Diretto da Gilles Bourdos, giunto al suo quarto lungometraggio, uscito nelle sale transalpine a gennaio e scelto per rappresentare la Francia ai prossimi premi Oscar, Renoir persegue coordinate stilistiche indirizzate verso le consuetudini del cinema biografico, con i pregi e i difetti connessi a un genere che spesso fatica a sottrarsi a una certa medietà di fondo. Ponendo in prima linea le straordinarie scenografiche naturali di cui dispone, l'autore colloca il suo film in una sorta di Eden imbevuto dal profumo della creazione artistica, fotografando l'essenza della bellezza estetica. A differenza di altre opere similari, non si limita però allo scavo psicologico e situazionale rivolto a un unico personaggio; al contrario il lavoro di Bourdos allinea almeno quattro diversi protagonisti, le cui mutazioni cavalcano sentieri abili a incrociarsi senz'affanno ogni volta che la sceneggiatura lo richiede.
Innanzitutto c'è Auguste, padre e padrone, uomo anziano ormai stanco e assai provato nel fisico e nell'anima, a cui però basta una piccola scintilla, incarnata da una Venere con i capelli rossi, per ritrovare lo slancio dei tempi andati e consumare ogni residua energia gettandosi a capo fitto nei colori e nelle forme che sulla tela acquisiscono anima e immortalità. Immobilizzato non per costrizione bensì per scelta, perché “camminare mi costerebbe troppa fatica, e non mi lascerebbe più sufficienti energie per dipingere”, il pittore sfida la sofferenza per inseguire sino all'ultimo un sogno d'Arte da consegnare alla leggenda, in quanto “il dolore passa, la bellezza rimane”.
Accanto a lui c'è Andrée, ragazza determinata a costruirsi un domani ricco di gloria, successi, fama, felicità. Per lei, almeno all'inizio, l'arrivo a casa Renoir è soltanto un incipit, un trampolino di lancio, un modo per sentirsi ella stessa “artista”. Giocando con le linee sinuose del suo corpo Andrée soffoca ogni pudore, mordendo i freni dell'umiltà per scatenare un'anima ribelle a cui il destino riserverà sia gioie che sconfitte.
Presenza-assenza nei primi minuti della narrazione, Jean fa la sua comparsa aiutandosi con le grucce, limitato da una semi-infermità che quasi naviga a braccetto con quella del padre. Ligio al dovere e al richiamo della patria, il futuro maestro del cinema pare non avere né sogni né ambizioni; il suo sguardo verso il mondo è carico di dubbi, incertezze, paure e fragilità, e soltanto in battaglia egli trova la sfrontatezza per sentirsi realizzato. L'incontro con Andrée e le prime suggestioni legate alla Settima Arte muteranno la situazione, lasciando gradualmente sbocciare in lui una ben precisa strada per l'avvenire.
Infine c'è proprio la guerra, quarto personaggio essenziale del racconto, protagonista senza volto la cui ombra traspare in ogni scena come una nube minacciosa pronta a scatenare un'esiziale tempesta da un istante all'altro. Strumento di morte e corruzione, essa si infila nel paradiso dei Renoir, macchiando la limpidezza del luogo con il suo carico di sporcizia, volgarità, polvere e sangue, alla stregua di un subdolo veleno pronto a penetrare da ogni fessura, per defenestrare l'ambizione assolutista dell'Arte centrifugandola tra i miasmi ben più concreti della realtà.
Elegiaco, puntuale, schematico ma non così scontato, Renoir vive anche e soprattutto tra i volti e i corpi dei suoi attori. Risulta perfino superfluo rimarcare la grandezza di Michel Bouquet, classe 1925, che quest'anno abbiamo potuto ammirare anche nella magnifica retrospettiva dedicata a Robert Guédiguian del Bergamo Film Meeting, mentre svolge il suo compito con sufficiente efficacia Vincent Rottiers, vero uomo-ovunque del cinema francese in questi ultimi 4-5 anni (lo abbiamo visto ad esempio in Je suis heurex que ma mère soit vivante dei Miller, nel belga Le monde nous appartient e anche in Mood Indigo di Gondry).
La vera e assoluta rivelazione del film di Gilles Bourdos ha però un volto, un nome e un cognome ben definiti: Christa Theret, parigina, ventidue anni, già candidata due volte ai César. La ragazza sfonda letteralmente lo schermo, in un irresistibile mix di purezza virginale, sfrontatezza, candore e mistero, elementi sottolineati dalla voce un po' roca e da un corpo fresco e levigato che pare davvero uscito da un'opera d'Arte. Con il suo sguardo al contempo timido e malizioso e la perfezione del suo seno, “per il quale verrebbe voglia di inginocchiarsi”, la Theret posa nuda in molteplici scene, con invidiabile naturalezza, danzando come una libellula nel vento, proponendosi come compiuta erede della Emmanuelle Béart di La belle noiseuse di Rivette, al confronto della quale non sfigura affatto. Una mirabolante scoperta, di cui senza dubbio sentiremo ancora parlare.
In conclusione, Renoir è un film che sa stare al suo posto, proponendo un cinema descrittivo e ordinato che ha il merito di non cercare artifici superflui; nonostante questo, come già abbiamo affermato nell'articolo relativo, resta poco comprensibile il motivo per il quale sia stato scelto dalla Francia per rappresentare la nazione nella corsa all'Oscar, visto il suo carattere riflessivo, elegante e parsimonioso, assai poco adatto ai gusti americani.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: La vie en rose
Scheda tecnica
Regia: Gilles Bourdos
Sceneggiatura: Jérome Tonnerre, Michel Spinosa and Gilles Bourdos
Attori: Michel Bouquet, Christa Theret, Vincent Rottiers, Thomas Doret
Musiche: Alexandre Desplat
Fotografia: Mark Lee Ping Bin
Montaggio: Yannick Kergoat
Anno: 2012
Durata: 111'