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IL CINEMA RITROVATO 30 - Listen to me Marlon, di Stevan Riley

12/7/2016

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Marlon Brando ha parlato di sé a se stesso, e ora tocca a noi ascoltarlo. Stevan Riley, documentarista inglese il cui penultimo lavoro era sui 50 anni del James Bond cinematografico,  interpellato da Rebecca Brando (figlia dell'attore) ha avuto accesso alle circa 300 ore di materiale lasciato da Marlon nella sua proprietà di Los Angeles. Materiale soprattutto audio: cassette cui Brando ha affidato, nella sua solitudine, una sorta di autoanalisi e autonarrazione di una carriera, compresi alcuni esperimenti di autoipnosi.
L'idea di impostare un documentario da questi elementi sonori si rivela sicuramente vincente e dà forma a un biopic che gli anglofoni definirebbero “insightful”. Listen to me Marlon si distingue dai consueti documentari biografici perché non ci sono i “soliti” mezzobusti intervistati che punteggiano la visione raccontando la loro su un'altra persona: c'è invece la voce del protagonista ad accompagnarci per un'ora e quaranta e le voci di altri sono pochissime, una delle più significative quella di Bertolucci quando si giunge a Ultimo tango a Parigi. In questo modo si getta una luce ad ampio raggio non solo su un grande attore ma anche sull'uomo Marlon Brando, contribuendo a umanizzare un “mostro sacro” della storia del cinema, andando molto al di là dell'immagine che se ne potrebbe superficialmente avere, quella di un attore simboleggiante un modo di intendere la recitazione e che ha lasciato alcune interpretazioni titaniche, ma anche uomo bizzarro e presuntuoso.
​
Se il dire di sé implica inevitabilmente una visione di parte, Brando non è indulgente con se stesso; sentiamo riflessioni dal sapore wellesiano (“tutti recitiamo, tutti mentiamo”), ma l'istinto è quello di metterle da parte durante la visione, perché nonostante tutto si respira sincerità. Dice di avere vissuto con un costante senso di inadeguatezza, ma i concetti su cosa significhi la professione del recitare li ha chiari: non essere la copia di qualcun altro, arrivare alla verità, sorprendere lo spettatore, fermandogli il tragitto dei popcorn tra la mano e la bocca. 
Dalla giovinezza, segnata da genitori problematici – una madre “poetica” ma alcoolizzata e un padre violento (e vediamo una “ipocrita” intervista tv, col papà che affianca il figlio già famoso e qualche freddo segno d'affetto tra i due) – , ai germi dell'inclinazione attoriale (la curiosità nell'osservare le persone per strada), all'apprendistato Actor's Studio sotto la guida di Stella Adler,  si arriva al cinema. Per Uomini, primo ruolo, passa del tempo tra paraplegici prima di interpretarne uno. Poi i film con cui entra nel mito: Un tram che si chiama desiderio (e Brando dichiara di odiare il diversissimo da sé Stanley Kowalski), Fronte del porto, seguiti dal Technicolor di Bulli e pupe. 
Il grande schermo, però, non è tutto. Brando dice di divertirsi sul set, ma quando l'aggressiva folla alla prima del musical cerca di braccarlo è turbato e portato a riflettere sull'assurdità di fama e fanatismo. E nei riguardi della discriminazione di cui è storicamente capace il suo paese, delle basi violente su cui poggia, Brando si è sempre schierato contro, con una mai celata coscienza “politica” che lo spinge dalla parte degli afroamericani, oltre che degli indiani d'America: c'è la famosa, mancata consegna dell'Oscar per Il padrino, con la comparsa sul palco dell'Academy della giovane squaw, e un Brando che pronuncia parole di piombo contro gli Stati Uniti (“Il popolo più aggressivo, più rapace...”). L'esperienza estremamente negativa sul set de Gli ammutinati del Bounty lo porta però alla conoscenza e all'amore di un luogo e una popolazione ignari dei valori occidentali, rimanendo stregato dalla naturalità e gentilezza della sua gente – e dalla terza moglie – .

Se l'opportunità di accedere alla mole di parole registrate dal protagonista stesso è una carta vincente del film, un po' meno convincente a conti fatti è l'impostazione narrativa e drammatizzante. Difficile parlare di tutto, ma forse è un peccato che non ci sia traccia del lavoro di Brando negli ultimi decenni di vita, a prescindere dal livello qualitativo. Ci si ferma agli iperpagati ruoli in Superman (con Brando che riceveva le battute da un auricolare indossato dal suo personaggio) e, ovviamente, Apocalypse Now (per il quale Coppola prende insulti). Drastico che degli anni '80, '90 e dei primi 2000 – da La formula a The Score – , non si faccia cenno: lo spettatore potrebbe trarne che Brando si fosse completamente ritirato.
Dopo i colossi di fine anni '70, il film ritorna al suo incipit e fa riprendere corpo ai drammi familiari  dell'attore: i colpi d'arma da fuoco che segnarono l'omicidio, da parte del figlio Christian – poi condannato a 10 anni – , del fidanzato della sorellastra Cheyenne, proprio nella villa dell'attore, e più en passant il suicidio di Cheyenne. Per mostrare quel che non è possibile mostrare, la morte di Brando, Stevan Riley sceglie la scena del Padrino in cui Corleone si accascia mentre sta giocando col nipote. Al volto dell'attore ricreato attraverso pixel blu fluttuanti, digitalizzato, sono affidate invece apertura e chiusura del film, scelta funzionale a un discorso sul continuare a vivere.
Sono quindi possibili osservazioni rivolte a Listen to me Marlon – compreso un tappeto sonoro qualche volta al limite dell'enfasi – , che non ne mettono in discussione la riuscita. Il film cattura, ottimo nel ritmo e nel lavoro di taglio e cucito audio, frase dopo frase. Sarebbe stato interessante, considerata la personalità di Brando, anche un doc più tradizionale, ma probabilmente meno emozionante. Una curiosità: Candy e il suo pazzo mondo è citato come punto più basso della sua carriera.
Presentato l'anno scorso al Sundance, in Italia al Festival dei Popoli di Firenze e distribuito in home video (da Universal) prima della proiezione al Cinema Ritrovato come culmine dell'omaggio a Marlon, il doc ha ottenuto molte nomination nei festival e qualche premio (miglior documentario al San Francisco Film Critics Circle Awards 2015).

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Report


Scheda tecnica

Regia: Stevan Riley
Sceneggiatura: Stevan Riley, Peter Ettedgui
Musiche: Stevan Riley, Gary Welch
Montaggio: Stevan Riley
Anno: 2015
Durata: 103'

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IL CINEMA RITROVATO 30 - Cinema dal 1896 al 2016

6/7/2016

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Il Cinema Ritrovato ha compiuto 30 anni con una edizione colma di proposte; parafrasando quanto udito da una spettatrice, al termine ne sfogli il catalogo e ti accorgi di aver visto poco. Dar conto di tutto in poche righe è impossibile, si può solo saltabeccare tra le sezioni.
Da “Cento anni fa”, i 198 minuti di Intolerance di Griffith, due film di Mauritz Stiller (Vingarne, Balletprimadonnan), l'incantevole e composto “melodramma pittorico”- storico L'esclave de Phidias di Léonce Perret e altre piccole cose, anche italiane: drammi di forte retorica patriottico-bellica – Il sopravvissuto di Augusto Genina – e il restauro dello spietato melodramma dannunziano La fiaccola sotto il moggio con Helena Makowska.
​Un passaggio di qualche decennio ed ecco l'omaggio a Mario Soldati: se la bellezza ben più che “calligrafica” di Malombra è nota, La mano dello straniero da Graham Greene è migliore della sua scarsa fama critica, forte del personaggio del deprecabile dottore (Eduardo Ciannelli). Se è vero che Soldati amava gli attori lo si vede anche qui, ad esempio nella scena al bar col bambino. La provinciale con Gina Lollobrigida, trasposizione da Moravia strutturata in flashback di più personaggi tutti inerenti la protagonista, è un'opera esatta e senza giri a vuoto, con un'atmosfera drammatica e concentrata.
La comicità e i suoi grandi: Buster Keaton del quale prosegue il Progetto col restauro di alcune comiche, di Our Hospitality e Seven Chances, Stan Laurel con alcuni minuti ritrovati di una comica che parodizza Valentino, Oliver Hardy (e Jimmy Aubrey) in Maids and Muslin, Jerry Lewis (con Jerry 8 ¾) e, ancora, Chaplin, di cui si è rivisto in piazza Maggiore Il monello. Oltre alle proiezioni serali in questa cornice (Legittima difesa, Spettacolo di varietà, L'albero degli zoccoli, Valmont), alcune serate in piazzetta Pasolini con muti da proiettore a carboni, come il programma finale – un'ora circa di film delle origini fra trucchi e colorazioni ipnotiche – e Coeur fidele di Jean Epstein.
Alla sorella Marie, attrice, sceneggiatrice e regista (con Jean-Benoît Levy) è stata dedicata una sezione, con opere tra gli anni venti e i cinquanta: il muto Peau de pêche (1929) conquista con la sua delicatezza, sebbene non esente da una convinta dose di retorica giocata sul binomio vita (in campagna) e morte (la prima guerra mondiale)
Si resta in Francia e si torna indietro, di molto: la sezione “1896. Cinema anno uno” è andata alle fondamenta della settima arte con la produzione di quell'anno dei fratelli Lumière, protagonisti anche di un cofanetto e di una mostra completa (prosegue fino a gennaio) che spazia dal pre-cinema alla loro attività industriale, toccando il lavoro degli operatori fatti viaggiare per il globo intero. Piccolo spazio anche per Méliès, con i pochi film sopravvissuti datati 1896 più due ritrovamenti, Une séance de prestidigitation e Bouquet d'illusions.
​Nell'omaggio a Jacques Becker, i suoi grandi classici (Casco d'oro, Il buco) e film più “piccoli” ma lo stesso riusciti come Edoardo e Carolina (1951), fresca e amara commedia di crisi di coppia e differenze sociali.
Non su un regista, come di consueto, ma su un produttore il focus sul cinema Usa tra muto e sonoro: Carl Laemmle jr, figlio del più noto patron della Universal, che la ereditò tra 1928 e 1936. Una selezione eterogenea con opere musicali, come King of Jazz, film-rivista per il gusto d'oggi stancante, ma con curiosità estetiche (a cominciare dal Technicolor a due colori, col trucco a gote rosse sugli attori di ambo i sessi) e narrative (perché tra un esibizione musicale e l'altra, hanno spazio alcuni momenti degni di un film-barzelletta), e film di James Whale, come Remember Last Night?, un giallo-rosa con alcuni personaggi molto gradevoli (la coppia di detective, uno burbero l'altro idiota, e il maggiordomo sdegnoso dei vacui signori tra cui lavora), dal dialogo talora sin troppo rapido e smart e un po' meno convincente verso la fine, quando si prende più sul serio. Bello A House Divided di William Wyler con Walter Huston, essenziale dramma con la sua poderosa interpretazione di un duro, ottuso e violento vedovo pescatore che si risposa con una giovane senza essere ricambiato e stimolando la reazione del figlio, molto diverso e considerato dal padre un inetto.
Immancabili le sezioni su Giappone – e il suo colore – e sul “cinema del disgelo” sovietico anni '50. Nella prima anche un Mizoguchi (New Tales of the Clan Taira) e una trasposizione da Mishima che non ci si aspetterebbe, Natsuko's Adventure in Hokkaido, da un romanzo giovanile, presentato come melodramma ma in realtà film ibrido e leggero, arduo da etichettare, tra umorismo e modesti brividi di avventura, in una copia mancante in vari punti dell'immagine e nel prefinale del sonoro.
Dal 1916 ancora Russia, ma quella zarista con drammi (Nelli Rainceva e A Life for a Life di Evgenij Bauer) e trasposizioni letterarie/teatrali (The Queen of Spades da Puskin), in copie perlopiù in bianco e nero, senza le colorazioni d'epoca.
Su “Technicolor & co.” il festival continua a tornare: il thailandese Santi-Vina (1954), primo lungometraggio a colori in 35mm della nazione, e, tra gli altri, una copia “dorata” di Riflessi in un occhio d'oro e Marnie.
Nei “Ritrovati e restaurati”, il bel cubano Memorias del subdesarrollo di Tomás-Gutiérrez Alea, che unisce il (molto) privato del protagonista, con le sue relazioni, al pubblico (esplicito) delle “parentesi” sul paese. Un film molto vivo, ottimamente recuperato da materiali malmessi. Poi, Il sorpasso, Io la conoscevo bene, Westfront di Pabst, oltre a qualche titolo decisamente più recente come La promesse dei Dardenne. Altri ritrovamenti da segnalare: i primissimi corti di Jacques Rivette.
Da citare infine, all'interno di un omaggio a Marlon Brando che ha incluso anche i soliti Ultimo tango a Parigi e Il padrino, Listen to me Marlon di Stevan Riley, emozionante doc che racconta l'attore e l'uomo dalla gioventù ai drammi legati ai figli.
Piccola novità di quest'anno la segnalazione sul programma delle proiezioni in pellicola; meno graditi i ripetuti “tutto esaurito” alle proiezioni dei film muti pomeridiani nella (non capientissima) sala Mastroianni, non solo per film noti come Destino di Fritz Lang, ma anche per A Woman of the World con Pola Negri.
Appuntamento all'anno prossimo, nel quale dovrebbe aggiungersi una sala in più, in attesa di riapertura da parte della Cineteca: il Modernissimo, in piazza Maggiore.

Alessio Vacchi

​Sezione di riferimento: Festival Report

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