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RNFF 13 - Deep Dark, di Michael Medaglia

3/11/2015

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​Hermann (Sean McGrath) viene al mondo con una profonda consapevolezza innata, ovvero dedicare se stesso all'unica reale motivazione che può dare senso alla vita: l'Arte. Matura questa percezione trasformandola nella convinzione che sia l'unico scopo che può dare realizzazione al suo essere, calandosi però in una coltre nebulosa che offusca la sua carica espressiva, facendola rimanere parzialmente sotterranea e latente, senza mai riuscire a farla esplodere in un solo risultato significativo. 
Man mano che continua a dare forma e a produrre le sue opere di scultura moderna con scarsi risultati, aumentano a dismisura la delusione e la frustrazione. L'energia degli impulsi creativi comincia a rivoltarsi nella sua mente in spinte distruttive dirette verso se stesso, fino a un quasi estremo punto di rottura. L'inseguimento di un sogno rischia così di trasformarsi in incubo, almeno fino a quando una svolta cambia, apparentemente in positivo, la situazione.
​Una strana e non ben definita entità, che vive nel muro dello studio appena occupato in cerca di ispirazione, si manifesta con voce femminile. Per Hermann si illumina un nuovo mondo. La creatura ha le sembianze di un foro, e si rivela in grado di materializzare tutto ciò che per la sua immaginazione è sempre stato solo una visione molto lontana. Nasce così uno scambio tra i due, suggellato da un patto che nello srotolarsi del racconto porterà a conseguenze inquietanti.

La sceneggiatura di Michael Medaglia, vincitore del premio per la miglior regia a Ravenna, cavalca suggestioni oniriche e riporta a una visione d'insieme che si presta a più letture, su diversi livelli, offrendo spunti di riflessione legati a una connessione in chiave simbolica/psicoanalitica. 
Il lavoro può essere interpretato a specchio, come se lo scultore fosse l'attore di uno psicodramma, in cui la messa in scena delle proprie vicende interiori trova la personificazione di ogni singolo elemento che prende vita dal suo inconscio, nella forma da esso stesso creata. Il foro parlante materializza il suo Es (l'inconscio), assumendo i tratti di uno dei protagonisti fondamentali, e può essere visto come ciò che riassume e  metabolizza la rappresentazione delle sue stesse pulsioni. Come una porta immaginifica che apre la visuale sulla sua parte sconosciuta e oscura. Nella finzione scenica la creatura ha bisogno di attenzioni, anche sessuali, e ogni volta che le vengono date essa si realizza, ingrandisce e cresce, per poi proporre in cambio un prodotto di valenza artistica con cui Hermann completa le sue creazioni. 
Analizzando questo tema in primis attraverso le teorie freudiane, può essere visto come una metafora dei principi delle stesse, di cui si possono ritrovare tutti gli elementi fondanti. Gli impulsi dello sculture (sessuali - intesi come libido - o aggressivi, che stanno alla base di ogni intenzionalità creativa) vengono sublimati, proprio attraverso il foro e ciò che esso rappresenta. Avviene dunque una de-sessualizzazione delle pulsioni, spostandone la finalità verso un'altra meta, in questo caso il raggiungimento di un'opera d'arte.
Inscenando un dialogo tra l'entità ed Hermann, il regista porta a poco a poco alla luce un dialogo che lo scultore fa verso se stesso e che evidenzia tutto questo processo, mettendo in atto una catarsi.
Altri significati possono essere interpretati a un livello più di superficie, in modo immediato e diretto: l'arte che crea ma distrugge; che nasce dal nulla e nel nulla sparisce d'improvviso, senza più trarre forza e ispirazione dalla sua materia; che è la possibilità di salvezza di un'anima ma può esserne anche la dannazione; che può far commuovere il cuore di bellezza ma anche farlo tremare di orrore. 
Nella prima parte di Deep Dark si riscontra uno svolgimento abbastanza scorrevole e fluido, mentre la sceneggiatura, in un secondo tempo, insegue un plot sviluppato con non troppa originalità e con qualche mancanza che ne limita la riuscita complessiva (ad esempio un personaggio, non preponderante ma neanche tanto secondario, subisce un'aggressione da parte della creatura, scappa e da lì in poi se ne perde ogni riferimento e traccia).
In definitiva il lavoro del regista si può leggere come una favola nera, un racconto dalle forme irreali, deliranti e visionarie sulle vicende interiori e i tormenti che prendono vita nella mente e nell'animo di un artista. Calato in questa palude percettiva, l'autore sceglie di soffermarsi su un tono figurativamente allucinato per esprimere il senso estetico dell'opera, trovando perlomeno in questo aspetto una strada discretamente efficace. 

Amanda Crevola

Sezione di riferimento: Festival Report, Into the Pit


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Michael Medaglia
Anno: 2015
Interpreti: Sean McGrath, Anne Sorce, Denise Poirier
Fotografia: Francisco Bulgarelli
Montaggio: Josh Beal
Musiche: Auditory Sculpture
Durata: 79'

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RNFF 13 - Naciye, di Lüftü Emre Çiçek

3/11/2015

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​Casa dolce casa. Il luogo dove hai trascorso gran parte della tua vita, tra momenti felici e orrori che è impossibile dimenticare. Un nido da odiare o da amare, a seconda di ciò che tra quelle mura hai visto, goduto e subito. Magari un antro protettivo da difendere, a ogni costo, eliminando chiunque cerchi di appropriarsene. Anche con le maniere forti, se necessario. Snobbando qualsiasi limite, per riaffermare un sentimento di appartenenza che nessuno può e dovrà mai cancellare.
Una giovane coppia, in attesa del primo figlio, affitta una villetta circondata da un ampio e rigoglioso giardino. Giunti sul posto, senza nemmeno avere il tempo di ambientarsi, i due si rendono conto che qualcosa non va. Negli armadi ci sono infatti vestiti di donna, appese ai muri antiche foto di famiglia. La casa dovrebbe essere vuota, ma non pare affatto sia così. Nell'aria c'è la netta sensazione che qualcuno viva ancora in quelle stanze. Il dubbio diventa certezza quando a tarda ora una signora di mezza età bussa prepotentemente alla porta d'ingresso, presentandosi come la proprietaria dell'immobile. I neo-affittuari, spaventati, decidono di non farla entrare, ma da quel momento si scatena una devastante corrida di sangue e violenza. 

Presentato in anteprima europea al Ravenna Nightmare Film Festival, dopo il passaggio allo Screamfest di Hollywood, Naciye rappresenta il debutto sulla lunga distanza del regista turco Lüftü Emre Çiçek, già autore di un paio di corti e di una sceneggiatura inedita premiata in America. Interpretato da un'efficacissima Derya Alabora, attrice molto conosciuta in patria, e girato in una casa di Istanbul che da 400 anni appartiene alla stessa famiglia e viene ancora oggi mantenuta in perfette condizioni nonostante non sia abitata, il film si impone come una lieta sorpresa, conquistando senza dubbio un posto tra i migliori lavori visti quest'anno nel concorso ravennate.
Naciye sviluppa la propria trama a più livelli, tematici e temporali. Il concetto di casa come fortezza da difendere in ogni modo, non nuovo e non originale, trova qui nuove forme di interesse, grazie a una messinscena solida, d'impatto, che sfrutta con notevole abilità gli spazi dell'abitazione per ricavare ingannevoli angoli di luce e inquietanti zone d'ombra in cui si alternano rumori e apparizioni improvvise, catapultando i giovani affittuari in un incubo senza uscita.
​Allo stesso tempo, l'opera di Çiçek riflette su problematiche che caratterizzano la società contemporanea turca, ancora spesso incatenata in una disparità dei sessi a causa della quale i maschi si impongono come soggetti dominanti, lasciando le donne in uno stato di dolente sottomissione. Quest'ultimo punto si esplica sia nell'atteggiamento dell'uomo della coppia, di facciata gentile e premuroso nei confronti della compagna ma in realtà dispotico e opprimente, sia nei numerosi flashback che riportano lo spettatore indietro nel tempo, mostrando l'adolescenza della signora Naciye e gli squallidi eventi da lei vissuti all'interno della casa, tra gli umori di un padre/padrone e di una madre totalmente asservita ai comportamenti animaleschi del marito. Esemplare, in tal senso, la scena del dozzinale atto sessuale compiuto dai genitori davanti agli occhi disgustati della figlia, con tanto di sigaretta spenta sul collo della madre durante il coito.
Il film scivola dunque tra passato e presente, ricostruendo le fila della giovinezza di Naciye e del fratellino, le afflizioni mal digerite e la sua vendetta, per poi tornare sui binari di una caccia che scivola tra le scale e le stanze dell'edificio, trappola da cui non pare esserci alcuna chance di fuga, anche per la non dichiarata ma ampiamente suggerita connivenza degli altri abitanti del quartiere, con ogni probabilità a conoscenza degli efferati gesti compiuti dalla donna, ma ben lontani dal denunciarli.
Oltre alla qualità della messinscena, ciò che colpisce nel lavoro di Çiçek è la ferocia che lo accompagna dall'inizio alla fine. In direzione opposta rispetto alle (cattive) abitudini di tanto horror recente, il film non sceglie alcun espediente consolatorio e non offre alcun appiglio con cui trovare respiro e aria fresca. Al contrario, l'autore turco calca la mano senza timore, non tanto in scene splatter comunque sostanziose, quanto in una cattiveria dilagante che, tra badilate e urla belluine, srotola un tappeto narrativo capace di strangolare ogni spiraglio di sole.
L'unica nota sorridente, se vogliamo, si sfiora nell'incipit, quando la strepitosa Derya Alabora, appena prima dei titoli di testa, rivolge uno sguardo diretto verso la macchina da presa, regalando un'espressione sardonica che strappa un ghigno complice e divertito. Da lì in avanti, però, si sprofonda nella notte della ragione, imprigionati in una selvaggia barbarie da cui è ben difficile uscire indenni.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Report, Into the Pit

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Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Lüftü Emre Çiçek
Anno: 2015
Attori: Derya Alabora, Esin Harvey, Görkem Mertsöz
Fotografia: Kamil Satir
Montaggio: Lüftü Emre Çiçek
Musiche: Zafer Aslan
Durata: 79'

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RNFF 13 - Cord, di Pablo Gonzalez

2/11/2015

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L'Apocalisse si è consumata. Il mondo è un'ombra sporca e piangente. I pochi sopravvissuti vivono sottoterra, in squallidi bunker, nutrendosi alla meno peggio, mentre intorno a loro la terra è immersa in un buio e freddo inverno senza fine. Gli svaghi della vita precedente non esistono più. Gli uomini sono ridotti a scheletri di se stessi. Gli unici bisogni ancora validi sono il cibo e il piacere sessuale. Quest'ultimo è però vietato dalle autorità, a causa delle condizioni insalubri dell'ambiente, responsabili di una situazione opprimente nella quale ogni minimo contatto fisico provoca gravi malattie.
​Per ovviare all'illegalità dell'accoppiamento, alcune persone hanno sviluppato dispositivi low-tech con cui giungere direttamente al cervello dei soggetti interessati, per stimolare una sorta di ibrida masturbazione che culmina in violenti e irrefrenabili orgasmi. Uno di loro, Czuperski, perfeziona le sue apparecchiature su se stesso e sul corpo di una ragazza sesso dipendente, stringendo un patto con lei, facendola diventare la sua cavia e spingendosi in avanti sino a toccare confini estremamente pericolosi.

Esordio nel lungometraggio di Pablo Gonzalez, colombiano, classe 1985, ma prodotto e girato in Germania, in virtù del fatto che il regista e il direttore della fotografia vivono a Berlino, Cord è stato presentato in anteprima europea al Ravenna Nightmare Film Festival, vincendo il concorso ufficiale e aggiudicandosi quindi il riconoscimento più importante della manifestazione, l'Anello d'Oro.
Il lavoro di Gonzalez è una sorta di fantahorror post-apocalittico, in cui l'autore prova a immaginare fosche proiezioni di un futuro nemmeno tanto lontano, metaforizzando paure sociali evidentemente legate alla contemporaneità. Cord è infatti se vogliamo la radicalizzazione di una tematica ben conosciuta e assai temuta, ovvero la preoccupazione legata alla trasmissione delle malattie sessuali, nonché un desolante atto d'accusa rivolto all'alienazione di un mondo, quello attuale, in cui il semplice contatto fisico è spesso dimenticato, a vantaggio di un'avvilente comunicazione interpersonale incentrata soltanto su amicizie e amori virtuali, schermi di computer e disperati tentativi di scartare la profonda solitudine che in molti casi ci circonda.
La realtà disegnata da Cord è dunque un mosaico deprimente in cui, defunto in modo pressoché definitivo ogni concetto legato a una sessualità libera e appagante, non resta che farsi aiutare da cavi elettrici tatuati nel corpo, strumenti freddi e impersonali (ma efficaci) con cui titillare le zone del cervello responsabili del piacere orgasmico. Una soluzione mortifera ma indispensabile, non solo per ovviare a un bisogno primario, ma anche e soprattutto per trovare attimi di consolazione e stordimento con cui combattere l'oblio di una vita in cui non ci sono più tracce di altre gioie o motivi di interesse.
Girato con soli tre attori (tra cui si segnala la brava Laura de Boer), con un budget limitato e quasi unicamente in interni, Cord riesce nell'intento di porsi come pellicola soffocante, a suo modo anche disturbante, grazie alla capacità di catturare lo spettatore portandolo a provare egli stesso un senso di afflizione e spaesamento. Per riuscirci Gonzalez rimesta nel torbido, elimina quasi tutte le fonti di luce e appiccica la macchina da presa ai pochi personaggi della vicenda, acuendo così la sensazione di asfissia; una scelta stilistica che forse sarebbe diventata stancante in caso di lunga durata, ma che invece risulta essere vincente dato il minutaggio limitato (70').
Nonostante alcuni problemi tecnici che hanno reso non semplice la visione ravennate, complicando la comprensione degli sviluppi della trama, e nonostante un finale un po' accartocciato, il film tedesco/colombiano offre buoni spunti di riflessione, imponendosi come bell'esempio di horror moderno che sa scavare nella melma della realtà per estrarne gli aspetti più lugubri. Un'operazione concreta, funzionale all'idea di base che la rappresenta, capace di forzarsi sino alla ricerca di quel limite in cui carbonizzare le basilari concezioni del sesso e reinventare quest'ultimo come mero strumento di impersonale soddisfazione indotta. Una strada fangosa e ingannevole, da percorrere con attenzione, per non cadere nel nero pozzo del non ritorno.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Festival Report, Into the Pit


Scheda tecnica

Regia: Pablo Gonzalez
Anno: 2015
Sceneggiatura: Alfredo Wiliamson, C. S. Prince
Attori: Laura de Boer, Christian Wewerka, Michael Fritz Schumacher
Fotografia: Carlos Vásquez
Montaggio: Florian Allier
Musiche: Matthieu Deniau
Durata: 70'

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RNFF 13 - Il programma del Ravenna Nightmare 2015

26/10/2015

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​Al via mercoledì 28 ottobre la tredicesima edizione del Ravenna Nightmare Film Festival, evento che da tanti anni si pone come punto di riferimento per quanto concerne le manifestazioni legate all'horror e affini in Italia.
Parliamo di un festival verso il quale tanti cinefili provano una particolare affezione, anche perché in passato ha permesso agli appassionati di scoprire film del calibro di Wolfcreek, Ils-Them, Calvaire, Beneath Still Waters, The Ten Steps, ospitando grandi personaggi (come non citare l'edizione 2005, con la presenza di Brian Yuzna) e regalando visioni mai banali, in qualche caso assolutamente deliranti (chi c'era non scorderà mai, ad esempio, la mitica proiezione di mezzanotte dell'ultra trash I porno zombi).

Per cinque giorni al Palazzo del Cinema e dei Congressi di Ravenna si vedranno pellicole di varia natura, in molti casi inedite nel nostro paese, tra le quali si annidano spunti di riflessione e inquietudine. Otto i titoli in concorso: l'italo-argentino Francesca, palese omaggio al giallo/horror all'italiana degli anni Settanta; il turco Naciye, storia di una giovane coppia alloggiata in una casa isolata dove si presenta una misteriosa “proprietaria”; il colombiano Cord, cybersexthriller ambientato in un mondo post-apocalittico; gli americani Deep Dark, parabola sui pericoli insiti nei desideri più reconditi, Goddess of Love, black comedy e The Nesting, crollo psicologico del protagonista dopo la morte della fidanzata; l'asiatico Afterimages, ghost story da Singapore; l'inglese Tear Me Apart, racconto di cannibalismo in una civiltà devastata.
Il concorso ufficiale sarà affiancato da numerosi eventi collaterali: la serie tv In The Flesh, prodotta dalla BBC e finora mai trasmessa in Italia, con due stagioni (per un totale di nove episodi) in cui persone tramutatesi in zombi e parzialmente “curate” dalle nuove scoperte mediche cercano di reinserirsi nella società, affrontando problematiche legate alla diffidenza dei vivi e alla conseguente emarginazione psicologica e fattuale; un bell'omaggio ad Alfred Hitchcock, con le proiezioni degli immortali capolavori Psyco e Gli Uccelli; un documentario dedicato alla carriera del regista Fernando Di Leo; l'acclamatissimo It Follows, di David Robert Mitchell, senza dubbio uno degli horror più interessanti di questi ultimi anni. Ci sarà infine spazio per cortometraggi provenienti da varie zone dell'Europa e del centro e sud America e per incontri con lo scrittore Massimo Perissinotto e il compositore Maurizio Principato.

Appuntamento a Ravenna dal 28 ottobre al 1 novembre, per cinque giorni di immersione tra incubi contemporanei e paure ataviche. Qui sotto i trailer di alcuni film in concorso. Sul sito ufficiale il programma completo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Report

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