Nel solco di una scarnificazione del tanto amato melodramma truffautiano, il cinema di Tsai Ming-liang si è ritagliato un angolo in cui poter coltivare i propri insofferenti atti di depistaggio rispetto ai codici narrativi tradizionali: Vive l’amour, opera già definitiva nonostante vedesse la luce quasi un ventennio fa, consacrava agli occhi del mondo un talento registico in grado di reggere silenzi pneumatici antonioniani e scene di pianto dilatate per decine di minuti senza mancare di dare corpo a una sessualità raffigurata anch’essa con un tatto raro, dal sapore originale e anticonvenzionale.
Da quell’apice al film che fa calare il sipario sulla carriera del regista di Che ora è laggiù?, il cinema di Tsai Ming-liang appare oggi irrimediabilmente incupito, fosco oltre ogni limite pronosticabile, contaminato da un pessimismo che si fa cappa di fumo, rigonfiamento tumorale e pietra tombale tutto in un solo colpo. Non c’è metafora mortuaria capace di rendere fino in fondo il nichilismo e la volontà di sparire nel più buio dei buchi neri che trapela da Stray Dogs, dove tutto è diluito oltre misura e l’estremismo stilistico regna sovrano in ogni aspetto.
Nella sua personale lettera d’addio al cinema e al mondo, Tsai non si pone freni d’alcun tipo e fa esplodere la sua poetica in mille pezzi, in brandelli che nessuno si curerà più di rimettere insieme. L’impurità e le scorie radioattive che infestano il mondo contemporaneo e impediscono agli abitanti del suo cinema e della sua idea di realtà di vivere in modo pacificato i propri sentimenti prendono allora il sopravvento, in una Taipei che mai come in questo caso somiglia a una fogna livida e putrida, vessata dal vento e dalla pioggia, inghiottita dall’oscurità pece della notte. Il corso d’acqua è un lontano miraggio, i cani randagi del titolo pullulano in ogni luogo e non resta allora che limitarsi a dare sfogo alle funzioni corporali più basiche, ampiamente sottolineate da un regista che dal canto suo non le ha mai disdegnate ma che qui offre loro gli onori che si riserverebbero a una primadonna: ecco dunque affiorare pasti che vengono mostrati allo spettatore integralmente con polli spolpati da capo a piedi, scene di traffico cittadino che si fanno tableaux vivants, poemi patriottici recitati in faccia alla macchia da presa da reggitori di cartelli di professione che si sciolgono in pianti senza fine.
Stray Dogs è un martirio di bellezza funerea, che richiede allo spettatore tanta pazienza ma sa anche come restituirgli indietro tutto: riesce infatti a risarcire la resistenza dei più ostinati con una serie potenzialmente infinita di immagini di tristezza lancinante, che smuovono parti remotissime dell’anima di chi guarda costringendolo a fare i conti con cose come commozione, ribrezzo, commiserazione, disgusto. Si pensi a un esempio su tutti: la scena del cavolo truccato a mo’ di pupazzo, dapprima usato come strumento di piacere erotico e poi, constatata la sua inservibilità da quel punto di vista, sventrato, privato degli occhi e della bocca e infine divorato violentemente tra morsi e sputi, in una sequenza tra le più deflagranti e agghiaccianti che il cinema contemporaneo ci abbia donato fino a questo punto. Un momento impietoso di cinema respingente e altissimo, impossibile da dimenticare a prescindere da come lo si recepisca, se con ammaliato rapimento o con infastidito e sprezzante rifiuto. Stray Dogs è un film che lascia inerti come i suoi protagonisti, a piangere in più di un’occasione come vitelli orfani, indifesi e a pancia all’aria, soli contro le turpitudini del mondo e pronti a essere colpiti nelle nostre debolezze più intime da un momento all’altro.
Mentre all’esterno si ode lo scroscio dell’ultimo acquazzone che viene giù, il cinema di Tsai si congeda da noi umido e tumefatto, versando lacrime e ingurgitando liquidi in bottiglia come per compensare, accostando due attori nella stessa scena uno dietro l’altro e lasciando nelle loro mani e nei loro corpi scossi dai tuoni la responsabilità di un lungo, lunghissimo addio. Fino alla familiare firma finale dell’autore che sopraggiunge sui titoli di coda, suggello definitivo su una carriera di ombre, fantasmi e poesia, su un cinema dotato di anima propria che continua a fissarci dallo schermo come nella celeberrima soggettiva di Goodbye Dragon Inn. Noi, dinanzi a quello che è l’ultimo spettacolo di Tsai Ming-liang, pubblico attonito e tramortito, spiazzato una volta di più da un’arte che non concede compromessi e lascia orfani di consolazioni.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Festival
Scheda tecnica
Titolo originale: Jiaoyou
Anno: 2013
Regia: Tsai Ming-Liang
Sceneggiatura: Peng Fei Song, Tsai Ming-liang, Chen Yu Tung
Fotografia: Pen-jung Liao, Wen Zhong Sung, Sung Wen Zhong
Montaggio: Chen-Ching Lei
Durata: 138’
Attori principali: Shiang-chyi Chen, Kang-sheng Lee, Yi Cheng Lee