Fame racconta di un progetto nato quasi per caso, quello dei primi passi per un Festival irriverente e rivoluzionario. È lo stesso Abbruzzese a parlarne nella sala del cinema Europa, con la rassegnata consapevolezza di chi ha vissuto Fame senza sottrarsi alla tempesta: quel momento elettrico di vernice, proteste e libertà di espressione è finito e non è destinato a tornare.
Ogni cosa deve avere una fine ma, se al suo posto rimane un segno indelebile, la missione può dirsi compiuta.
Muri bianchi, vicoli, un bar che sembra incastonato in un tempo immobile, la piazzetta polverosa del quartiere, qualche trattore che sfreccia per strada e le cassette di uva in vendita sotto gli occhi dei passanti. Un’aria d’oro, di luce calda, un quartiere polveroso che sembra sonnecchiare da secoli fra tetti e campanili, poi occhi scuri capaci di silenzi lunghissimi: il barbiere, il sindaco, l’artigiano, istantanee di umanità che ogni giorno respira quest’aria occupando un piccolo, solido spazio nel mondo. Sempre lo stesso.
È il quartiere della Ceramica di Grottaglie (Ta), cittadina dove Angelo Milano è cresciuto facendo i conti con la noia. Quella noia che un po’ uccide e un po’ condanna, talvolta protegge. La noia che gli ha lasciato poca, pochissima scelta: avrebbe potuto cullarsi in quei pomeriggi pigri e rassicuranti e invece ha deciso di metterli a ferro e fuoco, distruggerli, azzannarli, farli scintillare.
Boati, caos, scherzi estremi, imprese epiche: non c’è limite alla vibrante genialità di questo ragazzo, tenero e terribile domatore di leoni in un frammento di mondo che tutto avrebbe previsto tranne una rivoluzione. Angelo ha fame. E così i pianoforti volano giù dalle finestre per lanciare in aria il tonfo severo di una musica che musica non è, ma silenzio spezzato.
Sembra l’incipit di un romanzo punk rurale dove “le persone hanno tempi di reazione lunghissimi” e una sola cellula impazzita riesce a invertire le regole. A separare e unire. A indignare e rendere orgogliosi. A dispensare calci e carezze.
Lo fa con Fame, nell’arco di cinque splendidi e faticosi anni (dal 2008 al 2012) che Grottaglie non dimenticherà facilmente.
Dal porto sicuro del suo studio di serigrafia “alla cazzo” Angelo sogna muri parlanti per la città che dorme, avvia una collaborazione e un’amicizia con Ericailcane, crea una prima edizione del festival rigorosamente senza permessi. Invita artisti in numero via via crescente, writers nazionali e internazionali che amano quell’assenza di rigida organizzazione, quella voglia di montare ponteggi all’ultimo per cambiare faccia ai palazzi senza aver chiesto l’autorizzazione. Quando un gallo – simbolo del quartiere delle ceramiche – compare sulla facciata di un palazzo, il Comune interviene per farlo coprire.
Il pretesto giusto per dipingere un corteo di galline che piangono, sospirano, parlottano lungo il muro: è il funerale del gallo.
Fra i campi di grano dove si spalanca l’occhio di corvi dipinti e un vecchio monastero bisognoso di un cambio d’abito, ha inizio la vera avventura. Sono rincorse psichedeliche di disegni sui muri, evoluzioni, racconti visivi perfetti, accuse e desideri. Ed è tutto alla luce del sole, sotto gli occhi di una cittadina che non impiega molto a riconoscere il valore di quella operazione. Perché Grottaglie, poco alla volta, respira di nuovo e si innamora della ventata a colori. Perché ognuno merita un disegno sul proprio palazzo e lo chiede a gran voce. Perché quello non è vandalismo, è un dono bizzarro, è la novità.
Così il piccolo popolo dei personaggi di vernice fa amicizia con il piccolo popolo che fino a un attimo prima aspettava le sagre stagionali con moderato entusiasmo.
Sullo sfondo c’è un’amministrazione comunale – e un settore cultura – più interessato a quelle sagre, ai presepi, agli spettacoli di personaggi televisivi minori. Nessuno può aiutare Angelo a muovere montagne di creatività.
A parte Gilda, la mamma.
Con il grembiule, sorridente ed emozionata, ai fornelli per accogliere gli artisti che suo figlio convoca da ogni parte del mondo. E così felice nell’avere finalmente una possibilità: imparare l’inglese parlando con quei ragazzi, respirare la loro stessa fame, collaborare. Anche quando questo significa guidare un’auto che trasporta una curiosa statua sul tettuccio.
Così Fame vive le sue stagioni. Rivolta primitiva, arte estetica grezza e sensuale, arte pubblica scomoda. Diventa persino insulto obbrobrioso, rituale del disturbo. Ma anche quando il panico è tracciato dallo spray nero nella speranza di indignare, i grottagliesi non si indignano. Ormai hanno fame, vedono arte attorno, tengono stretto il loro strano fiore all’occhiello. Quando il Festival è pronto per spiccare il volo, la grande macchina della creatività si arresta.
Per Angelo, Fame muore prima di diventare un lavoro. In linea con il suo pensiero nobile, umile, squisitamente visionario, donchisciottesco.
Cala il sipario sull’avventura più multiforme e variopinta che un gruppo di ragazzi abbia mai saputo immaginare e restano interrogativi, inclusi quelli del pubblico in sala.
Tornerà in futuro?
Ci sarà una seconda volta?
È davvero finita così?
Chi lascia la sala, dopo la visione di questo breve film, avverte uno strano senso di speranza nel futuro.
E a chi conosce quei luoghi e li vive, resta il meraviglioso regalo di un ricordo a colori che le intemperie scalfiscono e il cuore trattiene.
Con rabbia.
Con fame.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Festival Reportage
Scheda tecnica
Regia: Giacomo Abbruzzese, Angelo Milano
Anno: 2017
Durata: 57'