Pochi dubbi sul lungometraggio più bello visto a Pordenone da chi scrive: Nana di Jean Renoir. Secondo film del regista, ha nel ruolo principale la moglie, Catherine Hessling. I due portano sullo schermo non una seducente vamp ma una sorta di pupazzo grottesco, smorfioso e agitato, che col suo modo di fare rende spiccatamente patetici gli uomini che per lei perdono la testa e che manovra e sottomette. Più di una sequenza pressoché perfetta (ad esempio il can-can verso la fine, quando per Nana inizia il declino) e almeno un'inquadratura da sindrome di Stendhal (il conte Moffat che sale la scalinata per unirsi all'amante; le scenografie sono di Claude Autant-Lara), in un classico che non esclude una componente di umorismo. Secondo probabilmente Der Adjutant des Zaren con Ivan Mozhukin (visto anche in Kean ou désordre et génie di Alexander Volkoff, personaggio che ama e soffre tra palcoscenico e realtà), principe russo che rischia grossissimo legando a sé una ragazza sotto falsa identità, che si rivela un pericolo e in pericolo: una sorpresa, caratterizzata da intensità e tensione narrativa e visiva sempre vive.
Tornando a Nana, lo stesso giorno si è visto uno dei ritrovamenti principali in programma: Nanà, adattamento italiano del romanzo con protagonista Tilde Kassay. Risultato artistico un poco scialbo, rispetto alla materia, anche se la stessa Kassay, pur non ottima, contribuisce a donargli vita. Peccato per la copia in digitale proiettata, modesta e con parte dell'immagine fuori quadro – non è stata l'unica copia deludente quest'anno, a conferma che digitale non equivale in automatico a benvenuto progresso – . Sempre per “Riscoperte e restauri”, la versione russa dell'inglese Three Live Ghosts di George Fiztmaurice, primo film sopravvissuto a cui lavorò Hitchcock, nelle didascalie (perdute) e nelle scenografie (almeno come aiutante). Il rimaneggiamento del film, che per esempio aggiunge un'introduzione ideologica (sulle differenze tra classi) è intuibile vedendolo, perché il risultato è un po' strampalato, ma godibile; da segnalare la nostra incredulità leggendo le didascalie relative al personaggio dello smemorato, che originariamente era un conte ma in questa versione diventa un ex cantante lirico chiamato... Renzi.
Anna Q. Nilsson, attrice in questo film, ci porta a un altro ritrovamento: Who's Guilty? (1915), in cui affianca Tom Moore. Non la prima di alcune serie ambiziosamente drammatiche della Pathé Exchange (il ramo americano della casa), è composta da 14 episodi (quelli ritrovati sono 10) auto-conclusivi, che propongono storie di amori, famiglie, carriere ostacolate, in un succedersi di avvenimenti di segno negativo che portano a finali drammatici e si concludono col titolo della serie, come a porre allo spettatore la domanda lì contenuta – e la risposta, si intende, non è affatto semplice, forse non c'è. Eccessi drammatici, tra svenimenti e morti, e schematicità portano il peso degli anni, ma si può dire che gli episodi funzionano ancora, li si vede stando dalla parte di questi protagonisti inabili alla felicità.
Collegato alla proiezione del Ladro di Bagdad, l'omaggio a William Cameron Menzies, che prima di essere regista di La vita futura è stato disegnatore dei set e “technical director” - praticamente co-regista per quanto concerneva il set in sé e non la direzione degli attori - , lavorando su film eterogenei di registi quali Raoul Walsh - per Il ladro... - e Lewis Milestone - The Garden of Eden: anche in una spiritosa commedia di ambientazione sofisticata si nota l'importanza del suo contributo. “Spesso è il set stesso a far ridere”, disse, vedi la gag delle luci che vengono accese e spente alternatamente, per un equivoco, dagli inquilini di un intero palazzo – e Sam Taylor, che è l'unico accreditato tra i registi di Tempest, ambientato durante la rivoluzione russa – uno dei due film col quale Menzies vinse il suo Oscar (l'altro è The Dove, in programma) – e che firma insieme a Henry King The Woman Disputed, spy story che porta i segni dell'espressionismo tedesco, in via di importazione negli Usa.
Meritevole anche se ristretto il focus su John H. Collins – e la bella moglie e attrice Viola Dana che lavorò spesso con lui – , regista statunitense il cui talento fu all'epoca notato ma la carriera stroncata dalla morte prematura. In programma alcuni film dal 1914 al 1918, come gli iniziali per la Edison – come il dramma di vendetta al femminile The Cossack Whip – e The Girl Without a Soul, realizzato alla Metro, con la Dana che si sdoppia in due sorelle, una delle quali mette nei guai il fidanzato dell'altra perché manipolata da un millantatore: ideologicamente non sempre persuasivo ma stilisticamente il film è padroneggiato.
La quota di comicità è stata assicurata dalla sezione sulle Christie comedies, con programmi di brevi film prodotti e/o diretti da Al Christie, che ad un certo punto della carriera creò una compagnia col fratello Charlie per produzioni che venivano distribuite attraverso case come la Paramount; la sua attività durò fino alla fine degli anni Venti con successo, anche se oggi non è certo noto come Hal Roach o Mack Sennett. Eddie Lyons e Lee Moran furono una sua coppia forte e le comiche in generale sono di livello medio: No Parking si fa notare perché richiama One Week di Keaton, anche se chiaramente è molto meno incisiva e geniale.
In proseguimento le sezioni “Origini del western” e “Altre sinfonie della città”. Anche nella prima si è visto un programma al femminile e femminista, che a fianco di “film di cowboy” e “film di indiani” ha proposto alcuni “cowgirl film”: The Craven (1915) della Vitagraph colpisce per il rovesciamento dei ruoli di genere abituali (non un unicum, a quanto si legge) ma anche per alcune inquadrature di pregio, nello scontro tra il ricercato e la protagonista, che lo va a stanare al posto del marito rivelatosi assai pusillanime. Quanto alle sinfonie, São Paulo, a symphonia do metrópole (1929) inizia in modo tradizionale ma non privo di suggestività, ma alla lunga esagera in autolodi e boria nazionalista, fino a risultare interminabile (i “falsi” finali hanno strappato risate in sala). Al contrario, gli undici minuti di Halsted Street di Conrad Friberg, un attraversamento di Chicago lungo la via del titolo, scorrono ad alto ritmo tra insegne e passanti, ripetizioni e accostamenti ironici.
Quanto all'animazione, un altro “ritrovato” di prestigio: Africa Before Dark è un corto Disney del 1928 con il predecessore di Mickey Mouse, il coniglio Oswald. E molte proiezioni sono state introdotte da brevissime animazioni a colori restaurate di recente da anelli cromolitografici tedeschi, “il più antico esempio di animazione nel cinema”, strisce vendute come corredo da utilizzare in lanterne magiche utilizzate, come giocattolo, per uso domestico.
Le scelte del neodirettore Jay Weissberg (e dei collaboratori) sono sembrate in linea con le edizioni precedenti: il festival rimane soddisfacente, ma non dispiacerebbe qualche cambio. Più titoli (cinque, quest'anno, compreso Sono nato, ma... di Ozu) nella sezione “Il canone rivisitato”, se non una retrospettiva più estesa, o forse un poco più di organicità. Questo, ovviamente, budget permettendo: vedremo la prossima edizione, nella quale tra l'altro si chiuderà l'omaggio a Luca Comerio, operatore del primissimo cinema italiano.
Alessio Vacchi
Sezione di riferimento: Festival Report