Si ripete l’incantesimo delle precedenti edizioni, quando film quali Love Hotel o Inside the Chinese Closet hanno risvegliato in platea uno stupore di taglio tutto occidentale. Quella “pericolosa meraviglia” con l’amaro sul fondo: l’inevitabile distanza fra culture, un diverso approccio morale e l’immancabile quesito. “Un fenomeno di questa portata potrebbe mai verificarsi qui da noi?”.
In Giappone ci sono ormai diecimila adolescenti – tutte corrispondenti al canone di giovane bellezza orientale – concentrate sul lavoro nonostante la tenera età. Un lavoro che si fa su scarpette dal tacco vertiginoso, strizzate in abitini scenografici, truccate come dive in miniatura e scatenate come cartoni animati in carne e ossa. Sono le idols e non è possibile definirle cosplayer perché il loro obiettivo è differente: sono piccoli monumenti alla purezza, alla verginità, alla freschezza acerba. Fatine con gli occhi a mandorla, cantanti pop in erba, voce acuta e sorriso plastico, gridolini, saltelli, coreografie studiate nelle proprie camerette e poi regalate al grande pubblico. Canzoni che diventano consolatorie diffondendo messaggi di libertà, amicizia, allegria, in un clima di magia e leggerezza più adatto a un videogioco che alla vita vera.
Se questo fenomeno prendesse piede in Italia – e l’associazione mentale sorge spontanea – probabilmente il pubblico si comporrebbe di adolescenti come le stesse idols. Non troveremmo niente di sbagliato nell’accompagnare nostro figlio di undici o dodici anni al concerto di una di queste nipponiche star che mandano baci dal palco atteggiandosi come anime. Complice questo ragionamento, la rivelazione di quello che è il pubblico giapponese delle girl band in questione suscita un certo scalpore.
Sono uomini adulti, in alcuni casi addirittura anziani. Persone che hanno perso tutto e vivono ormai ai margini della società: dopo amori falliti e delusioni quotidiane, hanno rinunciato a lavori stipendiati per seguire queste bamboline perfette concerto dopo concerto. Per sostenerle nelle loro acerbe carriere, hanno deciso di fare donazioni in denaro che in molti casi li hanno portati pressoché sul lastrico. Progressivamente sono stati allontanati dalle famiglie e per i più ossessivi fra loro è stato coniato il termine Otaku.
Un Otaku è un uomo che vive in solitudine nel santuario dei memorabilia delle idols, spendendo tutto il suo tempo nella ricerca di nuove informazioni o fotografie della sua preferita e seguendola senza tregua durante la tournée: noi lo definiremmo stalker, ma in Giappone è solo un fan scatenato e anche quando qualcuno storce il naso di fronte a tale dinamica, subito le idols provvedono a confortare i loro Otaku con le canzoni. Inni all’amicizia sfrenata, cori incitanti da tifoseria e il messaggio “Viva gli Otaku perché non sono persone noiose”, una sorta di ricompensa morale per i discussi fans. Ai nostri occhi, purtroppo, il confine fra ossessione e pedofilia appare labile.
È così che un movimento musicale giovanile diventa a tutti gli effetti una studiata manovra di marketing e una fabbrica dell’autostima maschile: se compri un cd, potrai scattarti una foto con la tua preferita. Se scrivi alla tua idol, lei ti manderà un biglietto con parole gentili. Lei è tua amica e tu la stai aiutando a realizzare il suo sogno musicale, proprio tu che non hai realizzato alcun sogno finora. E poi ci sono i momenti dedicati alla stretta di mano, forse i più eccitanti dell’intera avventura Tokyo Idols.
Come spiega una sociologa, la stretta di mano è una conquista storica recente nella cultura giapponese ed è percepito come un gesto dai profondi significati sessuali. Le idols permettono ai loro fan di toccarle solo in base a determinate regole. Vengono organizzati eventi per la stretta di mano dove il codazzo di ammiratori è convogliato al cospetto delle piccole divinità ed è possibile stringere le mani delle baby cantanti per pochi (cronometrati) secondi. Una piccolezza, ai nostri occhi, che ha un impatto devastante sulla psicologia di un popolo cresciuto nella repressione delle effusioni pubbliche: sullo schermo infatti compaiono uomini più o meno giovani incapaci di staccarsi dalla manina del loro idolo, allontanati con la forza, in stato di evidente turbamento sessuale. E le idols?
Sorridono generose davanti alla schiera di benefattori, dicono di non essere infastidite dalle attenzioni di uomini adulti - definiti “carini e gentili” - e lavorano con ritmi serrati fra concerti, concorsi e video su YouTube prima di giungere alla fine della carriera. Fissata, solitamente, fra i 17 e i 22 anni.
“Le idols hanno una data di scadenza”, è questa la terribile frase che fa da sfondo a un lavoro documentario sgargiante, rumoroso, esagerato eppure pieno di ombre, pause e silenzi. E così affiorano le piccole vite di Amu, Rio, Ryoko, Yuka e le altre. Hanno dai 14 ai 22 anni, le loro famiglie si sono abituate all’idea di avere una idol in casa. Queste ragazzine sorridono, incassano, pianificano un futuro diverso, più serio e professionale, vorrebbero doppiare film e diventare cantanti famose. Nel frattempo inforcano la bici per raggiungere i paesi limitrofi e farsi conoscere, da piccole manager di se stesse, firmando autografi e concedendo scatti.
“Con il tasso di natalità che abbiamo le idols andrebbero proibite” ironizza un antropologo, mentre la fabbrica delle bamboline continua a crescere e – secondo alcuni – emerge la figura di una donna umiliata. “I giapponesi non hanno autostima” viene spiegato. Dopo il boom economico degli anni novanta e il successivo crollo, hanno dovuto ricostruirsi. Il mondo del lavoro li ha fagocitati, i rigidi formalismi sono diventati sempre più soffocanti e ben presto alcuni uomini hanno imparato a vivere una quotidiana depressione. Chi è rimasto indietro – chi non ha formato una famiglia o trovato un buon posto di lavoro – è diventato sgradito agli occhi della società.
Come tale, le idols offrono a uomini adulti la possibilità di coltivare un amore casto e platonico con una donna che donna non è. Questi uomini non potrebbero mai pensare di avere a che fare con una donna vera, loro coetanea, nel mondo che li circonda: specie in una realtà popolata da donne determinate, il cui ruolo anche negli ambienti di lavoro è diventato sempre più fondamentale. Ecco allora che le idols rispolverano l’ideale perfetto di donna giapponese: casta, pura, innocente e quindi percepita come arrendevole, dolce e innocua. Una donna che ti consola e sorride, che si approccia a te con parole semplici e cerimoniose, che mai cercherà di dominarti ma si metterà al servizio della tua serenità.
Una donna che non a caso “donna” non è affatto.
Ma bambina, vestita in modo provocante, mentre le banconote fioccano nella cassetta delle donazioni.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Festival Reportage
Scheda tecnica
Anno: 2017
Regia: Kyoko Miyake
Durata: 88'
Sceneggiatura: Kyoko Miyake
Fotografia: Van Royko
Montaggio: Anna Price
Musiche: David Drury