti di raccordo e assenso, salvo poi sviluppare un legame che muta pelle e si trasforma mano a mano che i giorni passano e l'intimità tra i due cresce e si sviluppa. Daniel è un uomo profondamente solo; abbandonato dal suo ex amante, dedito a un lavoro che non ci viene mai rivelato, vive in una casa piena di ninnoli e ricchezze materiali in fondo utili solo per nascondere il senso di profonda tristezza e malinconia che scaturisce in ogni istante dal suo volto. L'incontro con Marek gli regala una luce nuova, ben sottolineata da piccoli gesti come la gioia nel poter desinare insieme al ragazzo, anche senza bisogno di scambiarsi chissà quali parole, eliminando finalmente il vuoto di una vita fondamentalmente priva di senso. 
L'eccitazione nei confronti di Marek, risolta in scene di sesso niente affatto volgari, in cui anzi Campillo evidenzia con brillante acume momenti di umanissimo e comune imbarazzo come l'attimo in cui bisogna spogliarsi, perde poco alla volta le proprie connotazioni. Da semplice amante Marek diventa per Daniel qualcosa d'altro, un compagno da salvaguardare in ogni modo, un amico con cui combattere lo spleen del quotidiano, poi infine un figlio adottivo, a cui regalare una stanza tutta per sé, un telefonino e le chiavi di casa. 
In questa magnifica trasmutazione di senso risiede gran parte della forza di Eastern Boys, pellicola abile a intrecciare tanti fili senza mai perdere le redini del discorso, e dotata di sufficiente forza per vibrare attraverso comparti di stordente impatto, come nel caso della lisergica sequenza iniziale in cui la banda occupa la casa di Daniel: una lunga e ipnotica scena accompagnata da musica house, che lascia storditi e al contempo estremamente affascinati per la bizzarria di ciò che accade davanti ai nostri occhi e per l'incredibile reazione di Daniel. Da qui in avanti il film alterna sorrisi e sofferenze, speranze e paure, scomode realtà e rischiose ambiguità che restano impresse nella mente ben oltre il termine della visione. 
Una segnalazione a parte meritano i tre attori protagonisti, tutti di ottimo livello: Olivier Rabourdin, artista di ampia esperienza cinematografica e teatrale, già ammirato ad esempio in Welcome di Lioret e nello splendido Des hommes et des dieux di Beauvois; il giovane e intenso Kirill Emelyanov, nominato ai César; il grintoso Daniil Vorobjev, scoperto da Campillo dopo la visione di una lunga serie di film e telefilm russi, scelto in un primo tempo per il ruolo di Marek e poi destinato alla parte di Boss per la troppa differenza di età con il personaggio previsto dalla sceneggiatura: una scelta quasi obbligata ma risultata più che vincente.
Nei volti di questi tre personaggi Eastern Boys, destinato purtroppo a restare inedito nei cinema italiani ma rintracciabile online e visibile in streaming con sottotitoli nell'ambito del My French Film Festival, si impone come uno dei più stimolanti e originali titoli francesi realizzati negli ultimi 2-3 anni, al netto delle imperfezioni che lo accompagnano; un lavoro insieme fisico e mentale, intimo e sociale, privo di inganni morali e in grado di fornire tanti utili strumenti di riflessione.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Regia: Robin Campillo
Sceneggiatura e montaggio: Robin Campillo
Attori: Olivier Rabourdin, Kirill Emelyanov, Daniil Vorobyev
Musiche: Arnaud Rebotini
Fotografia: Jeanne Lapoirie
Anno: 2013
Durata: 128'

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UNE BOUTEILLE À LA MER – Il sogno della libertà

17/6/2013

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Tal ha diciassette anni. È francese, ma si è trasferita con la famiglia a vivere a Gerusalemme. Suo fratello è un soldato, impegnato sul fronte di Gaza, nell'interminabile guerra israelo-palestinese. Tal cerca di abituarsi gradualmente alla nuova realtà, ma un giorno in un bar un kamikaze si fa esplodere, uccidendo una ragazza in procinto di sposarsi. 
Sconvolta dal fatto, Tal scrive un messaggio, destinato a un ipotetico e indistinto interlocutore, in cui si chiede come sia possibile che accadano fatti carichi di tale odio e violenza. La ragazza fa gettare in mare una bottiglia, racchiudendo il messaggio all'interno. Giorni dopo, il contenitore finisce tra le mani di Naim, ragazzo palestinese che studia la lingua francese nella speranza di poter prima o poi emigrare lontano dalle atrocità che lo circondano. Tal e Naim, separati dal valico di Gaza, impossibile da attraversare, entrano in contatto, e sviluppano una corrispondenza epistolare, via mail, durante la quale si scambiano impressioni e confrontano il rispettivo dolore per la tragedia che ogni giorno si sviluppa davanti ai loro occhi.
Une bouteille à la mer, secondo lungometraggio di Thierry Binisti, è tratto da un romanzo di Valérie Zenatti. La scrittrice ha collaborato alla sceneggiatura, e si è occupata della stesura dei dialoghi. Il film, uscito a febbraio 2012 in Francia e inedito in Italia, è stato molto amato dagli spettatori transalpini, e ha vinto il premio del pubblico al My French Film Festival. In molti hanno poi protestato per l'esclusione della pellicola dalle candidature ai César 2013, a ulteriore dimostrazione di un affetto ampio, sorprendente, destinato a un'opera capace di lasciare il segno per la sensibilità con cui riesce a toccare argomenti complessi scartando con abilità ogni rischio di melensa retorica.
Giocato sul doppio registro della comunicazione ormai arcaica (il messaggio nella bottiglia) e contemporanea (la posta elettronica), il film di Binisti accosta realtà storica e sociale e suggestioni quasi fiabesche per riflettere sull'interminabile piaga del conflitto che logora Israele e Palestina, con un approccio timido, delicato, eppure non privo di consistente solidità emotiva. I ragazzi di Gaza sognano la libertà dall'occupazione del nemico, bramano l'essenza di uno Stato supremo sgravato dalle altrui ingerenze, e piangono l'assenza di simboli perfino triviali eppure importanti per chi non li possiede (una squadra nazionale di calcio). Dall'altra parte della barricata, invece, si gode una tranquillità solo apparente, annullata da una paura strisciante in cui gli attentati sono apparentati a banali occasioni del destino, al termine delle quali o si sopravvive oppure no, in base alla fortuna del momento.
La giovane Tal, in piena fase di crescita adolescenziale, tatua sulla propria pelle i tipici bisogni della sua età, dai primi amori al desiderio di emancipazione dalle ingombranti figure genitoriali. Naim, invece, difende il suo popolo e il suo paese, ma immagina la fuga verso il futuro, un avvenire colorato di bianco, rosso e blu; durante uno dei tanti messaggi scambiati via mail, il ragazzo chiede a Tal di raccontargli qualcosa sulla Francia, perché “così mi farai sognare”. La Francia è la terra promessa, una come tante, una meta per sfuggire alle persecuzioni, alle accuse, all'orrore del presente, a un senso d'impotenza che divora l'anima scavando nelle ombre del cuore. Nel frattempo, da una parte e dall'altra, in modi uguali ma diversi, si resiste, aspettando che tutto finisca, anche se forte è la sensazione che in realtà il sangue sia destinato a non fermarsi più.
Una bouteille à la mer parte con qualche incertezza, ma ha il notevole merito di crescere, tanto, nella seconda parte, quando l'eccessiva essenzialità della messinscena si fa da parte per lasciare spazio all'istinto espressivo. Il percorso di avvicinamento a distanza dei due protagonisti  s'intensifica, supera crisi e incomprensioni, e si fa universale messaggio di pace nello splendido e commovente finale, ebbro di tensione, dove un solo istante di passione abbraccia il senso primigenio di una speranza che non morirà mai. 
Così, mentre un auto si allontana e il mare increspa le sue onde, ci restano nella mente gli sguardi volenterosi di Naim e Tal, interpretati rispettivamente da Mahmoud Shalaby e dalla brava Agathe Bonitzer, classe 1989, già ammirata in La belle personne di Christophe Honoré e accanto a Pio Marmai in Les nuits avec Théodore di Sébastien Betbeder (presentato allo scorso Torino Film Festival), nonché protagonista di Quando meno te lo aspetti di Agnes Jaoui;  ricordiamoci di lei, perché la rivedremo spesso nei prossimi anni.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Una bouteille à la mer
Anno: 2011
Regia: Thierry Binisti
Sceneggiatura: Thierry Binisti, Valérie Zenatti (dal romanzo della stessa Valérie Zenatti)
Fotografia: Laurent Brunet
Musiche: Benoit Charest
Durata: 95'
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Agathe Bonitzer, Hiam Abbass, Mahmoud Shalaby

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