Il concorso lungometraggi ha messo in mostra sette titoli, tra i quali ci piace sottolineare gli stessi tre che avevamo già evidenziato nell’articolo di presentazione del programma, se non altro per il fatto che su di essi puntavamo aspettative nient’affatto deluse, pur con qualche limite peraltro non sufficiente a inficiare la sostanza.
Innanzitutto il belga Une vie démente, di Ann Sirot e Raphaël Balboni, racconto di una giovane coppia che vorrebbe avere un figlio ma è costretta a rivedere i piani a causa della malattia mentale degenerativa che colpisce la di lui madre. Una sorta di Alzheimer, responsabile della lenta ma inesorabile regressione di una signora di mezza età che inizia a scordare le cose, abbandonarsi a comportamenti strani, perdere il controllo di se stessa e della realtà, sino a (ri)trasformarsi in un infante da accudire a tempo pieno. Il film mette in scena una tematica alquanto dolorosa e toccante, già esplorata da altri cineasti, scegliendo però toni originali, intermedi, non troppo cupi, dove c’è spazio anche per momenti di sorriso e leggerezza, pur sempre con l’ombra inclemente degli eventi, la difficoltà di riorganizzare la propria esistenza sulle altrui esigenze, le inevitabili incomprensioni e gli attimi di sconforto e stanchezza.
L’attrice Jo Deseure sforna un’interpretazione a tutto tondo per lasciarci entrare nella confusione di una donna che smarrisce autonomia e consapevolezze, mentre il figlio e la nuora si ritrovano loro malgrado a testare una prima esperienza “genitoriale” ben diversa da quella che avevano immaginato e sognato. Il lavoro della coppia di registi perde talvolta il giusto ritmo ma torna subito a tenere il passo, si lascia apprezzare e fa riflettere, scivolando soltanto in un finale zuccheroso, decisamente favolistico e assai poco credibile.
Sempre dal Belgio arriva Ghost Tropic, di Bas Devos, viaggio notturno tra le strade di Bruxelles per una donna delle pulizie che alla fine del turno di lavoro si addormenta sull’ultima metro, si risveglia al capolinea, non ha i soldi per un taxi ed è costretta a un lungo tragitto a piedi per tornare a casa. Idea semplice, quasi mero pretesto per un’immersione nella città che non dorme e nelle figure saltuarie che la popolano. Senzatetto congelati, guardiani di centri commerciali, forze dell’ordine, commessi impegnati sino alle ore piccole, operatori di pronto soccorso, ragazzi errabondi: gli incontri più o meno fugaci della protagonista Khadija (Saadia Bentaïeb, ottima attrice di teatro qui alla sua prima esperienza importante nel cinema) costituiscono il cuore pulsante del film e riescono a ipnotizzare lo spettatore, abbracciato dalle ombre del buio e dalla variegata umanità che appare e scompare.
Un universo parallelo, silente, a tratti persino fantasmatico, attraversato da solitudini, disperazioni, altruismi e genuine gentilezze. Anche in questo caso, l’unico appunto lo si può forse destinare all’epilogo, disponibile a molteplici interpretazioni ma poco attinente alla (bellissima) atmosfera che avvolge tutta l’opera.
Ci spostiamo infine nell’Europa dell’Est con il rumeno/ungherese Spirál, di Cecília Felméri, storia di un uomo e una donna che vivono isolati in una vecchia casa sulle rive del lago, sostenendosi con l’attività di pesca. Un Eden immerso nella natura, ma altresì un luogo in passato teatro di ferite mai rimarginate; un soffice cuscino ovattato, lontano dai miasmi dell’affollata civiltà, ma pure una prigione di malcelata sopportazione per chi non riesce ad adattarcisi sino in fondo. Opera controllata, tenue, molto apprezzabile per i toni dimessi e sommessi, trainata dalla sempre più evidente necessità di uscire dal nido e tentare una possibile rinascita in un indefinito altrove.
Oltre al concorso principale Bergamo, come d’abitudine, è terreno fertile per omaggi e retrospettive: quest’anno, tra Schlöndorff, Jerzy Skolimovski, Márta Mészáros, Izabela Plucińska, João Nicolau e Mia Hansen-Løve, c’è stato davvero l’imbarazzo della scelta, senza scordare la vasta serie di incontri (virtuali), eventi collaterali e proiezioni speciali.
Una citazione marcata la vogliamo però riservare alla sezione che si pone con piena certezza come fiore all’occhiello della kermesse lombarda, e non certo da oggi: Visti da vicino, dove albergano film documentari che ogni volta riservano sorprese a dir poco intriganti. Un esempio preminente, nell’edizione 39, l’adorabile Lobster Soup, degli spagnoli Pepe Andreu e Rafa Molés, abilissimi a condurci verso la cittadina islandese di Grindavik e il suo caffè Bryggjan, piccolo bar gestito da due fratelli da oltre 40 anni. Un bar all’apparenza modesto, vagamente pittoresco ma non certo irresistibile al primo impatto, dentro cui invece si schiudono significati straordinari. Al Bryggian, ogni giorno, si chiacchiera senza frenesia, si cercano soluzioni ai problemi del mondo, si invecchia dolcemente dopo una vita passata in mare, e poi si legge, si declamano poesie, si organizzano esibizioni musicali dal vivo, si serve zuppa d’aragosta, si accolgono turisti, si tramandano tradizioni locali e ci si scalda, corpo e anima, mentre fuori imperversano vento, gelo e neve.
Un lavoro profondamente empatico, con cui idealmente scavallare i confini e sederci anche noi là, attorno ai tavolini, tra quei volti coriacei ma cortesi, coccolati e ritemprati, sentendoci come a casa.
Nelle terre del Nord ci sono esistenze semplici che in qualche modo diventano leggendarie, ed esistenze giovani che dopo l'oscurità provano a ritrovare un po' di luce: è il caso della diciottenne Emilie, protagonista di Alt det jeg (All that I am) della norvegese Tone Grøttjord-Glenne. Una ragazza la cui infanzia e adolescenza sono state spazzate via dai reiterati abusi sessuali subiti per interi anni dal patrigno. Ora Emilie prova a rientrare nella società, ad aprirsi con la famiglia lasciando emergere una volta per tutte ciò che per lungo tempo è stato sotterrato dall’omertà. In parallelo tenta di mettere le basi per un futuro normale, anche se gli effetti psicologici delle violenze ancora si fanno sentire e arrivano a bussare alla porta del cuore in qualsiasi situazione. Un cammino giocoforza ostico, da compiere inciampando e poi rialzandosi, alla ricerca della pace e di una nuova consapevolezza di sé, con cui farsi forza per allontanare l’orrore.
Cinque titoli, cinque storie: tasselli di un panorama ben più ampio, condito da quel sapore appassionante che il Bergamo Film Meeting non manca mai di regalare.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Festival Report