Questa è la normalità di Roubaix. Anche a Natale. Non è facile essere commissario di polizia in un posto così: ogni sforzo pare inutile, ogni crimine risolto è immediatamente sostituito da un altro, ogni delinquente consegnato alla giustizia è rimpiazzato in un istante. Eppure continui a fare il tuo lavoro, spinto da una missione quasi mistica. La tua famiglia è partita, se n’è andata altrove. Tu invece sei rimasto, perché questa terra la ami. Ci sei cresciuto, giocavi al parco da bambino, la senti parte della tua anima. Dunque vai avanti, pur nella solitudine e nell’eterna frustrazione.
E ormai conosci. Sai. Hai visto praticamente tutto, al punto che per smascherare colpevolezza o innocenza ti è sufficiente guardare una persona negli occhi o immedesimarti nel suo modus operandi. Riesci perfino a ricostruire alla perfezione il percorso esistenziale di un sospettato, seguendo unicamente istinto ed esperienza. Così prosegui, senza orari, tra interrogatori e deposizioni, tracce e confessioni, ricerche e collegamenti, per poi vagare insonne, di notte, ragionando sul nuovo caso da risolvere, tra i resti ossuti della città una volta bella e ricca. Cammini nel buio, alla ricerca della prossima luce nell’ombra. La luce della verità e della giustizia. Quella fiamma che dà un senso alla tua vita.
Roubaix. Terra natia di Arnaud Desplechin, in cui l’autore già era tornato più volte, ad esempio nello splendido Trois Souvenirs de ma Jeunesse. Casa, di nuovo riemersa dalle tenebre per il suo nuovo film, ispirato a un documentario del 2008 che prendeva spunto da un fatto reale accaduto nel 2002. Opera spiraliforme, la cui prima parte, frenetica e febbrile, si pone come cornice narrativa per contestualizzare la vicenda principale, ovvero l’omicidio di un’anziana signora, derubata e strangolata. Il segmento iniziale di Roubaix, une lumière (presentato in anteprima italiana al Sacher di Nanni Moretti e in uscita nelle sale in autunno, si spera) pare giungere direttamente dalle tasche di Les Misérables: un pressoché identico micromondo spietato e dolente, oscuro e corrosivo. Ma se il lavoro di Ladj Ly, pur nella sua efficacia, si pone a un livello di immediata fruibilità, non a caso capace di garantire un clamoroso successo di pubblico e critica, Desplechin come sempre va oltre, non si ferma, scava sotto la radice e costringe lo spettatore a un impegno maggiore, invitandolo a pazientare e scavare con lui per esplorare le terre di mezzo e gli anfratti sepolti.
Dall’analisi introduttiva, focalizzata sulle abitudini del commissario Daoud e sulle segnalazioni che ogni giorno arrivano alla centrale, si passa dunque al caso specifico. Dal generale si va al particolare, costituito dalla donna assassinata e da altre due donne, conviventi, possibili testimoni, poi possibili sospettate, infine probabili colpevoli del (mis)fatto. Due figure per certi versi antitetiche e complementari: Marie, debole, fragile, sottomessa e tanto innamorata, al punto di inventare bugie per difendere la compagna, scagionarla e assumere su di sé gran parte del danno; Claude, più forte, decisa e dominante, pronta a scaricare l’esiziale fardello dell’evento sulla schiena di Marie pur di proteggere se stessa e il figlio che in caso di condanna rischia di non vedere a lungo.
Tra loro, imperioso come un totem, Daoud, in grado di decifrare il fiume delle menzogne. Nei suoi metodi, tra interrogatori e contro interrogatori, inganni e piccoli trucchetti, tutta l’abilità del mestiere; nei suoi occhi calmi, invece, una sorta di affetto verso due ragazze perdute, imbruttite da alcool e fumo, che hanno imboccato un tunnel forse senza ritorno. A differenza degli altri agenti, perennemente urlanti allo scopo di sfiancare le ragazze e farle confessare, Daoud resta deciso ma quieto, mantiene i toni bassi, preferisce carezze ai ceffoni e tratta le insolite sospette “avec une infinie douceur” (Françoise Delbecq, Elle), come un padre premuroso di fronte a figlie responsabili di una marachella.
In fondo, a ben vedere, abbiamo a che fare con “un grand film sur la compassion, où le portrait d’un bon flic, qui est aussi un flic bon, prend une dimension quasi spirituelle” (Jean Serroy, Le Dauphiné Libéré). Daoud ama i gatti e i cavalli, soffre per l’imbruttimento della città, si affligge per il difficile rapporto con un nipote chiuso in prigione, assiste alla costante distruzione dell’armonia. Ma non per questo sfoga sui presunti criminali la rabbia che potrebbe avvolgerlo. Al contrario: nel rapporto con i sospettati, soprattutto nel caso di Marie e Claude, il capo della polizia cerca sempre di guardare dentro al cuore di chi gli sta di fronte, sezionandolo per estrarre una misericordiosa scintilla tra i fantasmi nell’oscurità.
La creatura filmica di Desplechin abbraccia connotazioni tipiche del polar e del genere procedural cercando al contempo di costruirsi un’identità unica. Non raggiunge i picchi dei suoi migliori lavori, titoli strepitosi come Un conte de Noël o il sopracitato Trois Souvenirs, e sconta qualche difetto di sceneggiatura, figure secondarie lievemente stereotipate (i chiassosi gendarmi alla centrale) e deviazioni abbozzate ma subito abbandonate o non abbastanza sviluppate (i problemi familiari di Daoud, la fede religiosa del tenente Louis), rifacendosi però con la forza dell’insieme e la magnifica profondità emotiva dei tre protagonisti, resi vibranti e intensissimi dalla bravura dei rispettivi attori. Roschdy Zem si gioca con pieno successo il ruolo della vita, portando a casa il César per la miglior interpretazione (e avrebbe meritato lo stesso premio anche a Cannes); Sara Forestier ipnotizza per maturità e compostezza, trasformandosi in un pulcino bagnato e tremante; Léa Seydoux rimane un gradino sotto, non facendo comunque mancare il suo carisma.
Attorno a queste tre figure da applausi si regge l’impalcatura di Roubaix, une lumière, saggio cinematografico sul concetto di verità e sulle mille sfumature intermedie che stanno dentro a qualsiasi verità. Un racconto che cresce piano, richiede attenzione ma sa ripagare in termini di qualità espressiva, trovando approdi da cui scaturisce un’emozione silente eppure chiarissima. Come nel momento in cui viene annunciato a Daoud l’arresto di uno stupratore seriale, finalmente catturato dopo lunghe ricerche e lui, con apparente noncuranza, si limita a sussurrare un “très bien” neutro e incolore. Nel suo sguardo, in quell’attimo, c’è però molto, molto di più. Gioia, soddisfazione, fierezza, sollievo. Luce.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: La vie en rose
Scheda tecnica
Titolo originale: Roubaix, une lumière
Anno: 2019
Durata: 119’
Regia: Arnaud Desplechin
Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Léa Mysius
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Laurence Briaud
Musiche: Grégoire Hetzel
Attori: Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz
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