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VENEZIA 70 - Il Concorso: bilancio conclusivo

26/9/2013

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L’ultima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ha riacceso i riflettori su temi che in realtà sono sempre attuali e vivi ma che qualche volta perfino i più attenti tra gli addetti ai lavori tendono a mettere colpevolmente in standby. In particolar modo, Venezia 70 ha ribadito, attraverso la sua espressione più diretta e frontale, vale a dire il concorso ufficiale, la necessità per il cinema contemporaneo di farsi carico di un preciso lavoro sul linguaggio, forzandone i margini e dilatandole i limiti al di là di ogni angusta barriera.
Un’urgenza pressante che la selezione di quest’anno ha ribadito in modo quasi militante, attraverso titoli che facevano dell’essere apocrifi rispetto al canone un tratto distintivo: si pensi soprattutto al fluviale Die Frau des Polizisten di Philip Groning, che mirava a prostrare la resistenza dello spettatore per buona parte delle sue tre ore attraverso la durata fiume e l’irritante ripartizione in micro-capitoli, quasi per renderlo indifeso nel momento in cui il climax finale l’avrebbe poi messo di fronte al dramma sadico e insostenibile di un’ordinaria storia di violenza domestica.
La contiguità tematica di alcune opere finisce con l’essere quindi solo uno specchietto per le allodole: quel che più conta, al di là delle solite, pretestuose macro-aree (il crollo delle istituzioni propriamente dette e la crisi della famiglia intesa in senso tradizionale), è la comune tendenza scardinante che i film di quest’edizione hanno evidenziato, una spinta della quale la vittoria di un documentario è solo la punta dell’iceberg più macroscopica e strombazzata.
Ciò di cui si dovrebbe parlare e di cui occorrerebbe rallegrarsi, piuttosto che perdersi nei soliti discorsi comparativi tra le varie annate (si sa, il raccolto non è quasi mai lo stesso), è proprio quest’ansia di novità che si rintraccia sottopelle in tutto il panorama cinematografico internazionale e che emerge in superficie come la lava di un vulcano. 
Dalla lentezza colma d’oblio e disperazione di Stray Dogs di Tsai Ming-liang alla piccolezza intima, malinconica e ostentata di Garrel passando per il mélo stranito e allucinato di Dolan, alcuni dei migliori film in concorso ribadiscono il concetto espresso benissimo, tra gli altri, da alcune righe vergate nei giorni scorsi da Emma Dante, che ha parlato di “opere fragili e complesse nei riguardi delle quali ci vorrebbe maggiore attenzione”, come perifrasi (meravigliosa) di tutto un cinema d’autore che troppo spesso viene superficialmente snobbato dai media tradizionali, davvero poco inclini a una ricezione all’insegna di una maggiore apertura mentale. Una generalizzata pigrizia (termine che è ricorso più volte, nel dibattito romano post-Festival alla presenza del direttore della Mostra Alberto Barbera) che non fa altro che vessare l’attività di ricerca cinematografica ostruendo sempre più ogni possibile contatto con un pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori, una fetta di potenziali fruitori la cui ineducazione all’audiovisivo viene avallata e coccolata piuttosto che combattuta o, per quanto sia possibile, curata.
In tal senso, e a sentirlo parlare Barbera sembra decisamente dello stesso avviso, la critica sul web e sui media meno paludati, pur con gli ovvi rischi dovuti a incompetenza non filtrata e a proliferazioni selvagge di impostori più o meno imbellettati, ha saputo carpire molto meglio della carta stampata il “nuovo che avanza” e restituirlo nella sua problematica complessità. Va preso atto, non certo per tirare acqua al proprio mulino (vista anche l’esiguità degli interessi in ballo) di un atteggiamento decisamente più propenso da parte delle recensioni telematiche a prendersi il tempo dell’approfondimento, del percorso, dell’analisi, tutte operazioni che di sicuro contribuiscono a supportare lo spirito di una Mostra d’Arte Cinematografica.
Occhio alla definizione: Arte, non certo intrattenimento da multisala che soffochi la presunta presunzione dei cosiddetti “film da festival”, che poi sono ben altra cosa (e ben più convenzionale, quando confezionati in forma deteriore) rispetto a un film come quello di Tsai o a un’opera rischiosa e liberissima, anche se claudicante, come Under the Skin di Jonathan Glazer. Come rilancia giustamente Barbera: “È inutile dirci che il cinema sta cambiando se poi un festival non coglie questo cambiamento in atto. Anche negli sbagli, nelle scelte che possono essere discutibili”.
Curioso ma non troppo e quantomeno sintomatico, dunque, che Barbera stesso nel corso della suddetta conferenza alla Casa del Cinema di Largo Mastroianni abbia trovato una discreta opposizione da parte di (alcuni) rappresentanti della stampa istituzionale (gli rimproverano addirittura la difficoltà di tirar fuori un titolo accattivante durante la Mostra…) e che qualcuno tra i presenti gli abbia anche urlato: “Ma il pubblico ama gli attori!”, in risposta all’affermazione secondo cui sui primi quotidiani nazionali lo spazio per l’analisi filmica sarebbe ormai sempre più ridotto se non quasi inesistente a vantaggio del chiacchiericcio e del gossip.
Segnali di un conservatorismo allarmante, che rischia poi di produrre uscite imbarazzanti, indecorose e di sicuro poco documentate come quella di Pupi Avati nei giorni scorsi. Lo stesso sentimento conservativo che proviene, a livello formale, dall’altro documentario in concorso oltre al vincitore Sacro GRA, ossia The Unknown known, scelta a conti fatti non così d’impatto. Non meno ambigua, a livello semantico, dello stesso film di Rosi, che però spurio lo è mille volte di più: non solo perché flirta vertiginosamente con la fiction ma soprattutto nella misura in cui orchestra una non narrazione che freme per diventare narrazione vera e propria, passando dalla contemplazione lucida e chirurgica al cuore misterioso e strambo dei suoi personaggi.
Un equilibrio affascinante che rende Sacro GRA un film importante ben oltre i suoi stessi limiti e disequilibri, capace di affermare la sconcertante e intrinseca modernità espressiva del documentario senza la retorica del genere di serie B che da neopromosso si ritrova a gioire quale primo della classe nella massima serie. Che poi quest’etichetta insopportabile e appiccicaticcia gliela mettano addosso gli altri in un secondo momento è ovviamente tutta un’altra storia. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival

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VENEZIA 70 - Stray Dogs, di Tsai Ming-liang: l'ultimo spettacolo

18/9/2013

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Sintesi testamentaria doveva essere e sintesi testamentaria è stata. Stray Dogs non poteva né doveva ambire ad altro, chiusura assoluta su una filmografia che tanto ha lavorato sulla sottrazione, negando e negandosi, ma altrettanto ha saputo donare al suo pubblico. 
Nel solco di una scarnificazione del tanto amato melodramma truffautiano, il cinema di Tsai Ming-liang si è ritagliato un angolo in cui poter coltivare i propri insofferenti atti di depistaggio rispetto ai codici narrativi tradizionali: Vive l’amour, opera già definitiva nonostante vedesse la luce quasi un ventennio fa, consacrava agli occhi del mondo un talento registico in grado di reggere silenzi pneumatici antonioniani e scene di pianto dilatate per decine di minuti senza mancare di dare corpo a una sessualità raffigurata anch’essa con un tatto raro, dal sapore originale e anticonvenzionale. 
Da quell’apice al film che fa calare il sipario sulla carriera del regista di Che ora è laggiù?, il cinema di Tsai Ming-liang appare oggi irrimediabilmente incupito, fosco oltre ogni limite pronosticabile, contaminato da un pessimismo che si fa cappa di fumo, rigonfiamento tumorale e pietra tombale tutto in un solo colpo. Non c’è metafora mortuaria capace di rendere fino in fondo il nichilismo e la volontà di sparire nel più buio dei buchi neri che trapela da Stray Dogs, dove tutto è diluito oltre misura e l’estremismo stilistico regna sovrano in ogni aspetto. 
Nella sua personale lettera d’addio al cinema e al mondo, Tsai non si pone freni d’alcun tipo e fa esplodere la sua poetica in mille pezzi, in brandelli che nessuno si curerà più di rimettere insieme. L’impurità e le scorie radioattive che infestano il mondo contemporaneo e impediscono agli abitanti del suo cinema e della sua idea di realtà di vivere in modo pacificato i propri sentimenti prendono allora il sopravvento, in una Taipei che mai come in questo caso somiglia a una fogna livida e putrida, vessata dal vento e dalla pioggia, inghiottita dall’oscurità pece della notte. Il corso d’acqua è un lontano miraggio, i cani randagi del titolo pullulano in ogni luogo e non resta allora che limitarsi a dare sfogo alle funzioni corporali più basiche, ampiamente sottolineate da un regista che dal canto suo non le ha mai disdegnate ma che qui offre loro gli onori che si riserverebbero a una primadonna: ecco dunque affiorare pasti che vengono mostrati allo spettatore integralmente con polli spolpati da capo a piedi, scene di traffico cittadino che si fanno tableaux vivants, poemi patriottici recitati in faccia alla macchia da presa da reggitori di cartelli di professione che si sciolgono in pianti senza fine.
Stray Dogs è un martirio di bellezza funerea, che richiede allo spettatore tanta pazienza ma sa anche come restituirgli indietro tutto: riesce infatti a risarcire la resistenza dei più ostinati con una serie potenzialmente infinita di immagini di tristezza lancinante, che smuovono parti remotissime dell’anima di chi guarda costringendolo a fare i conti con cose come commozione, ribrezzo, commiserazione, disgusto. Si pensi a un esempio su tutti: la scena del cavolo truccato a mo’ di pupazzo, dapprima usato come strumento di piacere erotico e poi, constatata la sua inservibilità da quel punto di vista, sventrato, privato degli occhi e della bocca e infine divorato violentemente tra morsi e sputi, in una sequenza tra le più deflagranti e agghiaccianti che il cinema contemporaneo ci abbia donato fino a questo punto. Un momento impietoso di cinema respingente e altissimo, impossibile da dimenticare a prescindere da come lo si recepisca, se con ammaliato rapimento o con infastidito e sprezzante rifiuto. Stray Dogs è un film che lascia inerti come i suoi protagonisti, a piangere in più di un’occasione come vitelli orfani, indifesi e a pancia all’aria, soli contro le turpitudini del mondo e pronti a essere colpiti nelle nostre debolezze più intime da un momento all’altro. 
Mentre all’esterno si ode lo scroscio dell’ultimo acquazzone che viene giù, il cinema di Tsai si congeda da noi umido e tumefatto, versando lacrime e ingurgitando liquidi in bottiglia come per compensare, accostando due attori nella stessa scena uno dietro l’altro e lasciando nelle loro mani e nei loro corpi scossi dai tuoni la responsabilità di un lungo, lunghissimo addio. Fino alla familiare firma finale dell’autore che sopraggiunge sui titoli di coda, suggello definitivo su una carriera di ombre, fantasmi e poesia, su un cinema dotato di anima propria che continua a fissarci dallo schermo come nella celeberrima soggettiva di Goodbye Dragon Inn. Noi, dinanzi  a quello che è l’ultimo spettacolo di Tsai Ming-liang, pubblico attonito e tramortito, spiazzato una volta di più da un’arte che non concede compromessi e lascia orfani di consolazioni. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Festival


Scheda tecnica

Titolo originale: Jiaoyou
Anno: 2013
Regia: Tsai Ming-Liang
Sceneggiatura: Peng Fei Song, Tsai Ming-liang, Chen Yu Tung
Fotografia: Pen-jung Liao, Wen Zhong Sung, Sung Wen Zhong
Montaggio: Chen-Ching Lei
Durata: 138’
Attori principali: Shiang-chyi Chen, Kang-sheng Lee, Yi Cheng Lee

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