ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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SOLO DIO PERDONA - La vendetta e l'incubo

31/5/2013

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Nicolas Winding Refn (e Ryan Gosling con lui), tornano a Cannes due anni dopo il premio per la miglior regia conquistato con Drive (2011), titolo che ha consacrato, in modo definitivo, la fama internazionale del regista danese. La Croisette però porta ai vertici e con la stessa facilità affossa, tant'è che Solo Dio Perdona (Only God Forgives) è stato stroncato quasi all’unanimità, in un coro di voci contro sia da parte degli eterni detrattori del cineasta, che, più inaspettatamente, anche da chi ha sempre seguito e amato la sua arte. 
Realizzata in collaborazione con la casa produttrice francese Gaumont, la pellicola si inserisce in modo ambiguo nella filmografia refniana, poiché presenta l’anacronismo di essere stata scritta tempo fa, in un periodo di grandi difficoltà finanziarie e di rabbia verso il mondo: particolarità che non ha giovato al risultato finale, poco viscerale e sentito rispetto ai lavori precedenti. Il cinema di Nicolas Winding Refn, infatti, nonostante le accuse di freddezza e autorialità gratuita, è sempre stato fortemente emotivo, personale, specchio del proprio essere in quel preciso momento della vita: per questo, al centro di ogni suo film si è sempre visto l’Individuo, un anti-eroe che diventa eroico suo malgrado, dal Milo di Pusher 3 passando per il driver/Gosling (l’esempio più palese) fino ad arrivare alla figura muscolare e mitologica di One Eye (Mads Mikkelsen) in Valhalla Rising.
Quello che manca nell’ultima opera del regista è proprio un personaggio maschile di riferimento, delineato in modo semplice ma preciso, che assurga a simbolo per restare impresso nella mente dello spettatore: Julian, interpretato da Ryan Gosling dopo il fortunato connubio del film precedente, è poco più di un’ombra che si muove all’interno del narrato, pallido ectoplasma che pare voler replicare se stesso nel ruolo del driver, fuori tempo e luogo, come se fosse capitato nel racconto sbagliato. Julian, che insieme al fratello Billy (Tom Burke) gestisce una palestra di thai boxe a Bangkok, in realtà copertura per un traffico di droga, vorrebbe essere il polo positivo di un mondo sostanzialmente marcio ma non ci riesce, poiché non trasmette nessun tipo di energia, restando per lo più ibrido. Al protagonista vediamo contrapporsi non soltanto Billy, ucciso dopo essersi macchiato di un crimine orrendo, ma anche la loro madre, Crystal (una Kristin Scott Thomas troppo sopra le righe), altra figura a tutto tondo nel suo essere morbosa, ambigua e desiderosa di Vendetta: a Julian il compito di portarla a termine, dando la caccia a Chang (Vithaya Pansringarm), poliziotto in pensione che rappresenta la Giustizia, seppur sommaria e privata, personaggio che a differenza degli altri riesce a lasciare un segno.
Solo Dio Perdona possiede una caratteristica assente nelle altre opere di Refn, ossia un dualismo quasi manicheo: Bene e Male, Peccato e Redenzione sono contrapposti, in lotta, mentre nel suo cinema sono sempre stati un concetto unico, mescolati l’uno all’altro in un’ambiguità affascinante e sfaccettata; non è un caso che molte inquadrature siano perfettamente simmetriche, divise a metà, in special modo quelle con al centro Crystal, ideale ago della bilancia posto tra due contrappesi.
Questo è solo un lato della medaglia di quest’opera contraddittoria, che possiede tuttavia innegabili pregi: ciò che è stato additato, da molti, come formalismo fine a se stesso, è in realtà sperimentazione ardita e coraggiosa. Il film, infatti, riporta in modo evidente a Fear X (2003), primo lavoro americano di Winding Refn nonché clamoroso flop che lo mandò in bancarotta: la sua creatura incompresa e bistrattata per eccellenza (sorte che probabilmente toccherà anche a Solo Dio Perdona), in realtà onirica e pregna di molteplici chiavi di lettura. Ritroviamo i colori forti, il rosso e il blu dominanti (il direttore della fotografia è il medesimo, Larry Smith, presente anche in Bronson), i lunghi corridoi che in realtà non portano in nessun luogo, la dimensione del sogno (o meglio, dell’incubo), che nel film con John Turturro era specchio della mente del protagonista, mentre qui è forma espressiva “altra” e, per sua natura, destinata a essere fraintesa: Solo Dio Perdona andrebbe dunque letto tra le righe di un testo più esteso, alla luce delle opere precedenti e di una poetica precisa e peculiare.
La pellicola è tecnicamente impeccabile, forte di una fotografia eccelsa e di uno score ridotto all’osso ma con un pezzo portante assai potente; è scandita da un montaggio sinuoso e ammaliante, ed è diretta con la maestria propria del cineasta nativo di Copenhagen; alcune sequenze restano indelebili (i tentativi di uccisione del poliziotto da parte dei sicari mandati da Crystal) e si esce dalla sala con la netta sensazione di voler vedere il film una seconda volta, per metabolizzarlo in modo più completo.
Un'opera manichea non solo nella sostanza ma anche nel suo valore, alterna e in perenne contraddizione, in cui manca un elemento fondamentale delle storie refniane, quel quid che le sottrae gran parte del suo potenziale: l'empatia con lo spettatore, quella ben nota emotività di fondo che qui, purtroppo, è la grande assente.

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Only God Forgives
Anno: 2013
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn
Fotografia: Larry Smith
Musiche: Cliff Martinez
Durata: 90'
Uscita in Italia: 30 Maggio 2013
Interpreti principali: Ryan Gosling, Kristin Scott Thomas, Tom Burke, Vithaya Pansringarm, Gordon Brown

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TUTTI PAZZI PER ROSE - La Francia per l'amore

29/5/2013

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Prima premessa: vorremmo gentilmente chiedere ai distributori italiani di smetterla di affibbiare ai film stranieri questi titoli insopportabili e fuorvianti. Non se ne può più. Costerebbe tanto mantenere la nomenclatura originale, o tradurla in modo per quanto possibile fedele? I se mi lasci ti cancello e compagnia sono un insulto all'intelligenza degli spettatori, così come questo terrificante Tutti pazzi per Rose, fantasiosa definizione di un film che in realtà si chiama Populaire.
Seconda premessa: a giudizio di chi scrive Deborah François rappresenta, insieme ad Anais Demoustier, la stella più splendente tra le giovani leve del cinema francese. Dopo averla ammirata in L'enfant dei Dardenne, nello strepitoso La voltapagine di Dercourt, nell'ottimo Le premier jour du reste de ta vie di Bezançon e nel controverso Student Services della Bercot, notevole era la curiosità di vederla all'opera in un ruolo senz'altro più lieve e impostato su registri interpretativi assai distanti dai lavori precedenti. Una scommessa a conti fatti vinta.
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Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Rose Pamphyle vive in un piccolo paesino di provincia, lavora nel negozio del padre ed è promessa sposa al figlio del meccanico locale. Una vita come tante, banale e priva di stimoli. La ragazza ha però ambizioni ben diverse: risponde così all'annuncio di Louis Echard, assicuratore di successo in cerca di una segretaria. Rose è accolta con vivo scetticismo, ma riesce comunque a conquistare il posto, mettendo in mostra un grande talento nascosto: la capacità di battere a macchina a velocità supersonica. Echard prende a cuore il destino della ragazza, e decide di svilupparne la dote, sottoponendola a dure sessioni di allenamento per poi iscriverla ai campionati regionali di dattilografia. Da lì in poi, Rose scalerà le vette della competizione, coltivando nel frattempo un sincero amore per il suo capo/mentore.
Régis Roinsard, specializzato nella realizzazione di spot e video musicali, debutta nel lungometraggio con un film dal chiaro sapore vintage, con il quale cerca di richiamare suggestioni e colori del periodo di riferimento. Siamo nel 1958, un'età in cui le donne inizia(va)no a reclamare con forza il proprio ruolo all'interno della società, sfidando le convenzioni per urlare al mondo il proprio sacrosanto desiderio di uguaglianza sociale e professionale. Rose è l'emblema del coraggio, della determinazione, il simbolo di chi non accetta una vita già scritta e prova ad aprire le sue ali per volare oltre i sentieri soffocanti di ruoli ormai incatramati. Echard, l'assicuratore, è invece l'uomo virile che regala al sacro potere dell'apparenza le sue disillusioni, immolando l'ordine pulito della forma per nascondere la povertà intima della sostanza. 
Tra loro, così diversi ma accomunati da una disperata voglia di libertà e sicurezze, si sviluppa un rapporto che travalica i confini lavorativi per sfondare il muro del sentimento, anche se in un primo tempo è soltanto Rose a nuotare nelle acque agitate dell'amore. Lei ammicca e lui respinge; lei sfugge al ruolo virginale che le è stato assegnato e lui, finché può, la sfrutta per farla diventare una campionessa, e così sfogare indirettamente la sua repressa voglia di affermazione.
Populaire è una favola dipinta con le tonalità pastello di un technicolor d'epoca adattato alla modernità, ed è al contempo il fedele ritratto delle contraddizioni di un'epoca di cambiamento ed emancipazione. Sullo sfondo ci sono macchine da scrivere rosa, acconciature alla Doris Day, negozietti di provincia, occhiali con montature appariscenti, televisori in bianco e nero, rotocalchi patinati, ricordi di guerra, sottovesti pudiche. È un mondo artificioso, ma solo in apparenza; il lavoro compiuto a livello tecnico è infatti fedele e attento.
Rose Pamphyle, antesignana di Amelie Poulain, è l'eroina zuccherosa di un tempo ormai disperso, ed è il timido Angelo dalle sembianze fanciullesche, entro cui si nasconde però il senso di una determinazione feroce e invidiabile. Gli occhioni di Deborah François, bravissima in un ruolo meno facile di quanto si potrebbe credere, si sgranano di fronte a ogni deviazione del destino, lasciandoci gustare il suo dolce sorriso, la sensualità mai sovraesposta, le docili variazioni espressive che ne caratterizzano i tratti del viso. Un'interpretazione perfetta, a contrastare la piacioneria troppo esibita di Romain Duris, belloccio capace di passare senza difficoltà da ruoli sofferti (Tutti i battiti del mio cuore di Audiard) a commedie innocue (Il truffacuori), ma qui fin troppo monocorde nell'affidarsi solo alla sua gradevolezza estetica. Accanto a loro ritroviamo Bérénice Bejo (The Artist), in un ruolo peraltro abbastanza defilato, Miou Miou e il sempre puntuale Frédéric Pierrot (Polisse).
Premiato da un vasto successo di pubblico in patria, e candidato a cinque premi César, Populaire risulta tanto piacevole quanto prevedibile nei suoi risvolti narrativi. Roinsard sfrutta meccanismi e schemi di chiara derivazione americana, dipingendo una scalata al successo che arriva a superare barriere geografiche e linguistiche (chi ha detto Rocky Balboa?); l'autore dimostra comunque un discreto gusto cinefilo (la citazione di Vertigo) e non dimentica il paese da cui proviene.
Sappiamo infatti come la Francia, nella sua infinita autoreferenzialità, sappia sempre lodare con pieno merito se stessa, anche nell'ambito della commedia: i modelli di riferimento sarebbero innumerevoli, ma ci basta ricordare il recente e magnifico Intouchables o il delizioso Le Prènom (ovvero Quasi amici e Cena tra amici, tanto per tornare al discorso degli insulsi titoli italiani). 
Anche qui, come da copione, il tocco di classe non manca, esemplificandosi nell'ultima, caustica e ficcante battuta del film: l'America per gli affari, la Francia per l'amore. Chapeau.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Populaire
Anno: 2012
Durata: 111'
Regia: Régis Roinsard
Fotografia: Guillaume Schiffman
Musiche: Emmanuel d'Orlando
Attori principali: Romain Duris, Déborah François, Bérénice Bejo, Shaun Benson, Miou-Miou, Frédéric Pierrot
Uscita italiana: 30 maggio 2013

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LA GRANDE BELLEZZA - Incostanti sprazzi

22/5/2013

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A ogni suo nuovo film, Paolo Sorrentino ama rischiare il triplo del film precedente, tastando sfide intentate e più grandi, ancor più proibitive montagne da scalare. Lo fa da sempre: in ogni lavoro aggiunge un tassello in più, va oltre, coltiva nuovi slanci ipertrofici. Il suo La Grande Bellezza è un affresco dalle ambizioni così sconfinate da risultare con estrema facilità un’arma a doppio taglio: croce e delizia, benedizione e dannazione, polvere e altari, già tutto e il contrario di tutto, infamia e capolavoro, Eden e Inferno. 
Film chiacchieratissimo di gran lunga prima che vedesse la luce, è un’opera complessa, stratificata, di non semplice e immediata intellegibilità. È la Roma vampirizzata da Sorrentino in un tripudio gocciolante di mondanità e feste patinate, divertimento sintetico e macchiette portavoce dello squallore dilagante. Una Roma metafisica e altra, notturna e morente, sarcofago-specchio di un’Italia che si estingue giorno dopo giorno nella reiterazione di una vuotezza irrimediabile e inguaribile.
Molto probabilmente però, al di là delle sue semplicistiche riduzioni mediatiche e dei punti di contatto col nume tutelare Fellini – più Roma che La dolce vita, a dire il vero – La Grande Bellezza non racconta (solo) della Città Eterna ma si configura piuttosto come un film sulla ricerca del bello tout-court. Una città dal dannunzianesimo anacronistico e godereccio, incrostata di beatitudini e d’un impegno civile solo ipocritamente rivendicato (sulle increspature pronte ad esplodere del volto di Galatea Renzi c’è tutta la crisi del radicalchicchismo sinistroide odierno). Un macro-universo sospeso che si circonda di accecanti luci pacchiane per non fare i conti col fango della propria meschinità, in cui succede sempre qualcosa ma alla fine non succede nulla, in cui il senso d’eternità che si respira in ogni angolo scantona in un’inevitabile e speculare sensazione di vuoto cosmico.
“Auguri Jep, auguri Roma!”, declama il simulacro matronale della (fu) Serena Grandi. Perché Roma e Jep Gambardella, giornalista brillante e indolente che ha scritto un solo romanzo oltre quarant’anni prima e che adesso si dedica esclusivamente al bestiario umano che gli gravita attorno, stringi stringi sono la stessa cosa. Si rassomigliano, si sono in qualche modo scelti. La lucidità fumosa e al contempo tagliente di Jep, il suo essere un dandy-guaglione seducente, carezzevole eppure spietato, sono caratteristiche che coincidono alla perfezione con la natura all’apparenza accogliente ma in fondo disinteressata e matrigna che Roma riserva ai suoi figli, soprattutto se acquisiti, se stranieri e dunque a lei estranei. Nel suo bellissimo monologo sulla terrazza il personaggio di Toni Servillo si produce in una sensazionale overdose di implacabilità: le parole come pietre, il grado massimo della letterarietà dei dialoghi sorrentiniani. Nessuno sconto, solo un tristo mietitore di anime purganti (di una in particolare). Proprio come la sua Roma.
Nonostante il respiro e la solennità che l’ammantano, La Grande Bellezza fatica però a dialogare dentro di sé, a instaurare connessioni profonde nel suo tessuto interno. Ogni scena è una scena madre ma c’è anche una generale sensazione di scollatura non voluta, come se i quadri scissi se ne stessero ognuno per conto proprio, sacrificando il respiro generale. Nella seconda parte il film si siede, e in pratica non si rialza più. Sorrentino fa un film ancora una volta molto personale, lontano da ogni forma di estetica derivativa, impestato del suo stile, sottolineando a ogni passaggio quanto la poesia e la bellezza abbiano sempre bisogno del lampo dell’invenzione. Il demiurgo deve avere d’altronde il potere di trasformare un soffitto bianco in una distesa di mare, di materializzare l’impossibile; è proprio questo il sogno spericolato di Sorrentino, cineasta dalla pupilla vorace, sempre a caccia della più elettrizzante e avvitata delle visioni. E di fatto La Grande Bellezza parte come un furioso oggetto audiovisivo martellante e monstre, tra dolly sconfinati e rabdomantici stordimenti orgiastici e musicali. Un botta di adrenalina. Poi però restano le ceneri, e le perplessità.
Non mancano i momenti di fragilità struggente e accecante (la messa in scena del funerale, con un pianto di Jep che alla fine sopraggiunge per davvero, inspiegabilmente autentico) e l’accorata vicinanza di un rapporto come quello tra Jep e la Ramona di Sabrina Ferilli, ben oltre la freddezza di due apparati umani qualsiasi. Tuttavia, tra enfasi e profanità ostentata, tra sacralità religiosa fatta a pezzi e fuochi fatui assortiti, il film non spicca il volo, ma è comunque lì, vivo e ondeggiante sul bagnasciuga della vita. Non si tuffa e non respira a pieni polmoni la salsedine del mare sconfinato delle sue invenzioni, si aggira piuttosto dalle parti della contemplazione da fuori.
Sorrentino sembra fermarsi un giro in più di un’occasione, come nel gioco dell’oca. Ma il suo viaggio al termine della notte vale comunque lo sforzo di essere seguito e affiancato con estrema passione. Il sovrappiù e il compiacimento del puparo che fa la voce grossa nel muovere le sue creaturine di cartapesta c’è tutto, ma alla lunga emerge anche la verità, quella chimera che ogni artista magari incrocia, forse per sbaglio, forse in maniera accidentale. È la scultura e la scrittura del tempo, un’immobilità che sul tempo della vita e sulla vitalità del tempo non può non riflettere. Il miracolo di chi si fotografa ogni giorno, guardandosi in continuazione allo specchio. “È solo un trucco”, ma è un’illusione che può valere oro.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Musiche: Lele Marchitelli
Attori: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Roberto Herlitzka, Serena Grandi, Anita Kravos, Isabella Ferrari, Giulio Brogi
Anno: 2013
Durata: 142 min
Data uscita in Italia: 21 maggio 2013

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BEKET - They do not move

19/5/2013

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Sempre tentato. Sempre fallito.
Non importa.
Tentare di nuovo. Fallire di nuovo.
Fallire meglio.

(Samuel Beckett)

Alcuni film sono, al di là di tutto, radicali atti di resistenza. Beket di Davide Manuli, tornato in sala ben cinque anni dopo il suo pionieristico concepimento grazie a Distribuzione Indipendente, è proprio quel tipo di film: schiaffo al sistema, unghiata, film low cost girato in una decina di giorni, col regista che veniva da un progetto precedente andato a male a causa di produttori non proprio disponibilissimi. Ambizioso e oscuro oltre ogni limite, Beket prende a modello la celeberrima opera teatrale di Samuel Beckett per stritolarla e comprimerla, per la farla a pezzi e decostruirla in un patchwork di frammenti da pop-art all’acido muriatico. Il titolo storpiato è indicativo di una volontà di corrosione ribellistica che non si pone freni, incurante di ogni pubblico, autistica fino allo spasmo e alla disperazione narcisistica. 
Di sicuro in tutto ciò non c’è solo bontà o positività, c’è il sentore vizioso di un compiacimento troppo fine a se stesso, ma il film di Manuli è una di quelle schegge inclassificabili cui non puoi non voler bene. Per il coraggio ostentato, la sfrontatezza fuori dai canoni, l’irriducibilità a un canone. Anticonvenzionale e orgoglioso, estremo ma non pretestuoso. Un marasma sfilacciato di invenzioni bizzarre che in compenso, se si è disposti a concedergli la possibilità di arrivare fino in fondo, sa concedere suggestioni e simbolismi, intellettualistici ma decisamente interessanti.
In una Sardegna stralunata e appestata, una sorta di limbo atemporale, Jaja e Freak (Jerome Duranteau e Luciano Curreli), novelli Vladimir ed Estragon di una versione sui generis delle (non) vicende beckettiane, discorrono di due ladroni crocifissi insieme al Salvatore con alle spalle un cartello stradale violentato dai graffitari. Galleggiano dentro un tempo disarticolato e svuotato, aspettando qualcosa che non arriverà, anelando con inguaribile catatonia una salvezza che tanto mai e poi mai si materializzerà. Forse occorre fuggire (“Ma fuggire da cosa?”), forse restare. Poche certezze, tanti sgambetti, molti dei quali autoimposti con masochismo. Gli stratagemmi per passare il tempo non funzionano granché e molti di essi sono affogati nella loro sperduta nullità, in un’afasia da paesaggio western che non comunica, semmai occlude: prospettive, sogni, speranze, vie d’uscita, tutto. 
E allora ecco che il film, forzando al massimo il dramma di Beckett, assolutamente quintessenziale rispetto alle aporie novecentesche, esaspera la dimensione fisica della vicenda e si fa fin da subito surreale catalogo di decostruzioni surrealiste, tra split screen e pura ebbrezza della visione, tra citazionismo della cultura alternativa italiana degli anni ’70 e ’80 (Paolo Rossi e dintorni) e lacerti stranianti (l’accennato balletto finale). La cacciata dal Paradiso coincide col silenzio di un Dio la cui assenza è tratteggiata da Manuli con estrema e spiazzante efficacia, quasi come se fosse proprio questo l’aspetto del suo adattamento sul quale egli puntasse di più, mosso dalla fervida presunzione di rivaleggiare con l’alta ispirazione dell’opera di partenza, presa a modello come totem da dissacrare ma non per questo da tradire nello spirito più intimo. 
Beket sembra un buddy movie incentrato su due cowboy come non se ne sono mai visti prima, epurato dalla comicità e pullulante di stranezze che sfidano lo spettatore prostrandolo, ripetendo all’infinito brandelli di dialoghi sempre uguali: un’estenuazione e una reiterazione che ricordano il perverso accanimento dello sperimentale Promises written in water di Vincent Gallo o il bellissimo Eterno ritorno: provini di Kira Muratova, ben più strutturale però nelle sue allitterazioni. Un voyeurismo annodato cui lo spettatore viene quasi costretto dalla medesima volontà dei personaggi (“Non ce la faccio a leggere, preferisco guardare le storie degli altri”), sostituendosi quasi all’occhio non solo cinematografico di quel Dio in permesso libero.
Si è parlato, un po’ impropriamente, di Ciprì e Maresco. Dei film del glorioso duo di registi siciliani in Manuli, al di là del rigor mortis dell’estetica livida, manca l’affezione per lo squallore putrescente, la disponibilità a sobbarcarsi un nugolo non quantificabile di deliberate immersioni nel fango. Manuli allegorizza, distorce attraverso il suo specchio deformante. Non che gli autori di Totò che visse due volte non lo facciano, ma la chiave di volta è in quel caso da porre sicuramente più nella melma degradata e iperrealista. Il film di Manuli, invece, esula da ogni forma di realismo tradizionale dal quale non fa altro che deviare, tra un Gifuni gigione nei panni di un personaggio dall’eloquente denominazione (agente 06, ossia sei una nullità) e il Freak Anthony degli Skiantos che intona la sua “Suono buono” per colmo d’autoironia fulmicotonica. 
La sarabanda straniata di Manuli non si riduce però all’inventiva a tutto campo e out of mind, con virate pesanti sul radical trash. L’incomunicabilità beckettiana e quel senso di fastidio ad essa interno - forse quel che più conta e interessa al regista stesso del testo di partenza - in definitiva è ben resa oltre che rivisitata. E di Beket rimane impresso nella memoria il gesto privato del suo senso, rispondenza diretta di quel paradosso dell’originale per cui la mano va nella direzione opposta rispetto al senso corretto, la fotografia eccelsa di Tarek Ben Abdallah, unico taglio di luce possibile per quest’inferno grigio e incenerito, l’impossibilità di essere salvati (“Salvati? Ma salvati da chi???!!!”) nell’inferno in terra di questo girotondo che non gira (più) intorno al mondo.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Davide Manuli
Sceneggiatura: Davide Manuli
Fotografia: Tarek Ben Abdallah
Musiche: Rosella Mocci
Attori principali: Luciano Curreli, Jerome Duranteau, Paolo Rossi, Roberto Antoni, Fabrizio Gifuni 
Anno: 2008
Durata: 80 min
Data uscita in Italia: 17 maggio 2013

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IL GRANDE GATSBY – Il romanticismo tonante

18/5/2013

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Baz Luhrmann è senza dubbio il regista contemporaneo che più di ogni altro ha legato al suo nome la fama sfavillante di esteta, di perseguitore accanito del kitsch tonante e dell’immagine barocca e iper-rifinita. La scelta di adattare una delle pietre angolari della letteratura americana e mondiale, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, ha dunque fatto prevedibilmente storcere il naso a molti, scettici su quali potessero essere gli effettivi punti di contatto tra la secchezza perlacea della prosa dell’autore di Tenera è la notte e l’immaginario filmico ormai proverbiale del regista australiano. 
Dubbi e perplessità a dire il vero legittimi ma a sorpresa scongiurati da un film che è molto di più di ciò che le premesse non proprio rosee potessero far presagire. Una versione ben più apprezzabile di quella polverosa e datata sceneggiata da Francis Ford Coppola e interpretata da Robert Redford nel 1974, sulla quale pesava un immobilismo asettico che ne ha accelerato di gran lunga la tempestiva rimozione dall’immaginario collettivo. 
A quell’imbalsamazione stilistica Luhrmann contrappone un’ipertrofia boccheggiante che non va per il sottile e a cui non interessano né il fine psicologismo delle pagine di Fitzgerald né tantomeno le implicazioni sociali che il romanzo recava al suo interno. I focus sui nuovi ricchi e su un retrogrado, conservatorista blaterare di differenze di classe e di sangue, che nel film sono solo accennati, rientrano non a caso più in una sostanziale fedeltà a certi dialoghi del romanzo che in una profonda adesione tematica. Il film di Luhrmann con Leonardo Di Caprio mira piuttosto a riempire gli occhi con un disarmonico caos di forme belle, specialmente nella prima parte, la più vicina a Moulin Rouge! nella dimensione sontuosa e travolgente. Un tripudio di silhouette da Belle Époque in cui però il cinema stesso potrebbe paradossalmente passare per il grande assente, dimenticato e sacrificato sull’altare dei vezzi narcisistici del regista (che sia proprio Luhrmann Gatsby, in fondo?). 
La grossolanità delle forme si fa infatti bombardamento accecante e massacrante, tacciabile di esile e vano compiacimento nel dispiegamento delle visibilissime disponibilità produttive. Un’orgiastica ed estatica accozzaglia, tale (sulla carta) da fare a pezzi la pregna nebulosità del capolavoro letterario di partenza, massacrandone il senso e lo spirito. 
Da un punto di vista denotativo, le considerazioni sopra elencate potrebbero anche essere vere, ma discutibile è la conseguenza che il taglio magniloquente di Luhrmann genererebbe. Il cuore intimo della storia originale è infatti assolutamente rispettato se non esaltato dal rigore sinestetico del regista di Romeo + Giulietta, nel cui film emerge tutta la potenza distruttiva e mortifera nonché il disfacimento fisico e morale di un sogno americano che si è schiantato contro la morte, conscio ormai della sua fine ineluttabile, della propria condizione ansimante di esule rinnegato da ogni possibile Eden, da qualsivoglia festa grandguignolesca e in pompa magna. Un’essenza livida che  in questa nuova, (naturalmente) post-moderna versione de Il Grande Gatsby è finalmente estremizzata anche da una prospettiva teorica: non è dunque il film di Luhrmann a essere vuoto, ma è esso stesso a farsi piuttosto consapevole specchio riflettente della vuotezza dell’american dream (“Ma se Gatsby non esiste, tutto questo a che serve?”). 
È proprio questo lo scarto e il cortocircuito fondamentale da cogliere per apprezzare il lavoro di ri-codificazione formale e semantica di Luhrmann, tutt’altro che manierista nella misura in cui il suo calligrafismo e la sua filologia rovesciata si configurano con una precisa finalità comunicativa e significante. 
Ne è conferma assoluta la seconda parte, che preme il piede sull’acceleratore del romanticismo e del sentimento, privilegiando la costola romantica del romanzo che è ciò che interessa Luhrmann più da vicino e che più di ogni altra cosa è in linea con la sua poetica. Come affine alle sue corde è per altro la riproposizione modernizzata delle atmosfere del romanzo, con l’hip hop al posto del jazz, generi musicali massificati al sommo grado ora come allora. Una traslitterazione pop che se si va al di là dell’irritazione momentanea e del purismo può essere apprezzata quale opportuna e non offensiva cornice cinematografica di un’opera ancora stupenda e attuale, con dei vincoli molto forti col nostro tempo che sono perfettamente visibili con po’ di sforzo e che la modernizzazione grafica contribuisce a evidenziare.
È un film facile da far morire dentro etichette stantie già incollate con la saliva sul precedente cinema di Luhrmann, Il Grande Gatsby. Più difficile scorgerne i meriti, con lo stesso Luhrmann che - va detto - si mette d’impegno per distrarre e stornare dai veri obiettivi com’è sua consuetudine, con qualche sarabanda di troppo che rischia quasi di distogliere dal nocciolo della questione. Una sostanza che è comunque prepotentemente centrata grazie a una forza emotiva e romantica senza pari che il film dispiega in tutta la sua potenza distruttiva. Una carica talmente roboante da estinguersi e ridursi progressivamente, da essere divorata dalla propria brama di rapacità e concupiscenza, proprio come nel romanzo. Il sogno non può dunque che agonizzare, riducendosi flebile e morente come una luce verde e opalescente che va spegnendosi pian piano.  

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Great Gatsby
Anno: 2013 
Uscita in Italia: 16 Maggio 2013 
Regia: Baz Luhrmann
Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Craig Pearce
Fotografia: Simon Duggan
Musiche: Craig Armstrong
Durata: 143 min.
Attori principali: Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire, Isla Fisher

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VIAGGIO SOLA - La solitudine della libertà

15/5/2013

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Irene ha superato i quarant'anni. Non è sposata, e non ha figli. Mantiene un rapporto di affettuosa amicizia con l'ex compagno Andrea, ha una sorella e due nipotine. Tutto qui. È una donna sola, e fa un lavoro assai particolare: viaggia spesata negli hotel a cinque stelle di tutto il mondo, in incognito, per valutare nei minimi dettagli gli standard di qualità delle strutture in cui alloggia, e compilare poi resoconti da inviare alla società per cui è impiegata. Tra un hotel e l'altro torna ogni tanto a casa, alla sua vita non vita: litiga con la sorella, si concede una fugace notte d'amore, resta addolorata quando scopre che l'ex fidanzato ha messo incinta la sua nuova fiamma. Irene si sente libera, forse lo è davvero: ma in lei c'è un velo di profonda nostalgia, che la porterà a scavare nel profondo della propria anima, alla ricerca del reale senso di un'esistenza incompiuta.
Il cinema italiano non è morto. Anche se ogni tanto dà questa triste sensazione. Eppure, alle volte, quando ci si distacca dalle consuete, volgarissime e avvilenti porcherie adolescenziali para-televisive, capita che gli autori nostrani sappiano tirare fuori qualche idea vincente, traducendola sul grande schermo con tonalità fresche e intriganti. È il caso di Viaggio Sola, terza regia della figlia d'arte Maria Sole Tognazzi, piccolo caso della stagione: girato con budget limitato, uscito in sordina accompagnato dallo scetticismo generale (va detto, anche il nostro), sta invece riscuotendo un notevole successo, tanto che le sale in cui il film è in programmazione sono aumentate. Il pubblico apprezza, per fortuna, un'opera senza dubbio imperfetta, ma capace di sprazzi di lucidità e intelligenza, accompagnati da una buona commistione di ironia e malinconia.
Irene, mistery guest di se stessa, passeggia in perenne equilibrio up in the air, come George Clooney nel film di Reitman. Il suo mestiere è però meno crudele: hotel extralusso, massaggi e centri benessere, camerieri sempre a propria disposizione, valigie fatte e disfatte senza muovere un dito, ossequi e salamelecchi. Tutto pagato, con tanto di stipendio suppletivo. Una meraviglia, insomma. O forse no. Dietro alla bambagia, c'è infatti una vita spenta, annacquata, scivolata via nella corrosione degli anni. Ci sono pranzi e cene da consumare senza commensali, tovaglioli e piatti tolti dai tavoli, letti per metà sempre vuoti, case fredde in cui nessuno aspetta il tuo ritorno. C'è un presente ammantato da una luce dietro alla quale tossisce frenetica una beffarda nube grigia. Ci sono parole non dette, conversazioni a distanza concluse senza potersi guardare negli occhi, perdite che fanno male anche se così non dovrebbe essere. La quotidianità si tramuta in un luccicante gioiello incastonato nella pietra del nulla. E allora, dopo tante miglia e tante stanze, bottiglie di champagne e bagni turchi, termometri nelle zuppe e cronometri alle reception, rose rosse di benvenuto e damerini inappuntabili, è ora di fermarsi un attimo, per capire cosa fare e dove andare. Schiarire le incertezze ed esprimere verità per troppo tempo taciute. Guardarsi dentro, prima che sia troppo tardi.
Scritta dalla regista con Francesca Marciano e Ivan Cotroneo, la sceneggiatura di Viaggio Sola si espande senza eccessivi intoppi, pur con qualche fatica nella seconda parte, un paio di cadute di tono (la disquisizione su The Farm), e alcuni personaggi di contorno soltanto abbozzati (l'antropologa). Le locations, reali, situate in hotel cinque stelle di Parigi, Berlino, Shangai, Gstaad, Marrakech, in Puglia e Toscana danno un ovvio tocco di eleganza fotografica alla vicenda, ma si va ben oltre i paesaggi da cartolina. Inoltre, a dare un tocco di forza all'intera pellicola, c'è un elemento in più, fondamentale e inatteso: Margherita Buy. Finalmente, dopo mille ruoli nevrotici sempre uguali e sempre più banali, l'attrice esce dalla gabbia, si libera dalle solite catene, e accompagnata da un puntuale Stefano Accorsi e da una nevrotica Fabrizia Sacchi offre una delle migliori interpretazioni della sua carriera: una Buy intensa, vivace, sincera, appassionata e convincente, con la testa e il corpo in felice armonia tra le nuvole.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema



Scheda tecnica

Regia: Maria Sole Tognazzi
Sceneggiatura: Francesca Marciano, Ivan Cotroneo, Maria Sole Tognazzi
Fotografia: Arnaldo Catinari
Musiche:Gabriele Roberto
Attori principali: Margherita Buy, Stefano Accorsi, Fabrizia Sacchi, Gian Marco Tognazzi, Alessia Barela
Anno: 2013
Durata: 85 min
Data uscita in Italia: 24 aprile 2013

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STOKER - Hollywood tra le ombre della follia

15/5/2013

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Dopo essere stato presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival Stoker, il primo film di Park Chan-wook girato e prodotto negli Stati Uniti, si appresta a uscire nelle sale italiane dal prossimo 20 giugno. Alcuni estimatori del regista coreano, noto in Occidente soprattutto per la cosiddetta trilogia della vendetta composta da Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta, e gli addetti ai lavori hanno però già avuto l’occasione di assistere alle anteprime organizzate a fine marzo all’interno del Bari International Film Festival e a metà maggio in occasione della prima edizione del Florence Fantastic Festival. Diciamo subito che la nuova creatura di Park è destinata a spaccare in due la critica così come i seguaci di vecchia data del regista.
La giovane India Stoker nel giorno del suo diciottesimo compleanno viene colpita dalla grave perdita del padre, Richard, rimasto ucciso in seguito a un tragico e misterioso incidente alla guida della sua auto. Si ritrova così a vivere il lutto accanto alla madre, emotivamente fragile e instabile, con cui non ha mai avuto un profondo legame. A complicare ulteriormente la situazione giunge l’improvvisa comparsa dell’enigmatico zio Charlie, fratello minore di Richard, di cui India ignorava perfino l’esistenza. L’arrivo dell’uomo, stabilitosi nella tenuta della famiglia Stoker dopo un lungo girovagare in Europa, causerà non pochi turbamenti a madre e figlia – entrambe attratte dal fascino inquietante e ambiguo di Charlie - accentuando ancor di più i loro contrasti fino a un’inevitabile e folle discesa verso l’abisso più profondo.
Era enorme l’attesa nei confronti del primo film americano di un cineasta divenuto da tempo di culto, talmente alta da generare sul web rumors incontrollati e infondati che volevano Park nuovamente alle prese con una storia di vampiri dopo Thirst, il suo penultimo lungometraggio. È bastato il titolo, Stoker, per far scattare un ipotetico collegamento con Dracula, il celebre romanzo scritto da Bram Stoker. Park, più che guardare ai film sui vampiri, omaggia invece il cinema di Alfred Hitchcock con espliciti riferimenti a L'ombra del dubbio, realizzato dal maestro del brivido nel 1943, per poi prendere strade diverse, più tortuose e inerpicate.
Come ben sappiamo non è affatto facile girare a Hollywood per i registi stranieri, specie per quelli orientali che spesso e volentieri non hanno grande dimestichezza con la lingua inglese e finiscono per essere stritolati dagli studios, realizzando prodotti privi di personalità che poco o nulla hanno a che vedere con il loro stile e la loro poetica. Che piaccia o meno, dopo aver visto Stoker non si potrà dire che al cineasta sudcoreano sia invece mancata la personalità nel suo debutto americano. Park Chan-wook filma sequenze di grande virtuosismo e perizia tecnica, dimostrando per l’ennesima volta una padronanza assoluta e una profonda conoscenza del mezzo cinematografico. In più di un’occasione si prende i suoi rischi, riuscendo a spiazzare e a stupire lo spettatore con almeno un paio di scene non prive di coraggio, in precario equilibrio tra il sublime e il ridicolo (una su tutte quella con la protagonista nella doccia). Un film dalla grande accuratezza formale ed estetica, con una minuziosa e maniacale composizione dell’inquadratura, talmente raffinata da risultare a tratti quasi fastidiosa nel suo ostentato intento di voler sbalordire il pubblico a tutti i costi. 
Nel mettere in scena lo script firmato nel 2010 da Wentworth Miller, noto soprattutto come interprete della serie Prison Break, Park si affida a Chung Chung-hoon, fidato e sodale direttore della fotografia fin dai tempi di Old Boy e di tutti i suoi lavori successivi e a Clint Mansell, autore della suggestiva e ricercata colonna sonora insieme a Philip Glass, che invece ha curato le musiche per pianoforte suonate dalla protagonista, contribuendo in maniera fondamentale a rendere tesa, memorabile e sensuale la sequenza del duetto al piano che vede coinvolti India, interpretata da un’eccezionale Mia Wasikowska, e suo zio Charlie, impersonato da un efficace e minaccioso Matthew Goode. Nicole Kidman, nel ruolo della madre , svolge il compito senza sbavature ma risulta un po’ in ombra, relegata sullo sfondo dalla performance magnetica e ipnotica della Wasikowska, attrice contesa negli ultimi anni da autori di primo piano come Jarmusch, Van Sant e Cronenberg, con cui si appresta a girare Maps to the Stars. 
Dopo la trilogia della vendetta e titoli estremi e spiazzanti come Thirst e I'm a Cyborg, But That's OK Park firma un’opera disturbante, malsana, sensuale e morbosa, incentrata sul male e sulla follia, prendendo a picconate la famiglia borghese a stelle e strisce, anche grazie alla notevole capacità di creare suspense e aumentare la tensione attraverso il ricorso al montaggio alternato in alcune sequenze chiave del film. Lontano dagli eccessi che hanno contraddistinto la sua filmografia, difficili da riprodurre all’interno del sistema hollywoodiano, Park Chan-wook confeziona una pellicola non priva di difetti ma lontana anni luce dall’anonimato e dalla piattezza di tanti titoli di genere sfornati in questi anni dall’industria americana. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Stoker
Anno: 2013 
Uscita in Italia: 20 giugno 2013 
Regia: Park Chan-wook
Sceneggiatura: Wentworth Miller, Erin Cressida Wilson (contributing writer)
Fotografia: Chung Chung-hoon
Musiche: Clint Mansell, Philip Glass
Durata: 99 min.
Attori principali: Mia Wasikowska, Matthew Goode, Nicole Kidman

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CONFESSIONS - Il sepolcro di una generazione

11/5/2013

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Arriva nelle sale italiane con tre anni di ritardo, ma Confessions di Tetsuya Nakashima è uno di quei titoli per i quali l’attesa è stata ben ripagata. Sia fatta lode alla Tucker Film, quindi, che negli ultimi tempi ha portato nei nostri cinema titoli di indubbio spessore quali Poetry di Lee Chang-dong e A Simple Life di Ann Hui. Confessions è la storia di Moriguchi, maestra di scuola in lutto per la morte della propria figlioletta; davanti ai suoi alunni decide di rivelare l’identità dei due assassini della piccola, due suoi studenti, e confessa di aver elaborato una personale vendetta nei loro confronti (visto che il sistema giudiziario giapponese è impossibilitato a colpire i minorenni). Da questo momento in poi, il film cambia registro narrativo e segue il punto di vista di altri personaggi: i due colpevoli, la madre di uno di loro e una compagna di classe.
Date queste premesse, sarebbe facile etichettare Confessions come il classico film di vendetta che tanto è andato di moda negli ultimi anni, da Park Chan-wook in poi; in realtà, con titoli come Sympathy for Mr. Vengeance o Old Boy, il film di Nakashima non ha proprio nulla da spartire. Ha poco, pochissimo in comune anche con il classico Rashomon, dal momento che la frammentazione dei punti di vista può a tratti richiamare il capolavoro di Kurosawa. Ma se c’è un termine di paragone che sembra interessare maggiormente al regista giapponese, questo ci sembra soprattutto Le regole dell’attrazione di Roger Avary. Ricordate? Uno dei titoli più belli (e meno considerati) degli anni Zero del Duemila, uno sguardo ferocissimo e lapidario – nel senso di definitivo, tombale – su una generazione e un mondo, quello degli anni Ottanta, che ha gettato le basi per le ceneri del presente. Ecco, Confessions è proprio questo: la lapide posta sul sepolcro di una generazione, vissuta troppo in fretta e scomparsa prima che ce se ne potesse rendere conto.
La critica più frequente, tra quelle mosse a Nakashima, riguarda la messa in scena: il regista giapponese è indubbiamente un esteta, innamorato dei ralenti e della fotografia monocromatica (in questo caso, i toni dominanti sono quelli del blu – ti ho mai detto che il mio colore preferito è il blu?), che in questo modo sembrerebbe lasciare carta bianca a tutti quei detrattori che lo accusano di anteporre lo stile ai contenuti. 
Ma se abbiamo citato il film di Avary non è un caso, perché – paradossalmente – il maggior punto di forza di Confessions ci sembra risiedere proprio in quelle scelte che ad alcuni sembrano invece racchiuderlo in una teca di cristallo, quelle stesse che sembrano proiettare i suoi personaggi e i propri tormenti in un altrove lontano e nascosto da uno spettatore inerme dinanzi a ciò che viene raccontato. Confessions è davvero un incubo dai toni dichiaratamente pop (anzi, POP, come “il suono di qualcosa di importante che scompare”), che racconta un universo di solitudine e mancanza di amore con quello stesso linguaggio attraverso il quale i suoi protagonisti cercano di comunicare tra di loro; è il film giovanilistico nel senso più puro del termine, quello definitivo, perché mostra la gioventù attraverso le sue canzoni, i suoi umori, i suoi linguaggi (i ripetuti dettagli sugli sms), e alla fine distrugge ogni cosa. 
Confessions è il college movie catastrofico per eccellenza, che punta sì il dito contro un’istituzione e una specificità geografica (il sistema scolastico giapponese), ma che allo stesso tempo si fa universale e immediatamente riconoscibile da tutti. Il mondo degli adulti e quello dei loro figli, le mancanze dei primi e le conseguenze (bestiali, drammatiche, quasi orrorifiche) sui secondi. È eccessivo, certo: è ridondante, caotico e slabbrato. Forse è anche autocompiaciuto, nel suo progetto deflagrante ed esplosivo – in tutti i sensi. Ma è così che deve essere, perché è cinema vivo, che gioca con la struttura narrativa in maniera sorprendente e mai fine a se stessa (nonostante ad alcuni possa sembrare il contrario); che costruisce immagini e inquadrature talmente rigorose da sembrare finte: ma se lo fa, è solamente per poterle distruggere. Che il mondo finisca con un sospiro o con un boato, a questo punto, non fa più alcuna differenza. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica  

Titolo originale: Kokuhaku
Regia: Tetsuya Nakashima
Sceneggiatura: Tetsuya Nakashima
Musiche: Toyohiko Kanahashi
Fotografia: Masakazu Ato e Atsushi Ozawa
Durata: 106’
Anno: 2010
Uscita in Italia: 9 maggio 2013
Attori principali: Takako Matsu, Yukito Nishii, Ai Hashimoto, Kaoro Fujiwara, Yoshino Kimura 

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NO - I GIORNI DELL'ARCOBALENO - Il futuro a colori

8/5/2013

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No. Un no carico di potenza, coraggio, speranza. Un no che significa libertà. È con questo messaggio che il promettente regista cileno Pablo Larrain chiude la sua trilogia sulla dittatura di Pinochet dopo i precedenti Tony Manero (2008) e Post Mortem (2010). Questa è una storia epica, la storia di un trionfo. Il mio film racconta come i cileni abbiano sconfitto un dittatore, probabilmente uno dei più grandi bastardi che la storia dell’umanità possa annoverare. Il regista presenta con queste parole il suo lavoro, vincitore della Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2012 e presente nella cinquina finale dei migliori film stranieri agli Oscar 2013.
Se con Tony Manero Larrain portò sullo schermo lo svuotamento morale della popolazione cilena causato dagli orrori della dittatura di Pinochet, e con Post Mortem, ambientato durante il colpo di stato, firmò forse il film più duro della trilogia, con No ne racconta la conclusione: una fine carica di speranza, e al tempo stesso un nuovo inizio.
Siamo nel 1988 e il Cile, grazie soprattutto alle pressioni internazionali sempre più insistenti, ha la possibilità di decidere con un Referendum se far proseguire o meno la dittatura del generale Pinochet. Il partito di opposizione, il partito del NO, ha per la prima volta a disposizione uno spazio pubblicitario di 15 minuti, per 27 giorni, per poter mostrare in televisione la propria campagna e convincere un’intera popolazione di come la vita possa essere migliore. La campagna viene affidata al giovane e innovativo pubblicitario René Saavedra, interpretato da un magnifico e intenso Gael Garcia Bernal. René ha l’intelligenza di comprendere che mostrare l’orrore della dittatura non è la chiave del successo. I continui riferimenti alla dittatura, con i suoi desaparecidos, le terribili torture e i violenti scontri, non possono bastare per convincere il popolo a votare NO. Il suo obiettivo è quello di proporre ai cileni un futuro diverso, e far loro toccare con lo sguardo un’esistenza ricca di speranza e felicità. Lo scopo è raggiungibile grazie al nuovo linguaggio pubblicitario che il giovane creativo ha imparato a conoscere e a valorizzare, un linguaggio tipico degli spot nord americani, nei quali le persone non hanno preoccupazioni e si divertono bevendo la bibita più cool del momento. Renè e il suo team, in attesa di un “aiuto divino”, riusciranno a creare una campagna così originale e rivoluzionaria da far cadere il generale Pinochet, e offriranno a un paese allo stremo e svuotato di qualsiasi emozione un nuovo avvenire.
Una delle numerose qualità del regista cileno, oltre alla grande capacità di racconto, è sicuramente l'intelligenza nel costruire i personaggi. La scelta di Gael Garcia Bernal è semplicemente perfetta: l’attore messicano regala infatti, come il resto del cast, un’interpretazione sublime, bucando lo schermo senza mai essere prima donna. Grazie all’ottima sceneggiatura non solo il personaggio di René offre linfa vitale alla campagna pubblicitaria permettendoci di viverla dall’interno, ma il racconto consente anche di entrare in contatto con un uomo a cui ci possiamo realmente sentire vicini. La sua vita privata è presentata quasi in punta di piedi, con delicatezza: il figlio con cui condivide l’eccitazione per invenzioni moderne come il microonde, una ex-moglie che lo accusa di supportare il regime prendendo parte alla farsa del referendum, i momenti solitari che trascorre con il suo skateboard e con le sue idee così moderne e intelligenti. Con questi piccoli ma singificativi elementi Larrain regala allo spettatore la possibilità di sentire il personaggio in maniera molto intima.
Il giovane autore ha anche il merito di essere riuscito in qualcosa in cui la gran parte dei suoi colleghi più esperti fallisce: unire con efficacia le immagini di fiction a quelle di repertorio. Il passaggio è quasi del tutto impercettibile grazie all’utilizzo di una telecamera dell’epoca, l’U-matic, che ci consente di vivere e respirare gli anni Ottanta appieno, senza filtri, toccandone i colori. Lo studio dell’immagine arricchisce di ulteriore valore un film che non solo racconta la tragica storia di un paese in chiave assolutamente rivoluzionaria, ma si dimostra anche un alto esperimento tecnico e stilistico. 
Con la conclusione della sua trilogia Pablo Larrain riesce quindi a confezionare un’opera in cui politica, storia, nuovi linguaggi e personaggi che entrano sotto la pelle si fondono fino a creare un gioiello da vedere e rivedere. Perché ogni  volta è una nuova scoperta. 

Eva Sampietro

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: No
Anno: 2012
Regia: Pablo Larrain
Sceneggiatura: Pedro Peirano (Basato sul libro di Antonio Skarmeta El plebiscito)
Fotografia: Sergio Armstrong
Musiche:Carlos Cabezas
Durata: 118’
Interpreti principali:Gael Garcia Bernal, Aldrefo Castro, Luis Gnecco, Néstor Cantillana, Antonia Zegers
Uscita italiana: 9 maggio 2013

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MIELE - La morte dolce

4/5/2013

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Miele (Jasmine Trinca) è il “nome di servizio” di Irene, somministratrice di eutanasia. Riceve i contatti da un ragazzo che lavora in ospedale (Libero de Rienzo), si reca in Messico ad acquistare un farmaco veterinario e, premurosamente, va nelle case di chi ha deciso di porre fine alle sue sofferenze per presiedere all'operazione ultima. “Certo che fai proprio un lavoro di merda”, le dice la moglie (Iaia Forte, in un piccolissimo ruolo) di un “cliente”. Quando a chiederle il suo farmaco (ma non la sua presenza al momento fatidico) è l'attempato ingegner Grimaldi (Carlo Cecchi), Irene dà per scontato che sia malato; invece l'uomo ha “una salute di ferro”, ma soffre di depressione. Lei non ci sta e si impone nella sua vita, nella speranza che Grimaldi ritorni sulla sua decisione.
La vita di Irene è caratterizzata da una sostanziale solitudine e da una vita nomade. Gli affetti sono vissuti a spizzichi: il ragazzo (Vinicio Marchioni) con cui fa sesso, che la divide con un'altra e a cui racconta una vita falsa, il “datore di lavoro” che ha anch'esso un'altra partner (ma saprà capire una sua decisione cruciale). C'è qualche momento di felicità (lo stacco tra una bevuta “fatale” e dei bicchieri da cocktail suggerisce una doppia vita), ma generalmente l'espressione di Irene è seria e preoccupata, anche per via delle palpitazioni cardiache. Quasi che, nonostante la professionalità, tutto il dolore di cui è testimone premesse e si manifestasse così. Insomma, Irene a modo suo è vitale, ma non serena. Al termine della seconda delle dolorose e ben condotte sequenze in cui la vediamo all'opera con dei clienti, inaspettatamente guarda in macchina. “Avete visto? Capite e mi capite?”, sembra chiederci. Segue uno sfogo-confessione a Grimaldi, in cui Irene esterna il senso di inadeguatezza di fronte all'ennesima indigestione di sofferenza. E afferma esplicitamente: “Nessuno di loro vuole morire... ma quella non è più vita”.
L'insistenza che esercita con Grimaldi non è una forma di samaritanesimo, come lui sospetta, ma nasce inizialmente dalla percezione di un bruciante inganno, una macchia troppo grossa nel suo “mestiere”, qualcosa di non giusto. Diventa una forma di affetto e l'ingegnere una persona a cui Irene tiene, con cui si scontra e si apre, nonostante il colto Grimaldi sia molto diverso da lei: cinico, sarcastico, scostante, con i suoi sguardi e le sue parole sembra volerla mettere alla prova. Si rivelerà lucido ma rispettoso.
Il primo lungometraggio di Valeria Golino, selezionato a Cannes nella sezione Un certain regard, è un film di tutto rispetto, che ha il coraggio di affrontare in modo diretto la questione del suicidio assistito, contrapponendovi un discorso sotterraneo e non banale sulla vita, attraverso una protagonista sui generis. Uno degli aspetti più notevoli è l'impalcatura sonora (il navigato Lilio Rosato è responsabile del montaggio del suono), che pone il film nel solco di un cinema contemporaneo di qualità: canzoni che iniziano e si alzano di volume al cambio di scena, parole dette dietro vetri, sussurri, silenzi, aerei che passano, Irene isolata con le sue cuffie ma in grado come noi di sentire chiacchiere su un mezzo pubblico. È ancora il suono ad essere parte integrante della dimensione sensoriale entro cui la protagonista si muove (talora a piedi nudi), spesso legata agli elementi naturali: la neve dei ricordi d'infanzia e della madre, l'acqua del mare in cui usa immergersi, il campo di grano in cui si ritaglia un po' di relax. 
Si capisce presto come la Golino abbia inteso fare un film che guardasse oltre gli steccati del cinema medio italiano anche dal punto di vista stilistico, senza per questo peccare d'intellettualismo: prosaicamente, è anche l'accento romano della Trinca a riportare concretezza. Qua e là sembra avvertirsi l'intenzione di firmare inquadrature significative (Miele in camera con la coppia, all'inizio), ma non è un male, mentre altre volte la cinepresa sta vicino e accarezza il volto di una Jasmine Trinca naturale, praticamente sempre in scena e più volte nuda. Miele (scritto con Valia Santella e Francesca Marciano, coprodotto dal compagno Riccardo Scamarcio) è un esordio dalle idee chiare, all'altezza di speranze e ambizioni, con il coraggio di affrontare un tema per cui ci si poteva aspettare un divieto ai minori vendicativo e per cui difficilmente si avrà riscontro al botteghino, scontando il peccato di essere un film tricolore (coprodotto con la Francia) ma non una commedia, nonostante l'apertura finale al sorriso.
Uno pseudo-mistero sta dietro la fonte letteraria del film. Annunciato col titolo del romanzo da cui è tratto, Vi perdono di Angela Del Fabbro, è da più parti (compresi titoli di testa e pressbook) fatto invece risalire al libro A nome tuo di Mauro Covacich. Angela Del Fabbro si è rivelato essere proprio lo pseudonimo di Covacich, che nel romanzo firmato col suo nome torna sulle ragioni dell'appropriarsi di un'altra identità.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Valeria Golino
Sceneggiatura: Valeria Golino, Valia Santella, Francesca Marciano
Durata: 96'
Fotografia: Gergely Poharnok
Interpreti principali: Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero de Rienzo, Vinicio Marchioni
Uscita italiana: 1/5/2013

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