Regista. Filmmaker indipendente. Documentarista. Videomaker. Metteur en scène. Chiamatelo come vi pare. Alberto Signetto era tutto questo, e molto di più. Un “cineasta marginale”, come lui stesso si è definito. Un uomo che ha trascorso un'intera vita inseguendo il suo sogno d'amore per l'arte, voltando le spalle a ogni convenzione, a ogni facile scorciatoia, per continuare sino all'ultimo a portare avanti le sue idee di sperimentazione, contaminazione del linguaggio, libertà espressiva, rappresentazione del cinema come inesauribile strumento di scoperta e creazione.
Nella sua carriera Signetto ha fatto un po' di tutto: reportage di concerti dei Rolling Stones per la RAI, documentari di carattere industriale, videoclip dei Righeira, film surrealisti. Sempre con una straordinaria originalità e sempre sul margine del rischio. Spesso oltre. Signetto ha vissuto per tanti anni in condizione di indigenza economica, tirando avanti come capitava, traslocando in continuazione da una casa all'altra, con pochissimi soldi in tasca ma tante idee sempre a bollire nel cervello.
Alla fine degli anni Settanta si fece assumere come assistente/tuttofare volontario per poter essere presente sul set dell'ultimo film di Anghelopoulos. Adorava Godard, Raoul Ruiz, Jean Rouch e Robert Kramer, simbolo dell'underground. Aveva una conoscenza cinefila sterminata, da cui nascevano citazioni continue anche nei momenti più impensabili. Voleva fare un film filosofico su Bataille, ma sapeva che se l'avesse proposto a qualsiasi produttore sarebbe stato sbattuto fuori a calci nel sedere. Girava film impossibili da immettere sul mercato, senza comunque mai rinnegare la propria volontà di scavare nei sentieri dell'immaginario, perché “le storie sono già state raccontate tutte; a me interessano i concetti”. Era un uomo sagace, con la battuta sempre pronta, una cultura sopraffina e un po' di sana immodestia. All'estero era apprezzato ma in Italia, al di fuori della sua Torino, non lo conosceva quasi nessuno.
Sono soltanto piccoli frammenti di ciò che era e rappresentava Alberto Signetto, morto nel 2014 per un tumore. Una vita piena di sbagli, pazzie, “vaccate che puntualmente rimpiangevo il giorno dopo ma che adesso sono solo felice di aver fatto”. Marilena Moretti lo ha seguito per tre anni, incontrandolo in più occasioni, assemblando poco alla volta un documentario nel quale diversi stralci di intervista si alternano con vari spezzoni dei lavori di Signetto. La regista ha continuato a filmarlo sino a poche settimane prima della morte, avvenuta al termine di una battaglia dura, deprimente, che ha profondamente segnato il fisico di Signetto trasformandolo nella controfigura del grosso uomo che era, ma che fino all'ultimo respiro non gli ha tolto la sua anima di combattente.
Per quasi due ore la Moretti ci porta nel complesso e affascinante universo di Red Rhino, nei filmati d'epoca, nei suoi ricordi, nelle sue case, in una peregrinazione che ormai negli ultimi anni era diventata “una vita che trascorre tra un trasloco e l'altro”. Ci conduce per mano nel caos lucido di tutto il materiale raccolto da Signetto nel tempo, una sterminata collezione di giornali, libri, riviste, videocassette, posters, gadget cinefili, pass dei festival a cui era invitato: un meraviglioso guazzabuglio che inorgogliva Alberto ma lo preoccupava anche, perché “queste sono le mie cose: le tocco, le annuso, le uso, le voglio sempre con me, e ho paura che vadano perse chissà dove”.
Poi, a un certo punto, il documentario ci catapulta dentro la malattia di Signetto, ossessionato dalla voglia di cinema al punto di filmare le sue stesse sedute di chemioterapia e addirittura filmare il suo stesso sangue sparso sul pavimento subito dopo una violenta emorragia.
La parte finale assume contorni vibranti, commoventi: in un giorno d'ottobre la Moretti lo va a trovare, capisce che potrebbe essere l'ultima volta che lo vede, che il percorso in qualche modo condiviso con lui per oltre tre anni è giunto al termine; così si prepara all'addio, gli dice “devo ringraziarti, per moltissime cose” e si ferma, muta, incapace di proseguire, dominata dall'emozione. La stessa emozione che proviamo noi spettatori.
È l'epilogo di un lavoro da lodare e applaudire, utilissimo sia per raccontare la vita di un uomo che avrebbe meritato ben altri riconoscimenti rispetto a quelli che (non) ha avuto, sia per porsi come rappresentazione di tutte quelle persone che sempre, contro tutto e contro tutti, lottano per portare avanti le proprie convinzioni. Persone cocciute e indomabili, rinoceronti pronti a caricare l'uomo bianco pur sapendo che probabilmente saranno sopraffatti. Una volta e poi un'altra. Ancora e ancora. Ma che si leccheranno le ferite e ripartiranno, di nuovo. Fregandosene di ciò che il mondo sussurra alle loro spalle. A testa alta. Mai domi. Mai rassegnati. Mai davvero sconfitti.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Festival Reportage
Scheda tecnica
Regia e sceneggiatura: Marilena Moretti
Montaggio: Paolo Favaro, Danilo Pettinati
Produzione: Rossofuoco Film
Anno: 2014
Durata: 109'
Pagina Facebook del film: Walking with Red Rhino