Selezionato a Cannes come film d'apertura della Semaine de la Critique nel 2013, passato fuori concorso nello stesso anno al Torino Film Festival, accolto benissimo dalla stampa francese ma rimasto purtroppo inedito nelle nostre sale, a causa della consueta dabbenaggine della distribuzione italiana, Suzanne è il secondo lungometraggio di Katell Quillévéré, classe 1980, nata in Costa d'Avorio e già autrice nel 2010 dell'ottimo Un Poison Violent, vincitore del My French Film Festival.
La base del film nasce dalla lettura, da parte della regista, di biografie scritte da criminali più o meno famosi, e dall'idea di analizzare il ruolo troppo spesso sottovalutato delle compagne di questi uomini, disposte a mettere in gioco la propria vita per l'amore nei confronti di soggetti così poco raccomandabili. Nello sviluppo della narrazione la Quillévéré si tiene però distante da teoriche prospettive noir, concentrandosi invece sulle sfumature di un intenso dramma familiare costruito secondo una schema abbastanza rischioso. Suzanne (1) si snoda infatti attraverso un'ampia serie di salti temporali: all'inizio ci vengono mostrati alcuni segmenti dell'infanzia delle due sorelle, che subito dopo ritroviamo adolescenti e poi al principio dell'età adulta, in un progressivo invecchiamento dei personaggi che prosegue per tutti i novanta minuti di durata, assommando ellissi che tagliano dalla nostra visuale interi mesi (o anni) di vissuto. L'autrice procede dunque a piccoli e grandi balzi, lavorando molto sul fuoricampo, mostrandoci soltanto gli avvenimenti a suo avviso decisivi, lasciando tante pagine bianche che peraltro si possono idealmente riempire con estrema facilità, in virtù di una messinscena che non appare mai confusa o in affanno.
Tra un salto e l'altro, la triade compositiva di Suzanne (il padre e le due sorelle), accostata dagli elementi in un modo o nell'altro perturbanti (il figlio di lei, il tenebroso Julien), attua la propria progressiva disintegrazione, per colpa delle scelte sbagliate di una ragazza ribelle e fragile che ogni volta inciampa nei tranelli che la vita le propone. L'amour fou di Suzanne nei confronti di Julien, capace di sopravvivere nonostante le lunghe separazioni più o meno forzate, si ripercuote anche su Maria, esatto opposto della sorella in quanto a maturità, raziocinio e compostezza, e sul padre, uomo soltanto in apparenza rude e virile la cui anima (già duramente provata dalla morte della moglie) si sfalda passo dopo passo in parallelo con le disgrazie della figlia.
1) Il titolo della pellicola, riferito ovviamente al nome della protagonista, deriva da À nos amours, film amatissimo dalla regista (che lo vide in Tv quando era ragazza e se ne innamorò), realizzato da Maurice Pialat nel 1983. Il titolo originario del lavoro di Pialat, poi modificato prima dell'uscita, era proprio Suzanne.
La pregevolissima opera seconda della Quillévéré si pone all'occhio critico come un'opera giocata soprattutto sui vuoti, sulle assenze, sul dolore che queste ultime infliggono a chi resta. Le assenze temporanee di Maria, operaia fuori sede, sottolineate dallo sguardo affranto di Suzanne sui binari di un treno in partenza; le assenze frequenti e inevitabili del padre, in viaggio su e giù per le autostrade di Francia; la distanza di una ragazza-madre che da un giorno all'altro abbandona il proprio pargolo; la mancanza di una figlia che scompare nel nulla per poi tornare finalmente a dare tracce di sé, anni dopo, da dietro le sbarre di una prigione; il fallimento di una redenzione che pare a un certo punto palesarsi ma svanisce come una bolla di sapone al ritorno della passione malata; la plumbea consistenza degli anni che passano, accavallando sofferenze talvolta mute talvolta urlate, tra rimpianti e sogni vacui, senza mai trovare il segreto per tramutare il desiderio d'amore in pace e benessere.
Accompagnato da una colonna sonora insistente e fremente, che partendo da uno splendido tema portante alterna con acume rock, jazz, grunge, rap e pezzi storici (l'omonimo brano cantato da Leonard Cohen nel 1967), Suzanne si giova di una messinscena attenta e appassionata, che abbraccia senza freni le qualità di tre attori in stato di grazia: Sara Forestier, aspetto da eterna ragazzina ma recitazione ipnotica e vibrante; Adèle Haenel, luminosissima nuova stella del cinema francese, impressionante per forza espressiva e carisma in un ruolo che le ha fatto vincere il premio César (bissato appena un anno dopo con il trionfo per l'interpretazione in Les Combattants); François Damiens, nato e cresciuto nel nido della commedia ma qui intensissimo e concreto anche in veste drammatica, a delineare una completezza artistica poi ribadita, ad esempio, con l'irresistibile performance in La Famille Bélier. Accanto a loro si notano in piccoli ruoli anche Corinne Masiero (Louise Wimmer, Lulu femme nue) e, in un brevissimo cameo, Lola Dueñas, musa almodovariana ormai non nuova a partecipazioni in produzioni francofone (Les femmes du 6e étage di Le Guay, Alleluia di Du Welz).
Senza cadute né incertezze, il film della Quillévéré chiede molto ai suoi personaggi e molto ottiene, riuscendo a barcamenarsi con piena efficacia nel mare in tempesta dei loro destini avversi, sino a deflagrare in un colpo di scena finale che lascia cadere al suolo anche gli ultimi scrosci di pioggia e di pianto. Soltanto da quel momento, nella definitiva siccità del sentimento, tra le ceneri delle illusioni, potrà forse rinascere un piccolo germoglio di speranza.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: La vie en rose
Scheda tecnica
Regia: Katell Quillévéré
Sceneggiatura: Mariette Désert, Katell Quillévéré
Attori: Sara Forestier, François Damiens, Adèle Haenel, Paul Hamy
Musiche: Verity Susman
Fotografia: Tom Harari
Anno: 2013
Durata: 90'