Sofia, giovane laureanda in regia documentaria, decide di iniziare a riprendere il padre, criminale e tossicodipendente, nel tentativo di raccontare con parole e immagini la complicata vita di lui e insieme con l’intento di scoprire se il cinema può aiutarla a trovare un riavvicinamento, a conoscere un uomo diventato in pratica un estraneo. Il primo risultato di questo esperimento è un cortometraggio intitolato A Little About My Dad. Ma Sofia capisce che la strada è solo all’inizio: c’è molto altro da mostrare, da analizzare, da capire. Così l’esperimento continua e si intensifica: la ragazza filma il padre per 6 anni consecutivi, dal 2012 al 2018, seguendone passo per passo le vicissitudini, senza rinunciare a proporre davanti alla macchina da presa anche momenti dolorosi e crudi; allo stesso tempo insegna al genitore come filmarsi da solo, in modo che lui possa riprendersi in autonomia anche quando la figlia non gli è accanto.
Da questo doppio registro narrativo si accumulano ore di materiale, che la Haugan poi taglia e cuce per completare Røverdatter (My Heart Belongs To Daddy nella versione internazionale, anche se il titolo originale norvegese è in realtà traducibile come “figlia monella”), selezionato per la sezione Visti da vicino del 37° Bergamo Film Meeting.
Chi è Kjell Magne Haugan? Se lo chiede la figlia Sofia, senza poter fornire una risposta esauriente. Un uomo malato, senza dubbio. Dipendente dalle anfetamine, dalla delinquenza, dalla voglia mai doma di autodistruggersi. Un antieroe che tanti anni prima si è perso, per non ritrovarsi più. Ma anche un bambino capriccioso, un adolescente fuori tempo desideroso di remare sempre controcorrente per sfidare la società, un vecchio tenero e stanco che alterna sprazzi di energia a momenti di abbandono. Kjell Magne Haugan è tutte queste persone in una. Un cleptomane che va negli hotel a rubare asciugamani, souvenir e perfino il menù del ristorante (!). Un reietto che rifiuta un'occupazione normale e allaga o brucia gli appartamenti in cui vive. Un pazzo che balla in mutande davanti alla macchina da presa, gioca con le armi e non si fa problemi a filmarsi anche mentre si infila la siringa in vena. Un fuggitivo che scompare proprio la mattina in cui deve essere ricoverato per cominciare un percorso di riabilitazione. Un debole che fa della droga e dell’alcool amici fedeli e indispensabili. Alla stregua della compagna Trude, anche lei tossicomane.
Eppure Kjell Magne e Trude si vogliono bene. E questo padre snaturato vuole bene anche a Sofia, a modo suo. Sofia che cerca di aiutarlo, di seguirlo, di dargli nuove possibilità, puntualmente disattese. Sofia che durante questi 6 anni spesso accantona la sua vita per dedicare gran parte delle energie al genitore, ricevendone in cambio quasi sempre delusioni. Ma c’è qualcosa, tra loro. Un fil rouge poco visibile che però si sente nell’aria, nelle occhiate complici che si scambiano, negli sprazzi di humour nero che condividono, nella perseveranza con cui inseguono con determinazione i propri obiettivi, chiari o incomprensibili che siano.
Il lavoro della Haugan in molti passaggi non è gradevole. Tutto il contrario. Eppure attrae, conquista, appassiona. Esiste anche un po’ di finzione scenica in qualche punto, come ammesso dalla stessa regista nell’incontro con il pubblico post-proiezione, ma c’è soprattutto tanta verità, tanto cuore, tanta rabbia. E qualche sorriso, in grado di riscaldare gli occhi e farci entrare ancora più a fondo in questa storia che magari non è nemmeno così lontana da altre storie che forse noi stessi abbiamo vissuto o stiamo vivendo.
Sofia si copre inorridita lo sguardo mentre il padre si buca proprio davanti a lei. Sofia lo guarda ciondolare ubriaco provando un mix di angoscia e impotenza. Sofia telefona di qua e di là cercando soluzioni. Sofia gira per Oslo carica di livore, cercando il padre disgraziato che puntualmente scompare nei momenti meno opportuni perché “ha delle cose da fare” e non vuole essere di nuovo rinchiuso in gabbia. Sofia cerca spiegazioni e non ne trova, perché ogni volta che tira in ballo in passato o cerca di capire come mai si sia ridotto così, lui svia il discorso. Sofia corre e inciampa, si fa in quattro e combatte, crolla e piange, si asciuga le lacrime e riparte. Poi basta uno sguardo d’intesa, una battuta scema, un momento di pseudo intimità domestica e Sofia ride, assaporando attimi di felicità in cui recuperare, almeno in parte, gli anni di rapporto perduti.
Lei ride. Noi con lei. Sempre più catapultati nelle pagine di un documentario davvero bello, emozionante e ricco di profondi significati.
A Bergamo, dopo i titoli di coda, alla domanda di uno spettatore sulle attuali condizioni del padre, la Haugan ha raccontato di come lui e Trude da alcuni mesi siano andati a vivere in una piccola isola. Passano il loro tempo creando decorazioni. Stanno meglio, si disintossicano, non vogliono tornare nelle squallide condizioni di prima. Cercano di tenersi fuori dai guai e sono “quasi” sobri e puliti.
Un lieto fine? Forse. Per merito del cinema? Anche. Quindi il cinema può salvare la vita? Magari no. Ma può essere di grande aiuto. Questo è certo.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Festival
Scheda tecnica
Titolo originale: Røverdatter
Anno: 2018
Regia: Sofia Aronsen Haugan
Musiche: Hanne Hukkelberg
Sceneggiatura: Sofia Aronsen Haugan
Fotografia: Magnus Tombre Bøhn
Cast: Sofia Aronsen Haugan, Kjell Magne Haugan
Durata: 86’