Dopo aver presentato la sua idea a un produttore, Audiard chiese allo stesso Carrère di scrivere la sceneggiatura, ma quest'ultimo rinunciò. Lo script venne allora affidato ad Alain Le Henry, già co-autore dei primi lungometraggi di Audiard. Nel momento in cui la produzione era pronta a dare il via alle riprese, il pluripremiato regista si trovò però già impegnato nella realizzazione de Il profeta, progetto per lui imprescindibile. Per non lasciar cadere tutto nell'oblio, Audiard chiese allora a Claude Miller di dirigere il film, ritagliandosi il ruolo di co-produttore. Miller accettò, e a sua volta coinvolse il figlio Nathan, dando vita a una regia a quattro mani.
Una genesi non facile dunque, per un film dedicato a una storia di abbandono, ricerca, colpe e perdono. Il racconto è incentrato sul giovane Thomas, dato in adozione dalla madre quando era ancora bambino, e ora, giunto all'età adulta, spinto dall'irrefrenabile bisogno di ritrovarla, per mostrarle tutto il disprezzo accumulato negli anni. Irrequieto, alla ricerca di una pace interiore all'apparenza impossibile, Thomas procura non pochi grattacapi alla famiglia adottiva. Quando finalmente riesce a rintracciare la madre biologica, scopre come quest'ultima abbia nel frattempo avuto un altro figlio, da un uomo da cui peraltro si è separata. Thomas un po' alla volta cerca di (ri)entrare nella vita della madre, per cogliere tracce di quell'affetto perduto troppo presto.
Il cinema francese da sempre si interessa con notevole costanza a storie di famiglie disgregate, perdute, ritrovate, tratteggiando lunghi viaggi rivolti verso le proprie origini, per cogliere il senso reale di identità spesso confuse e inesplicabili; ne abbiamo avuto un recente esempio anche con Le fils de l'autre di Lorraine Levy, con Emmanuelle Devos, presentato all'ultimo Torino Film Festival e uscito poi a marzo nelle sale. In questo caso, il rapporto smarrito/ritrovato tra Thomas e la madre Julie vive di sospetti, accenni, rancori trattenuti, abitudini trasandate, colpe interiorizzate, camminando sul labile filo che separa amore assoluto e odio incurabile. Negli loro occhi si captano sensazioni stratificate, imbarazzi e dolori, lacrime e pentimenti, e la danza della madre dissennata e del figlio tormentato accoglie tenerezze mai provate, parole mai enunciate, verità mai dichiarate.
Pervaso da un'inquietudine costante, che naviga sottopelle dando la sensazione di poter esplodere da un istante all'altro, il film dei Miller si dipana con qualche salto un po' troppo frettoloso, riuscendo comunque a incastonare nel cuore dello spettatore il significato primigenio del dolore dell'abbandono. È un'opera malinconica, attraverso cui gli autori, alternando i piani temporali del racconto, cercano di non dare giudizi, limitandosi a indagare le (poche) possibilità di futuro nascoste nel dramma del passato. Pur senza la genialità istintuale di Audiard dietro la macchina da presa, l'operazione riesce, anche grazie al contributo dei due protagonisti: Vincent Rottiers, nominato ai César per questo ruolo e rivisto al Bergamo Film Meeting in Le monde nous appartient, e la bravissima Sophie Cattani (Tomboy, Polisse), dotata di un'invidiabile sensibilità scenica di derivazione teatrale ma molto efficace anche al cinema. Un'attrice di alto livello, finora non abbastanza valorizzata, che speriamo di ritrovare molte altre volte nei prossimi anni.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: La vie en rose
Scheda tecnica
Titolo originale: Je suis heureux que ma mère soit vivante
Regia: Claude Miller, Nathan Miller
Sceneggiatura: Alain Le Henry, Claude Miller, Nathan Miller (da un articolo di Emmanuel Carrère)
Fotografia: Aurélien Devaux
Anno: 2009
Durata: 90'
Uscita italiana: inedito
Attori principali: Vincent Rottiers, Sophie Cattani, Christine Citti, Yves Verhoeven.