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BLACK SEA - Mare buio, anime nere

20/4/2015

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Kevin Macdonald, regista poliedrico capace di confrontarsi con diversi stili, passando dai lungometraggi (L'ultimo re di Scozia, State of Play) ai documentari (Marley, Life in a Day), è l'autore di Black Sea, distribuito ora nelle sale dopo aver vinto il Leone d'Oro lo scorso dicembre al Noir Fest di Courmayeur. Una pellicola dall’impronta classica, che ammiccando al passato si inserisce in un contesto moderno fondendo elementi appartenenti a diversi generi. 
Dopo una vita passata a recuperare relitti, dedicando tutto se stesso a un lavoro che gradualmente e inevitabilmente lo allontana dalla famiglia e dagli affetti, il capitano Robinson, alias Jude Law, viene bruscamente licenziato dalla compagnia per cui lavora. Il sentimento di rivalsa cresce, si radica in lui e trova sfogo nella possibilità di recuperare dai fondali marini un sommergibile nazista carico di lingotti d’oro. Una discesa nelle oscure profondità del mare, una discesa nel “cuore di tenebra” dell’uomo. Il sommergibile, fantasma di un oscuro e violento passato che appare cosi immobile e lontano nel tempo, diviene nuovamente teatro delle stesse pulsioni, degli stessi desideri di quel mostro silenzioso che si annida nell’animo umano.
L’ambientazione ricorda i classici film di guerra, ma il regista è abile nel fondere più generi: amplia il plot con diverse forme espressive, crea suspence e dà movimento all’azione. L'avventura sin dall’inizio sembra proiettata verso una lenta e inesorabile degenerazione, e la tensione narrativa si muove di pari passo con l’inabissamento del sottomarino. Più si scende e ci si avvicina all’obiettivo, più il buio invade lo schermo e avvelena la mente dei protagonisti, uomini semplici simbolo di una classe operaia prima sfruttata e poi abbandonata. Un microcosmo dove l’azione sostituisce le parole, fatto di scelte rapide in un'ambientazione claustrofobica che accelera e amplifica le risposte dei protagonisti.
Jude Law incarna perfettamente il ruolo del capitano navigato, un uomo solido capace di tenere a bada l’equipaggio, metronomo del ritmo dell’azione; un riferimento in principio positivo che nel corso della storia muta registro, vittima della bramosia e di un estremo bisogno di rivalsa. 
Macdonald costruisce un'atmosfera cupa e oppressiva che lavora di sottrazione, una storia che si nutre di contraddizioni unendo le convenzioni del cinema commerciale con il cinema da camera. Una pellicola il cui centro sta nell’equilibrio e nella capacità di tenere alta la tensione espressiva per tutta la sua durata.

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica

Titolo originale : Black Sea 
Anno : 2014
Regia : Kevin Macdonald
Soggetto : Dennis Kelly
Fotografia : Christopher Ross
Montaggio : Justine Wright
Durata : 115’
Interpreti principali : Jude Law, Ben Mendelshon, Scoot McNairy, Tobias Menzies, Grigoriy Dobrygin.

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MIA MADRE - Stare accanto

16/4/2015

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Alla conferenza stampa di presentazione de La stanza del figlio al Festival di Cannes, nel 2001, Nanni Moretti ammetteva candidamente che, dopo un’intera carriera in cui nei suoi film aveva sempre urlato e si era fatto sentire, adesso aveva voglia di ascoltare gli altri, di soffermarsi di più su chi gli stava intorno (in quel film, come nel penultimo Habemus Papam, non a caso era uno psicanalista). 
Da lì in poi nel suo cinema qualcosa pare essere mutato definitivamente; gli irresistibili tic del passato sembrano aver abbracciato un’idea del mondo, della vita e del dolore più ampia e sfaccettata, meno orientata verso l’intemperanza giovanile degli esordi e più proiettata verso le tante, tantissime contraddizioni del presente. Il Moretti regista dei suoi ultimi tre lavori è un Moretti attore che si defila, che lascia spazio ad altri davanti la macchina da presa, che letteralmente “sta accanto”, analogamente alla frase che egli stesso è solito ripetere ai suoi attori, forse senza capirla più nemmeno lui, e che in Mia madre mette in bocca alla regista Margherita, interpretata da Margherita Buy, suo alter-ego a tutto campo: “Voglio vedere anche l’attore, accanto al personaggio”. 

Così come Moretti consiglia ai suoi attori di non dimenticare il personaggio che devono portare sullo schermo ma di metterlo un attimo in disparte, allo stesso modo il suo farsi da parte è strumento per addentrarsi più docilmente nelle storie che decide di raccontare, per instaurare un clima di prossimità e di vicinanza in cui regni la colloquialità del sentimento, la familiarità di un sorriso che incontra una lacrima, il senso di inadeguatezza, lancinante, irrevocabile, dei suoi protagonisti, che poi è lo stesso che Moretti rivendica per se stesso. Quella porzione d’imperfezione tutta sua, sottratta a tutti gli altri pubblicamente e poi, paradossalmente, rovesciata sui suoi film con una letteralità autobiografica che in Mia madre è addirittura devastante, tanto è nuda e priva di difese (in questo caso, infatti, lo “stare accanto” è anche e soprattutto accudire la madre malata). 
La fragilità, la non appartenenza, l’essere qui ma anche (sempre) altrove: un leitmotiv del Moretti maturo, dal Silvio Orlando regista di b-movies chiamato a fare un film sul potere alla regista di Mia madre, che quando è con qualcuno pensa costantemente a qualcun altro (alla madre morente, alla figlia, al lavoro sul set) passando per il non essere all’altezza del Papa di Michel Piccoli, che viene eletto dal conclave ma preferirebbe essere da qualsiasi altra parte. A recitare Cechov, in quel teatro che ama così tanto, a passeggiare per strada. Ma non lì dov’è. 
Gli ultimi personaggi di Moretti, proprio come lui, paiono desiderare solo la fuga da loro stessi. Dagli obblighi, dalle liturgie pubbliche, dalle litanie preimpostate del quotidiano (“Ripeto le stesse cose da anni perché tutti pensano che io, in quanto regista, sappia interpretare la realtà, ma io non capisco più niente”, pensa Margherita dinanzi alle imbarazzanti domande standard di una conferenza stampa). Alla ricerca di una purezza originaria, di un’assenza di sovrastrutture che lo stesso Moretti in Mia madre ha fatto propria, raccontando un pezzo consistente del suo recente passato (la morte della madre avvenuta durante il montaggio di Habemus Papam) con una spudoratezza che non conosce eguali e che si scherma, parzialmente, soltanto dietro il gioco dell’identificazione, col personaggio della Buy a sintetizzare ossessioni e abitudini del regista e quest’ultimo a interpretarne il fratello premuroso, scrupoloso e buono, che di Moretti lascia intravedere solo la pignoleria e la passione per i dolci, agendo per il resto con un candore e una remissività che egli, sullo schermo, non aveva fino a questo punto mai incarnato direttamente. 

Si tratta di un segnale attoriale importante, perfino decisivo. Perché in Mia madre gli eccessi sono circoscritti e isolati, affidati quasi tutti all’istrionico e cialtrone John Turturro, il cui attore americano incapace e narciso però nasconde una sindrome, senza svelare quale (si può solo dire che non è la prima volta che Moretti la tira in ballo nella sua carriera). È un film controllato e limpido, Mia madre, commovente oltre ogni limite, misurato fino ad avvolgere chi guarda in un gelo leggero e impalpabile eppure pesante come il piombo, permeato di una tacita tristezza che pian piano invade lo spettatore e che altrettanto lentamente si scioglie. Senza offrire facili catarsi, costringendoci alla larga da ogni compiacimento a guardare in faccia il lutto e a confrontarci con i nostri fantasmi individuali. A pensare alle nostre, di stanze vuote, e a coloro che non le riempiono più; ai nostri, di scatoloni pieni di oggetti e abbandonati in attesa di miglior destinazione, quelli che sono sempre lì e non ci decidiamo a mettere via, reali o figurati che siano. Li abbiamo tutti, e lo sappiamo benissimo.
Moretti, come è già stato detto e scritto più o meno da tutti, ha girato il suo film più intimo e personale, quello in cui la trasfigurazione del vissuto è indubbiamente più spinta, dolorosa e sofferta; tuttavia la cosa stupefacente è che non lo si guarda mai come si guarderebbero la vita, i sogni, le paure e le sofferenze di qualcun altro ma lo si riconosce subito come proprio, sebbene il materiale che Moretti ha riversato nel film sia davvero intricato e meravigliosamente indistinguibile (la sequenza davanti al Capranichetta, ma anche le ultime scene di Margherita Buy con Turturro sul set, sono un tripudio di lirismo, emotività condensata e caricata a salve, reinvenzione onirica e poetica). 

Si guarda Mia madre rivolgendo la lente di ingrandimento dentro se stessi, ed è un miracolo che il regista romano sia riuscito a ottenere tale risultato col suo film più ego-riferito, il più in pericolo sul terreno dell’autocommiserazione narcisistica o della sessione psicanalitica privata, finalizzata a elaborare il proprio stesso lutto. Rischi puntualmente scongiurati da quello che sembra essere l’interesse primario del Moretti di Mia madre: sorvegliare e custodire le emozioni, accentarle anche musicalmente (da Arvo Pärt a Ólafur Arnalds passando per Philip Glass e Leonard Cohen), non lasciarle deflagrare, imbalsamarle in una “teca”, vale a dire in una scrivania o in un libro di latino in cui sono depositati studi, appunti e pezzi di vita di una madre insegnante di lettere classiche. Non per mortificarle ma per averle più vicine a sé e percepirle meglio, anche attraverso il linguaggio cifrato del sogno (l’incubo che vede il pavimento inzupparsi d’acqua, simbolo uterino, materno e primitivo per eccellenza). Tutto, nel suo film, si sovrappone e si interseca fino sfumare nella dimensione condivisa del ricordo e del dolore, due contingenze gemelle, inevitabilmente legate da uno strettissimo rapporto di parentela. 
Questo Moretti di oggi, così asciutto e confidenziale nel parlare e nel colpire al cuore, sorprende e spiazza più che mai, è toccante con fermezza non ricattatoria, invoca un ritorno a un principio di realtà (“Bring me back to reality!”, sbraita il Barry di Turturro dopo una furibonda litigata con Margherita) che lo porti via dal set di un brutto film con addosso l’etichetta dell’impegno sociale e lo traghetti da un’altra parte. Ovunque, perfino verso un domani cui pensare con rinnovata necessità e urgenza nonostante tutto, con le lacrime agli occhi e il batticuore per ciò che se ne sta andando per sempre e si vorrebbe tenere disperatamente aggrappato a sé. 
Mia madre, se lo si guarda con la stessa amara, dolcissima schiettezza con cui il film stesso ci guarda, è la palese dichiarazione di una resa, la messa a nudo di un’incolpevole impreparazione di fronte alle cose della vita che in fondo ci accomuna tutti. In ciò risiede, contemporaneamente, la sua umana debolezza e la sua straordinaria forza cinematografica. In una parola la sua bellezza, non urlata e indiretta, pudica e orgogliosamente antiretorica. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Nanni Moretti
Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella
Attori: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Clelio Benevento
Scenografia: Paola Bizzarri
Anno: 2015
Durata: 106'
Uscita italiana: 16 Aprile 2015

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WHITE GOD - Sinfonia per Hagen

11/4/2015

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Il sesto lungometraggio di Kornél Mundruczó ipotizza un mondo in cui, per la protezione della razza (i riferimenti all'avanzata elettorale del partito Jobbik – con le relative accuse di neonazismo, fascismo ed antisemitismo – non saranno casuali), il Governo impone una tassa sui cani bastardi, provocandone spesso l'abbandono: questa è la sorte che tocca ad Hagen, incrocio tra un Labrador e uno Shar Pei, quando il padre della tredicenne Lili lo abbandona per strada. 
Mentre la ragazza tenta di tutto per ritrovarlo, Hagen ci mostra tutte le realtà che affronta un animale abbandonato: una via crucis di sanguinari combattimenti tra simili, disagianti situazioni dei canili e altre persecuzioni cinofobe che sproneranno i cani alla violenza fino al punto in cui non saranno più animali, bensì ribelli che reagiscono e contrastano gli uomini. È la rivolta della massa guidata da Mundruczó.

«Questi sono i momenti in cui le masse si ribellano, l’attuale paura dell’Europa: la rivoluzione delle masse. Hanno ragione ad aver paura. Ho cercato delle immagini simboliche per rappresentare tutto questo – ha spiegato il regista – in modo che si veda la direzione che si prende quando ci si rifiuta di mettersi nei panni di un’altra specie, dell’avversario o delle minoranze. Ma sul set tutto è stato molto più pacifico, poiché i cani provenivano tutti da canili e alla fine della lavorazione sono stati adottati tutti, trovando finalmente una famiglia. Il film è più una critica dell’Ungheria di una volta e di quella del futuro, dove un’esigua minoranza domina su una massa più estesa. Questo sta diventando sempre più vero anche per l’Europa: un gruppo dell’élite si riserva il diritto al potere mentre, come in un Reality Show, i politici sono stelle che noi decidiamo di eleggere o meno.»

Con scene corali di cani che rendono Budapest una città fantasma, sulle note belliche della Rapsodia Ungherese n° 2, resa attuale da una tromba ipnotica, Mundruczó raggiunge alte vette di coerenza e perfezione audiovisiva. La macchina da presa, talvolta instabile quanto la situazione, avvolge i 200 cani scritturati per un film che riesce a fare di loro dei veri attori.
Accanto alla conflittualità generazionale, delineata dalla piccola Lili e dal mondo adulto che la sente ma non la ascolta, si affianca ora uno scontro tra specie (uomini e cani) corroborato da scelte registiche che immergono lo spettatore negli strati più profondi della coscienza individuale. L’uomo umilia l’animale, lo sfrutta con le sue tecniche. Al momento della rivolta dei cani, White God diventa quasi un horror che riecheggia il cinema post-impressionista russo, denso di scene di violenza piuttosto esplicite e spesso incensurate.
Vincitore della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes del 2014, Mundruczó dedica il film a Miklós Jancsó, uno dei maggiori registi ungheresi di cinema politico, in quanto White God è essenzialmente una forte critica di stampo sociale. Quest’ultima è palesata ulteriormente dal titolo, citazione di un altro film a protagonista canino, White Dog, 1982, di Samuel Fuller.

«Ho voluto collocare il film in una prospettiva in cui si capisca che il cane è il simbolo dell’eterno emarginato per cui il padrone è il suo Dio. […] Mi hanno sempre interessato le peculiarità di Dio. È davvero bianco? Oppure ogni persona ha il suo Dio? L’uomo bianco ha dimostrato innumerevoli volte che è solo capace di dominare e colonizzare. Le due parole collegate del titolo nascondono molte contraddizioni, per questo l’ho trovato così accattivante.»

Se è vero che la ribellione canina ci ricorda le scene finali de L’alba del pianeta delle scimmie, che il setting della città notturna e deturpata dal passaggio dei ribelli rimanda la mente a Io sono leggenda e che l’impetuosità improvvisa ed imprevista degli animali può essere accostata a quella dell'hitchcockiano Gli uccelli, il film risulta anche un prodotto estremamente originale e sorprendente, tanto nella forma quanto nel contenuto. Spesso, inoltre, i personaggi sembrano costruiti sull’impronta dei film d’animazione Disney: stereotipati e caricaturali come gli accalappiacani imbranati e goffi di Lilly e il Vagabondo, o in coppia come Gaspare e Orazio de La carica dei 101; la dispotica direttrice del canile che considera i cani beni materiali come una Crudelia De Mon senza pelliccia; l’homeless derelitto che raccoglie gli animali per strada al fine di rimediare qualche soldo sulle orme distorte di Fagin di Oliver & Company. 
A conti fatti siamo di fronte a un grido di allarme nei confronti della crescente intolleranza verso la diversità, ispirato all’autore dall’incontro con la letteratura di J.M. Coetzee, scrittore sudafricano vincitore del Premio Nobel.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Fehér isten
Uscita italiana: 09 aprile 2015
Regia: Kornél Mundruczó
Attori: Zsófia Psotta, Sándor Zsótér, Lili Horváth, Szabolcs Thuroczy, Lili Monori
Montaggio: Dávid Jancsó
Musiche: Asher Goldschmidt
Anno: 2014
Durata: 119'

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WILD - Cinema della solitudine

2/4/2015

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Cheryl (Reese Witherspoon) si lamenta. La sua voce affaticata è la prima cosa che percepiamo, il primo elemento umano in Wild. Poi, una mano. Uno scarpone. La cima di una montagna. Cheryl si strappa via un’unghia. E ancora la montagna la punisce, e poi la accoglie, e la sfida, segnando con i suoi simboli naturali (il sole, la sabbie, il vento, le rocce, i serpenti) e occasionali incontri di un viaggio verso il riappropriarsi dell’identità personale e femminile.
E questa è la prima immagine che il regista di Wild, Jean-Marc Vallée, ci restituisce di Cheryl: quella di una donna sofferente ma determinata, con un paesaggio sterminato e incolto davanti a sé e un altro alle proprie spalle. Capiamo da subito che è una tosta, di quelle donne che non si fermano davanti a niente. Possiamo solo immaginare dove stia andando, o perché, e non ci interessa. Il breve prologo di Wild, con un montaggio frenetico di fotogrammi che diverranno familiari allo spettatore nel corso del film, riassume la personalità, il passato, le ragioni e le scelte di una protagonista che queste emozioni, questi ricordi, queste motivazioni ha già dentro di sé, perse - forse smarrite - nell’inconscio, nel dolore, nel limbo di una esistenza bloccata a un punto letteralmente morto.
Per Cheryl è difficile andare avanti dopo la morte della madre Bobbi (Laura Dern), motivo di stress e causa scatenante la crisi esistenziale. Un divorzio non difficile ma doloroso come l’accettazione dell’amore che non c’è più, e una rete di rapporti complessi e mai del tutto risolti. Allontanarsi da tutto, dunque, dai lacci come dai legami sfibrati e da un presente privo di senso appare l’unica scelta possibile, incamminandosi in questo viaggio imprevedibile lungo la Pacific Coast Trail, dal Messico al Canada.
Wild compie la scelta di concentrarsi solo ed esclusivamente sul personaggio di Cheryl, tra passato e presente, giocando con i flashback per ricucire la vita di una donna a una svolta critica della propria vita. Una giovane immersa (ma non persa) nella solitudine dei sentieri d’America, in scenari suggestivi e sempre diversi, una persona che ha bisogno di sciogliere i nodi del cuore e di imparare a perdonare se stessa e il destino, il cui disegno spesso tradisce le intenzioni umane. Cheryl ritroverà dentro se stessa il forte legame con la figura materna, da sempre vissuta in modo conflittuale, farà finalmente pace con il passato, il dolore e la morte, e accetterà la precarietà della vita come quel fatto inesorabile che dà, però, a ogni singolo giorno e ogni singola scelta compiuta un significato più alto.

Contrariamente a quanto si possa pensare Wild non è un film d’azione, né di tensione. Non ci sono vie impervie da percorrere, e non si deve neppure combattere contro la natura ostile. Wild è un semplice (ma non banale) racconto di viaggio in cui anche il rapporto del protagonista con l’ambiente diventa la metafora di una sfida interiore, di un riappropriarsi della propria dimensione, della propria identità, del proprio essere.
La scrittura a cura di Nick Hornby (dal romanzo autobiografico della stessa Cheryl Strayed), esalta l’idea avvolgente di “one woman show” in cui Reese Witherspoon è l’elemento di luce (e ombra) attorno al quale tutto ruota: storia, personaggi, flashback, panoramiche delle distese americane, canzoni, rumori. La piccola Reese sfodera il carattere che ci si aspetta, si spoglia delle sue sovrastrutture di attrice e si immerge in quello che vuole essere per lei il ruolo della svolta professionale, a dieci anni di distanza dall’Oscar per Walk The Line.
Wild potrebbe essere confrontato con altre opere dalla trama più o meno simile: Into The Wild, 127 ore, All is Lost. In questi anni il cinema americano sembra avere cercato nella natura incontaminata risposte certe per l’umanità alla deriva, in una lotta per la vita contro l’elemento imprevedibile della natura. C’è una tendenza a indagare l’insondabile animo umano, con il rischio però di ricondurre ogni dubbio esistenziale alla insoddisfazione della vita urbana, come a una forma di cattività, per cui l’unica cura è un ritorno alle radici essenziali dell’essere.
Wild, nel suo piccolo, si distacca da questa prospettiva, e probabilmente ha un obiettivo meno ambizioso ma ugualmente efficace. Prima di tutto, è una storia di donne. In secondo luogo, è una storia di donne desiderose di stringere il filo delle generazioni, di aggrapparsi all’albero genealogico al femminile e di sfamarsi di quelle profonde radici. Cheryl legge Adrienne Rich mentre la voce fuori campo recita alcuni frammenti della sua poesia. Sullo sfondo, terra secca, fruscii, rumori. E parole che ci raccontano la sua evoluzione, il dramma della separazione dal grembo materno, il fascino ammaliante e perverso della solitudine quando l’unico suono che possiamo percepire, nel mondo, siamo noi stessi.

Come nel precedente Dallas Buyers Club, Jean Marc Vallée ha preso un’attrice hollywoodiana doc, l’ha privata del suo status, le ha consegnato un ruolo atipico e attorno alla star che si faceva interprete ha chiuso il cerchio del film; un anello che gira. Il regista è abile sia nella fase di montaggio, in cui riesce a mettere insieme flashback e presente con coerenza e suggestione, sia nelle scelte visive, dove sa esaltare il paesaggio nella sua integrazione con il personaggio di Cheryl, l’elemento umano. Vallée si concede diverse digressioni sinestesiche, catalizzando l’attenzione sui suoni della natura e sui colori naturali, ma forse ciò che più tocca il cuore dello spettatore è l’occhio sensibile con cui, pur in brevissime scene, descrive il cruciale rapporto madre-figlia: rabbia, discussioni, emozioni negate e urlate su una fotografia dai toni rossi e caldi.
Il senso della rabbia repressa per il fato e il lutto e l’incapacità di amare è alla fine racchiusa in un fotogramma: la radiografia del male si riflette nella foto di una paesaggio qualunque, appesa nell’ufficio del medico che decreta la malattia terminale di Bobbi. Cheryl allora non lo sapeva. La risposta è là fuori, e dentro di noi. Nel viaggio.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Jean-Marc Vallée
Sceneggiatura: Nick Hornby dal romanzo di Cheryl Strayed
Interpreti: Reese Witherspoon, Laura Dern, Gaby Hoffmann
Fotografia: Yves Bélanger
Montaggio: John Mac McMurphy, Martin Pensa
Durata: 115'
Anno: 2014
Uscita italiana: 2 aprile 2015

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