
La Risoldi definisce questo lavoro di Jenny Gage “affettuoso, curioso e rispettoso”, fotografa questa “epoca delle passioni tristi” (citando il testo di Benasayag e Schmidt) e regala al pubblico un pensiero di Pennac: “I bambini sono dei poeti, gli adolescenti sono dei moralisti e gli adulti sono dei contabili”. Con l’eco tenero di queste parole nelle orecchie, le luci si spengono lasciando spazio a All this panic, alle sue figlie vivaci, ai suoi genitori quasi invisibili.
Una festa alla quale siamo stati invitati.
A organizzarla sono alcune ragazze di Brooklyn, adolescenti imprigionate in corpi un po’ bambini, che compaiono riluttanti sul trampolino della vita eppure stanno per tuffarsi. La macchina da presa le segue per tre anni, fra spiagge deserte e metropolitane, piccoli giardini condominiali, taxi, scuole e concerti all’aperto.
Impareremo a conoscerle in 79 minuti che diventano diario di una transizione. Tecnica ed estetica sono quelle del documentario, ma la regista rivela un tocco magico nel selezionare i giusti momenti di un percorso che le ha fornito un’ingente quantità di materiale.
Conosceremo Lena, con il suo apparecchio dentale, l’aspetto mascolino e un fascino segreto che il tempo plasmerà con calma e cura. Ginger, spregiudicata e smarrita, con i capelli che cambiano spesso colore e il sogno di diventare attrice che stenta a decollare fra un party e l’altro. Sua sorella minore Dusty, florida bellezza americana, timida e riservata. Sage, afroamericana con una cascata di treccine e lo sguardo sfuggente di chi sta crescendo troppo in fretta. Delia, con le lentiggini e la bocca sempre pronta a snocciolare qualche pettegolezzo della scuola. Olivia, che non è sicura di essere innamorata del ragazzo che frequenta. Ivy, esagerata e ingorda di esperienze da adulta.
Ognuna di queste ragazze dovrà prendere una decisione, nel corso di tre anni condensati in 79 minuti: presentarsi al mondo a testa alta scegliendo la propria identità di donna, lasciare che l’adolescenza così ferocemente difesa - “Invecchiare è la cosa più spaventosa del mondo” afferma Ginger mentre si trucca allo specchio – scivoli via di dosso quasi impercettibilmente per lasciare spazio a orizzonti più vasti e problemi di colpo molto più gravi.
Leader narrante di questo gruppo diventa inevitabilmente Lena, piovuta quasi per errore in una famiglia troppo fragile per darle sostegno: la mamma in continua ricerca di casa e occupazione, il papà sull’orlo del suicidio, il fratello Nathan autolesionista e affetto da disturbi psichiatrici.
“Molte cose in questa casa non funzionano” dice Lena durante una visita presso il padre, quando una porta a vetri si smonta all’improvviso fra le sue mani. Sullo sfondo c’è il Servizio di Tutela dei Minori americano, presenza impalpabile che giudica i genitori “negligenti” spingendoli a una guerra di colpevolizzazioni reciproche. Eppure Lena, fra i turni “da papà – da mamma” e le tragiche notizie ospedaliere del fratello Nathan, vuole organizzare una festa e baciare il ragazzo sul quale ha messo gli occhi da un po’: “Ho pensato che se io mi ubriaco e lui si ubriaca, posso dirgli che mi piace”. E sono festicciole semplici, quelle del piccolo gruppo di amiche, con l’alcol che scorre senza permesso e qualche droga da provare per poi ritrovarsi al mattino, come pulcini dalle piume arruffate, a guardare in camera dicendo “Alla fine ho baciato un altro ragazzo. Non so, doveva essere diverso, doveva essere l’altro. Il bacio è una di quelle cose che immagini perfette e alla fine non lo sono”.
L’amore, come il sesso, sono le implacabili correnti alle quali i corpi di queste ragazze americane si ritrovano esposti all’improvviso in un risveglio di sensi e pensieri imprevisto, di difficile gestione: “detesto perdere la verginità perché incasina tutto”, “ho capito di essere lesbica e con questa cosa farò i conti per il resto della mia vita. Forse un giorno mi renderà felice”, “io vorrei essere madre perché mi piace l’idea di fare persone”. Sono come pagine di diario scartabellate da un vento impetuoso, confessioni che affiorano nelle magnifiche immagini dei pomeriggi fra amiche, qualche bisticcio, le passeggiate, le boccacce e le corse sulle sabbia, i corpi che non si arrendono al tempo e vorrebbero restare un po’ bambini, il mondo che detta nuove regole, i capelli che crescono e gli occhi che diventano di colpo più quieti, più seri.
La scelta dell’università pone tutte di fronte ai propri spettri personali. “Non vedo l’ora che la vita ti dia un bel treno sui denti!” dice l’autoritaria mamma single di Sage gesticolando in salotto. “Mia mamma è così perché è black, è diversa” spiega quella figlia che non ha il permesso di stare fuori dopo la mezzanotte. E poi, con tutta la sua delicatezza, racconta la morte del papà mentre strappa le erbacce dal giardino che lui amava tanto e indica l’albero di corniolo rosso piantato da lui, albero che è cresciuto a dismisura dopo quel lutto. Cresciuto come una figlia afroamericana determinata a combattere per i diritti delle donne, pronta a scegliersi il proprio futuro e a frequentare un’università che permetta a un’afroamericana “di tirare il fiato dopo tanto tempo passato a trattenerlo”.
Lena decide a sua volta di frequentare l’Università per costruire qualcosa di solido in una famiglia ormai vaporizzata, e così facendo perde di vista Ivy e Ginger. Quest’ultima è forse la principessa più triste di tutte: educata sentimentalmente secondo la regola “passa da una persona all’altra o sarai in trappola”, Ginger fa i conti con due genitori sfocati sullo schermo come nella vita, avvezzi a ripeterle “fa qualcosa per renderti interessante”. Anche la sorella minore Dusty, sempre chiusa nel suo piccolo guscio, appare più interessante di lei. Così è tempo di frenetici tagli di capelli, ciocche rosa per coprire un viso impaurito, giornate di noia saltando da una festa all’altra sotto la guida di Ivy, scatenata e dominante. Ci sono ragazzi da baciare, droghe da sperimentare e un futuro lasciato nell’angolo nel timore di affrontarlo. “Ho paura che tutti i miei amici vadano avanti e io resti un’amica delle superiori” confessa Ginger mentre gli occhi si fanno umidi.
La promessa del film è che ognuna di queste crisalidi potrà infine spiccare il volo: chi per necessità, in fuga da un ambiente domestico sbagliato, chi per scelta consapevole, chi quasi per errore ma con tutto il coraggio che occorre. Per alcune ci sarà un percorso di studio, per altre il banco di prova del lavoro e per tutte rimarrà quell’incertezza agrodolce a gravitare sul fondo: “Non ho ancora trovato un nome per questo periodo”, dirà Lena in aeroporto, alla vigilia di un viaggio importante; “diciamo che sono al punto di lancio e sto costruendo il razzo che esploderà”.
All this panic riesce a toccare la ragazza rabbiosa, intimorita e disperata che dorme dentro di noi. Parla di amori che sembravano più belli visti da lontano e problemi che sembravano più piccoli fino al giorno prima, di corpi da accettare e pulsioni da tenere per mano, di solitudini perfette che sembrano compagnia.
Di donne che, senza saperlo e senza potergli dare un nome, costruiscono qualcosa che in futuro esploderà.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Festival Reportage
Scheda tecnica
Anno: 2016
Durata: 80'
Regia: Jenny Gage
Montaggio: Connor Kalista
Fotografia: Tom Betterton
Musiche: Joe Wong, Didier Leplae