Se ci fermassimo alla superficie dei racconti potremmo già comprendere la disperata pesantezza del vivere, del dolore sotteso al dover andare per forza avanti, accettando con fatica le ferite procurate dal destino: ma a Vasily Sigarev non interessa l'esistenzialismo spicciolo, magari facilmente ammantato da documentarismo. Al contrario, il regista e sceneggiatore russo predilige un approccio in soggettiva, che rende la struttura stessa del film permeabile agli umori che serpeggiano sottotraccia. Ne nasce uno stile che sta a metà fra la descrizione ineluttabile dell'infelice esistenza dei personaggi e un'empatia capace di rendere oggettivi i desideri degli stessi. Il racconto anche brutale delle vicende si fa infatti carico delle speranze dei singoli attraverso una qualità onirica, in cui la vita e la morte finiscono per coesistere in uno stato di assoluta normalità: Anton ritorna da Grishka e i due possono tornare a dividere lo stesso letto, Kapustina scopre che le figlie sono davvero vive e le riaccoglie in casa, mentre Artem riesce a fuggire con il padre, tornato finalmente a prenderlo.
Il gioco degli spazi si situa dunque fra la vastità quasi asettica dei paesaggi imbiancati dalla neve, delle stanze d'ospedale o delle carrozze dei treni, e l'intimità domestica dei luoghi che si sentono propri, in cui è possibile tornare ad assaporare il gusto della condivisione e della quotidianità: è come se la vastità del territorio russo già contempli di per sé l'idea del perdersi, dell'aprirsi come metafora dell'annullarsi (Anton muore perché accetta di seguire i teppisti che lo attirano con una richiesta d'aiuto) e dove, per contro, bisogna sempre richiudersi in se stessi. Le case sono dunque gli unici mondi possibili, e laddove si configurano al contrario come delle prigioni (come nel caso di Artem, che mal sopporta la convivenza con la madre e il patrigno), il rifugio è rappresentato dal letto, in cui rannicchiarsi come a voler descrivere un perimetro totalmente proprio, in cui occupare il minor spazio possibile per affrancarsi da quella vita che è dettata dal mondo di fuori. La messinscena non può quindi fare a meno del realismo, di luoghi concreti in cui adagiare i corpi, ma si stempera in uno stato perennemente assorto, che non concede mai nulla a eventuali sussulti visionari o fiabeschi. Si lavora sulle sfumature, sulle musiche di Pavel Dodonov che contribuiscono a creare l'atmosfera straniante e malinconica, dove il dolore è l'architrave di un desiderio più dolce e crea perciò quello stordimento da zona intermedia in cui gli opposti si annullano e si riequilibrano.
Living (Zhit), presentato il concorso durante la quattordicesima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, è insomma quasi un racconto di morti viventi e vivi morenti nello stesso spazio, abbracciati in una impossibile sopravvivenza reciproca, dove non vige più alcuna dicotomia, ma soltanto la forza dei legami, capaci di farsi unico motore possibile del mondo. In virtù di questo complesso intreccio di forze, il film finisce per riverberare una sottile qualità horror, evidente da alcune scelte iconografiche: il sembiante sinistro di Anton, fasciato ed emaciato dopo il pestaggio, le silenziose bambine-bambole di Kapustina, le paure infantili di Artem. E se il finale pure scioglie molti dubbi, ripristinando in più di un caso la vittoria della realtà e del mondo di fuori, il film non abbandona mai del tutto gli umori di questa realtà “a metà” fra vita e morte: è un segno di rispetto del regista per quelli che non considera solo dei folli, ma degli individui colpevoli soltanto di restare attaccati alla poca felicità offerta dalle loro vite.
Davide Di Giorgio
Sezione di riferimento: Festival
Scheda tecnica
Titolo originale: Zhit
Regia e sceneggiatura: Vasily Sigarev
Fotografia: Alisher Khamidkhodjaev
Musica: Pavel Dodonov
Interpreti: Yana Troyanova, Alexei Filimonov, Olga Lapshina, Yevgeniy Sytyi, Anna Ykolova, Dmitry Kulichkov.
Anno: 2012
Durata: 119'