Vuole catturare l’immagine del sottosuolo umano di Giacarta, i sotterranei, gli angoli più laidi, i bivacchi più improvvisati, e non lo fa insistendo sulla tristezza di queste esistenze. Pone invece l’accento sui sorrisi temerari, su quella illogica allegria che ogni giorno si sveglia assieme ai cantanti di strada e li spinge a vivere la scommessa quotidiana a bordo di un autobus. Ziv non vuole essere una voce narrante, ma solo seguire come un’ombra quei tre ragazzi che parlano, essere un giornalista che non fa domande ma documenta i fatti.
Saranno loro tre (Boni, Ho e Titi) a raccontarsi per centosette minuti, con i loro modi e i loro tempi lunghi, accogliendo la telecamera in casa e a bordo degli autobus, lasciando che si aggiri indisturbata nelle loro notti e invitandola ai loro giorni importanti. Per questo motivo Ziv rimane in superficie, da silenzioso e neutrale cronista di una fetta d’umanità, e Jalanan fotografa una Giacarta cruda e impietosa senza lesinare in dettagli.
Boni è scattante, allegro, ha una dentatura dissestata e una risata un po’ bambina. Ha iniziato a suonare per strada da piccolo per aiutare la mamma lavandaia, strimpella alla chitarra da allora. Sa leggere ma non sa scrivere, e quando compone un testo per una canzone deve impararlo a memoria. Vive con sua moglie in un tunnel di scarico dove ha scavato improbabili stanze e sfruttato una perdita d’acqua per creare una fontanella. Si respira l’odore della terra e del putrido, seguendo Boni in questo inospitale rifugio.
L’acqua malsana si trascina appresso rifiuti ed escrementi, ma Boni si insapona ogni mattina perché “essere puliti significa essere sani”: così la telecamera indaga nei paraggi e presto scopre la città sotto la città, raggomitolata a un passo dall’acqua sporca. Donne che si passano il trucco sul viso, pugni di cibo sul fondo delle pentole, bambini che giocano e Boni che sorride dicendo alla moglie “un giorno racconteremo ai nostri nipoti di aver vissuto qui”. Con chitarra e armonica a bocca, Boni esce ogni giorno dal suo buio nascondiglio e canta sugli autobus per pochi spiccioli, accetta la propria quotidianità come un qualsiasi impiegato d’ufficio e non si piange facilmente addosso. Non ha alcuna proprietà, è l’acqua a decidere cosa strappargli ogni giorno.
Ho è invece un rastaman senza famiglia e senza amore che scrive testi di denuncia e satira puntando su parole forti e cantando con voce roca, sguaiata. Fuma ininterrottamente, la notte cerca un po’ di sesso fra le ragazze della strada e di giorno salta come un folletto da un autobus all’altro, con i polmoni pieni di rabbia contro la corruzione del suo paese. Non basta la galera a strappargli la chitarra e la personalità, non intende rinunciare alle sue risate roboanti. Un tipo tosto che risveglia immediata empatia nel pubblico, al quale Ho dedica lunghi discorsi, gesticolando: è come se lo vedesse lì seduto. Così di colpo non parla più soltanto con Ziv: parla a tutti noi.
Infine c’è Titi, all’apparenza una ragazzina. Ha figli sparsi in varie città e un passato che le brucia ancora addosso, ha lasciato la famiglia povera a Giava Est, non le hanno potuto permettere di studiare e lei ha sfoderato la voce e lo spirito di abnegazione. Canta per i suoi figli, per suo padre, per 40 $ al mese di cui dieci vanno al compagno perché si compri sigarette e mangime per gli animali, altri dieci sono destinati alla spesa e all’educazione dei figli e i restanti vanno spediti a Giava per aiutare il papà a pagarsi i farmaci. Ogni tanto Titi si corica con il sogno di andare a scuola, altre volte con le botte del marito. In ogni caso non ha dubbi: “i miei figli vivranno una vita migliore della mia”.
Jalanan è un omaggio al “popolo di cartone” (come lo definisce Boni), quello che vive nel cartone, dorme sul cartone, è fatto di cartone. A ogni allagamento la vita finisce e ricomincia cantando e costruendo case nel fango. Là fuori la repressione agisce massiva e spesso a caso, il potere è il “grande assente” dietro la facciata di un palazzo bianco. Si mangia una volta al giorno, si viene arrestati per un nonnulla, si assiste alle opere di abbellimento di una città che Boni e la moglie definiscono senza esitazioni, dal loro tunnel di acqua marcescente: “vogliono creare la bella Giacarta. Giacarta non è mai stata bella”.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Festival Reportage
Scheda tecnica
Regia: Daniel Ziv
Musiche: Dadang Pranoto, Ernest Hariyanto
Fotografia: Daniel Ziv
Montaggio: Ernest Hariyanto
Anno: 2013
Durata: 107'