Negli scorsi giorni, all’interno dell’undicesima edizione del Biografilm Festival, Garnet Frost ha fatto capolino sullo schermo con i suoi lineamenti duri e la sigaretta in bocca, rendendosi indimenticabile. Il film è Garnet’s Gold e il regista è il giovane e talentuosissimo Ed Perkins, la cui purezza dello sguardo incanta e commuove. A raccontare di lui è Simon Chinn, produttore del film intervistato da Michela Gallio, che ci spiega come a volte “fare un film sia più bello del film stesso”. Ricorda quel Sugarman che ha cambiato il panorama distributivo dei documentari, parla di Frost come di un eccentrico personaggio dei quartieri meridionali di Londra conosciuto anni prima, e del regista Ed Perkins racconta la grande sfida: filmare quasi tutto da solo, senza assistente, con una videocamera DSLR, occupandosi autonomamente dell’audio.
Il film ha inizio con fotogrammi gelidi dell’inverno alternati alla voce calda di un uomo che fuma; così ci è dato il permesso di entrare in punta di piedi nella quasi vita di Garnet Frost. Cinquantotto anni e boccale di birra in mano, fa le ore piccole al pub fra canti e schiamazzi ma torna ogni sera a una vita dove il silenzio regna sovrano. Vive lì, in quello che lui stesso chiama limbo, la casa dove si occupa della madre anziana costretta a letto. I due sono complici e fantasiosi, affettuosi a modo loro: la madre ha scritto filastrocche per l’infanzia in passato e ora ne cita i versi sorridendo in camera con due occhietti chiarissimi e vispi, pieni di ilarità bambina.
Garnet passa la vita immerso fra “progetti dal grande potenziale, senza guadagnare un penny”. Una lunga, folgorante, insolita carriera in quelle che definisce le “cose avventurose”, come imparare tutti i trucchi del grande Houdini o percorrere il deserto del Sinai. Ogni trovata di Garnet è fuori dal comune e ogni avventura ha una caratteristica: non arrivare mai a completamento. Garnet Frost è il donchisciottesco collezionista delle quasi cose; passa anni a studiare nuove missioni, le intraprende, si ferma, torna a casa da sua madre. Gli amici di sempre lo sanno e lo appoggiano senza discutere, fra grandi quesiti dolorosi come “Cosa è passato realmente nella sua testa in questi anni? Cosa è rimasto dei suoi sogni?”.
Garnet non pretende di essere diverso da ciò che è, ed è perennemente alla ricerca di qualcosa. Come l’amore di una donna, quell’amore che non arriva mai per uno che “non può permettersi un mutuo”. Così lui smette di sorridere, accende la sigaretta e parla con noi senza giri di parole: “Mi sembra di essere rimasto addormentato aspettando qualcosa che non è mai arrivato”, dice. Le tasche vuote, il sorriso triste, i progetti scritti a matita, il suo laboratorio che rigurgita invenzioni e fogli appallottolati, il senso di attaccamento verso quella mamma anziana che è tutta la sua famiglia ma al contempo lo lega a una vita di devozione e pazienza. Quasi libero, Garnet Frost. Quasi felice e quasi realizzato, pieno di entusiasmo per le sue quasi cose, ma condannato alle stesse.
E poi la fiaba, la leggenda, il mito, un racconto da coperta calda in una notte d’inverno, da focolare per i visi dei bambini seduti in cerchio: Garnet Frost, vent’anni prima, si è perso nelle Highlands scozzesi e ha fatto uno strano incontro, ha visto la morte. Durante una tempesta ha cercato riparo nei pressi di un ruscello e quando ormai si era rassegnato a morire in quello sperduto angolo di Europa tutto rocce, acqua ed erba folta, ha trovato un bastone dalla forma bizzarra. Era piantato nella sponda rocciosa del ruscello ed è con quel bastone che Garnet Frost è tornato a casa. Il bastone di Gulvain, come lui ama definirlo, quello che secondo la leggenda segna il luogo segreto in cui nel 1746 vennero sepolte quattromila monete d’oro. Verità o fiaba? Da un lato ci sono i testi della biblioteca che raccontano la guerra di Carlo Edoardo Stuart, testi che Garnet ha studiato per anni trovando incredibili corrispondenze con la propria teoria del tesoro. Dall’altro ci sono le inevitabili risate degli scozzesi che sono cresciuti fra queste storielle e non vi danno peso. Per Garnet questa è una quasi missione più dolorosa di ogni altra: tornare lì dove la sua quasi vita stava per finire a cercare il tesoro dimenticato, o forse l’uomo che è rimasto nel ruscello a sognare.
Un lungo, ipnotico, potentissimo momento di poesia. Spazi sconfinati, immortali, distese di silenzio e nebbia; un oceano d’erba fresca che sfiora i colori cupi e chiarissimi del cielo, montagne conficcate nel nulla a guardare le nuvole, pioggia scrosciante sulle spalle nude; il freddo del mattino, la tempesta gentile di rosa, azzurro e rame del tramonto. E Garnet Frost, vent’anni dopo la sua quasi scoperta, che cammina sulle gambe appesantite ma mai stanche tornando al ruscello che le mappe non segnano, perdendosi ancora una volta nel luogo che l’ha rapito.
Un film che trasuda passione, dolcezza, talento visionario, la ricerca di quella polvere d’oro che forse non è sepolta nel luogo più remoto del mondo, ma è vicina e brillante sul volto di chi ci ama, nonostante tante, strane, irragionevoli quasi caratteristiche.
La cosa certa è che, dopo questo film, troverete l’oro di Garnet. E non lo dimenticherete più.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Festival Report
Scheda tecnica
Regia e sceneggiatura: Ed Perkins
Musiche: J. Ralph
Montaggio: Paul Carlin
Fotografia: Ed Perkins
Anno: 2014
Durata: 75'