ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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MY OLD LADY - Vuoti incolmabili

20/11/2014

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Ci sono azioni che non riguardano solamente noi stessi, ma vanno a influire direttamente sulle persone che ci sono vicine. Ad esempio una relazione extraconiugale, che non tocca solo i membri della coppia ma anche i loro figli, i quali non avvertendo la solidità del nucleo familiare vivono la situazione in modo spiacevole, soprattutto quando il controllo fugge dalle mani dei genitori. Emblematica, a tal riguardo, è la situazione in My Old Lady.
Mathias (Kevin Kline), newyorkese squattrinato, ha ereditato da suo padre un appartamento a Parigi. Quando però arriva nella capitale francese, si accorge che l’appartamento è ancora occupato da Mathilde (Maggie Smith), una raffinata signora novantenne, e dalla figlia Chloé (Kristin Scott Thomas), iperprotettiva nei suoi confronti. Mathias scopre che l’appartamento è un viager; per la legge francese quindi l’immobile non potrà appartenergli fino alla morte della signora. Oltre a essere squattrinato, Mathias Gold è allo stesso tempo anche orfano e scapolo, un uomo che si è perso e ha coltivato per gran parte della sua vita astio e risentimento nei confronti del ricco padre Max, per lui responsabile del suicidio della madre.
Durante la sua permanenza nell’appartamento e la conoscenza dell’anziana donna, scoprirà che Mathilde è stata innamorata per tutta la vita di suo padre, con cui ha avuto una relazione extraconiugale per anni. Mathias associa a questo fatto l’infelicità della madre, e per questo non riuscirà facilmente ad accettare la rivelazione. La storia di My Old Lady è quindi quella dell’avvicinamento di Mathias a Mathilde, due persone distrutte da una stessa relazione d’amore.
Prima di diventare film, segnando il debutto registico di Israel Horovitz, My Old Lady ha riscosso grande successo al Promenade Theater di New York, dove è stato portato in scena nell’ottobre 2002, per poi accedere alla tournée mondiale in Germania, Russia e, ovviamente, Francia. Anche se, come detto, rappresenta il debutto di Horovitz alla regia, il drammaturgo non è affatto estraneo all’industria cinematografica: è stato infatti autore della sceneggiatura di Fragole e Sangue, vincitore del Premio della Giuria nel 1970 al Festival di Cannes, e ha collaborato alla sceneggiatura del dramma storico Sunshine (’99) che gli è valsa, insieme al suo collaboratore István Szabó, l’European Film Award.
A dispetto della versione teatrale, Horovitz sceglie di semplificare e amplificare al tempo stesso alcuni aspetti della storia. In scena il viager è l’elemento fondamentale, una tradizione vecchia e tipicamente francese che esiste tuttora nel Paese; nel film, sebbene mantenga il suo ruolo da protagonista, è affiancato dall'enormità di Parigi, entità molto più grande della rappresentazione su un palco teatrale.
Maggie Smith, nel ruolo di Mathilde, è stata la prima a essere scritturata, scegliendo la sceneggiatura di My Old Lady tra le 25 che le facevano la corte. La sua è un’interpretazione memorabile: recita a nudo senza trucco né parrucca (forse per la prima volta), creando un personaggio molto diretto e naturale, perché «a novant’anni la discrezione è l’ultima cosa che deve interessarti». Forte di decine d'anni di esperienza in cinema e teatro, con un Oscar vinto per Un pesce di nome Wanda (’88), Kevin Kline affianca la Smith interpretando alla perfezione il ruolo di Mathias Gold; un grandissimo attore che riesce a incarnare alla perfezione il suo ruolo, grazie alla capacità di dare al regista numerose variazioni sul tema (dalla più leggera alla drammatica) preservando sempre la naturalezza e la spontaneità dell’azione. Kline contribuisce inoltre a dare quell’accento tragicomico che il film doveva avere e che raggiunge perfettamente.
Anche Kristin Scott Thomas compie un ottimo lavoro, mantenendo la sua solita eleganza e sensualità anche nei momenti d’isteria. La vediamo dare il volto al personaggio di Chloé, la cui presenza acquista più importanza nella trasposizione cinematografica rispetto all’opera teatrale, in quanto è lei che riesce a centralizzare la nemesi di Mathias e il suo inaspettato sentimento nei confronti di Mathilde.
Un film pieno di umanità, di grande intimità. La storia di un amore e di verità taciute, menzogne obbligate che non riescono più a coprirsi e vengono finalmente a galla, permettendo ai protagonisti di riprendere fiato dopo una vita in apnea.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica   

Anno: 2014
Regia: Israel Horovitz
Sceneggiatura: Israel Horovitz
Attori: Maggie Smith, Kevin Kline, Kristin Scott Thomas, Dominique Pinon, Francis Dumaurier
Fotografia: Michel Amathieu
Montaggio: Stephanie Ahn, Jacob Craycroft
Musiche: Mark Orton
Uscita italiana: 20 novembre 2014

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GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY - Lo schermo abissale

19/11/2014

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Goltzius and the Pelican Company è un'opera crudele di magia. Crudele perché senza scrupoli fagocita qualsiasi cosa dentro di sé. Di magia perché è spettacolo di specchi rovesciati, ma di trucchi scoperti. Ogni impressione è legittima, impossibile è qualsiasi aspettativa. Il gioco visivo del grande regista è il gioco di un bimbo colto e sgarbato che ha nel copione priorità inderogabili: bisogna ripensare tutto di nuovo, il sesso, il potere, lo sguardo, le icone dell’arte, gli espedienti della finzione. Lo spettatore può osservare fuori dallo schermo per distrarsi, oppure può cedere alle provocazioni di una fantasia onnivora e inoltrarsi nella parete, abbandonarsi alla seduzione del racconto. Tutto è legittimo in questo spettacolo di salti mortali.
Siamo alla fine del Cinquecento, la stampa esiste da poco più di un secolo. Un incisore di stampe erotiche olandese, Hendrick Goltzius (Ramsey Nasr), e la sua compagnia itinerante trovano nel margravio di Alsazia (F. Murray Abraham) il finanziatore di un progetto ambizioso: realizzare un libro di illustrazioni sulle vicende più scabrose dell’Antico Testamento. Per ottenere il finanziamento, la compagnia accetta la condizione del capriccioso margravio: mettere in scena sei racconti biblici, ognuno dei quali legato a un tabù sessuale: la creazione di Adamo ed Eva (il voyeurismo), Lot e le sue figlie (l’incesto), Davide e Betsabea (l’adulterio), Putifarre e sua moglie (la pedofilia), Sansone e Dalila (la prostituzione), Salomè e Giovanni Battista (la necrofilia).
Nella corte di Peter Greenaway sta avvenendo la svolta della modernità: una tradizione consolidata diventa immagine, trasformandosi e trasformando chi la eredita. Grazie al lavoro paziente degli artisti, le immagini confluiscono in un immaginario comune che la corte-mondo impara presto a riconoscere come il proprio. È l’era della visual literacy, l’alfabetizzazione visiva che ha formato l’uomo moderno. Goltzius è il demiurgo ritenuto un guitto, il tecnico che crea l’alfabeto da cui viene formato il mondo a venire. È l’artista che anticipa la riconfigurazione del mondo (nei suoi tabù e nelle paure rimosse) in spettacolo. Fosse vissuto oggi, sarebbe un film maker incompreso e profetico. Ci parla da una scrivania di nature morte, con il trucco pesante e la voce da prestigiatore truffaldino. Come già Dante e Virgilio in A TV Dante-The Inferno (1989), Goltzius è una talking head: si rivolge a noi dal buio come un conduttore televisivo, per accompagnarci tra le sue creazioni e provocarci con un’ironia nerissima. Goltzius è Greenaway.
Siamo spettatori, voyeur autorizzati dall’autore a guardare dal buco (come nei vecchi key-hole films). È un gioco di specchi rovesciati: gli spettacoli della compagnia appagano il voyeurismo del margravio non meno del nostro. Eppure egli è il potere e, nel momento in cui interviene sulla scena (pretende di assegnare i ruoli femminili, vuole interpretare Erodiade, padre di Salomè), smette di essere voyeur e si trasforma nel politico disposto a manipolare immagini, ruoli, funzioni per assecondare i suoi capricci e rivendicare un privilegio sull’arte. 
È anche un gioco di trucchi scoperti: tutto è artificiale, come in un cielo di teatro scoperto alla platea. La corte d’Alsazia è un teatro, le colonne sono disegnate in rendering, la recitazione è straniata, il sesso è una posa. Tutto è iconico ed eccessivo, come in una mitologia. Il regista, memore di una tradizione artistica, fa un cinema che sembra voler rinominare tutto per gioco, come Adamo ed Eva che scelgono da un mazzo di carte i nomi da assegnare alla vita. Tutto (ri)diventa possibile se Dio e Satana sono personaggi assegnati allo stesso attore (Pippo Delbono).
Goltzius parla di trasformazioni: le metamorfosi dei corpi degli attori in eroi tragici, le metamorfosi delle parole che si formano in sovra-impressione, indissociabili dalle immagini, le metamorfosi del cinema stesso, che cambia in nome di una rinnovata flessibilità. Dentro l’immagine convivono messa in scena artigianale e sperimentazione digitale, trasformazione grafica e corporalità. I volti brillano spesso di riflessi d’acqua: il tempo che confonde passato e futuro, tradizione e sfida sperimentale. Alla base di tutto il sesso e la morte, gli unici due aspetti “non negoziabili della vita” (lo dice spesso il regista) e dell’immaginario di sempre.
Come l’immagine ha riconfigurato il mondo, così Greenaway reinterpreta la conoscenza in un cinema dell’incontinenza che ibrida teatro, musica, video arte. Le immagini sullo schermo si sovrappongono come schegge, rimandando allo spettatore la responsabilità di uno sguardo selettivo e personale. L’immagine in Greenaway è il vero albero della conoscenza.
In principio era il Verbo? No, direbbe lui, in principio era l’Immagine. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema

Il film sarà inizialmente proiettato come evento speciale nelle seguenti città:

20/01 Modena
22/01 Firenze, Bologna
23/01 Torino, Venezia
01/02 Roma
04/02 Trieste


Scheda tecnica

Titolo originale: Goltzius and The Pelican Company 
Anno: 2012 
Durata: 112’ 
Regia: Peter Greenaway 
Interpreti: F. Murray Abraham, Ramsey Nasr, Kate Moran, Giulio Berruti, Flavio Parenti, Pippo Delbono 
Sceneggiatura: Peter Greenaway 
Scenografia: Ben Zuydwijk 
Fotografia: Reiner van Brummelen
Uscita italiana: settembre 2014 (nei teatri), gennaio 2015 (al cinema)    

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NIGHTCRAWLER - Lo sciacallo

16/11/2014

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Presentato a Toronto e al Festival internazionale del cinema di Roma con buoni riscontri, esce nelle sale italiane Nightcrawler – Lo sciacallo, esordio alla regia di Dan Gilroy, sceneggiatore di The Fall e The Bourne Legacy, diretto dal fratello Tony. Protagonista del film è un cinico e arrivista Jake Gyllenhaal, alias Louis Bloom, dimagrito di una ventina di chili e scavato in volto, immagine di una generazione alienata e dal futuro incerto in cui gli stage e il salario minimo hanno sostituito la prospettiva di un lavoro a tempo pieno e la possibilità di fare carriera. 
Louis è un disoccupato che rivende materiali edili rubati in attesa di dare una svolta alla sua vita. Un giorno assiste casualmente a un incidente stradale e nota una troupe televisiva accorsa per riprendere l’accaduto; è il mondo dei videoreporter che tutte le notti, con la camera in spalla e costantemente sintonizzati sulla radio della polizia, sfrecciano per le strade di Los Angeles, senza pudore, alla ricerca di incidenti, scontri a fuoco e omicidi per vendere il materiale video ai network televisivi. Louis calcola rischi e possibilità, pianifica il suo futuro e decide che è disposto a tutto per portarlo a compimento.
Jake Gyllenhaal dà vita a un personaggio memorabile, una maschera dal sorriso beffardo e dalla parlantina travolgente; un uomo indifendibile, cinico eppure affascinante. Louis è il motore dell’azione, uno svantaggiato che non ha avuto un’educazione vera e propria ma ha imparato a trovare su internet tutte le nozioni di cui ha bisogno. Un personaggio che si applica, studia e lavora senza sosta, idealmente positivo ma senza scrupoli, animato da un’insana sete di successo che lo rende una variazione originale del self-made man in un contesto sociale più attuale e crudele; una distorsione del sogno americano, dove per emergere devi diventare un predatore.
Entrato in un mondo dove lo spettacolo della violenza calamita l’attenzione dello spettatore in maniera morbosa, Louis si dimostra un ottimo osservatore, capace di cogliere, rappresentare e all’occorrenza trasfigurare la realtà. La qualità delle sue immagini e il loro contenuto attirano presto l’attenzione di Nina, direttrice di un canale locale, interpretata da Rene Russo (moglie del regista), interessata a costruire e manipolare storie per calamitare l’attenzione del pubblico; è lo specchio dei mass media, pronti a barattare per un pugno di ascolti la deontologia delle informazioni; è il mondo dei network moderni, fatto di sotterfugi, arrivismo e atteggiamenti politicamente scorretti. Un mondo sempre a caccia di notizie esclusive e scoop live, che si avvale della partecipazione attiva dei lettori/telespettatori, attraverso un fenomeno conosciuto come citizen journalism, per raccontare una realtà dove l’etica giornalistica è sostituita dal più remunerativo sensazionalismo.
Gilroy confeziona un lavoro dal ritmo incalzante, sorretto da uno script solido, accompagnato dall’ottima fotografia notturna di Robert Elswit e dalle musiche a tratti elettroniche di James Newton Howard, capaci di evocare una Los Angeles oscura, ossessiva e violenta. Un racconto che assomiglia ai numerosi inseguimenti in macchina presenti nel film: una corsa folle alla ricerca del successo, lontana da giustificazioni di tipo morale.

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica

Titolo originale : Nightcrawler
Anno : 2014
Regia : Dan Gilroy
Soggetto : Dan Gilroy
Fotografia : Robert Elswit
Montaggio : John Gilroy
Durata : 117’
Interpreti principali : Jake Gyllenhaal, Bill Paxton, Rene Russo, Riz Ahmed

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FRANK - Postmoderno e surrealtà

13/11/2014

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Jon (Domhnall Gleeson) è un musicista, talentuoso e desideroso di trovare la propria strada. Isolato e incompreso da tutti, coglie l’inaspettata occasione della vita quando accetta di far parte dei Soronprfbs, una band dal nome impronunciabile e dalle sonorità molto più che d’avanguardia. 
Il frontman è Frank (Michael Fassbender), cantante dalla voce unica che si concede di indossare – senza mai togliersela - una gigantesca testa di cartone. Nessuno lo ha mai visto senza, nessuno può effettivamente dire chi lui sia. Una stravaganza, questa, che si contorna di mistero, pur in un gruppo di artisti tutt’altro che ordinari: Don (Scott McNairy, Monsters) che è irrimediabilmente depresso, Clara (Maggie Gyllenhaal) con i suoi comportamenti appassionati e imprevedibili, Baraque (François Civil) che parla solo francese anche se nessuno sembra badarci, Nana (Carla Azar, l’unica del cast a fare la musicista per davvero) con quel suo sguardo intenso e a volte inquisitore.
Qualcosa accadrà nel periodo in cui il team si troverà a vivere insieme, nella lontana e boschiva località di Vetno, per incidere l’album perfetto. Il suono perfetto. L’utopia dell’essere umano, che alla perfezione tende senza raggiungerla mai. Finché, un giorno, Jon sprona i Soronprfbs a uscire dalla caverna, letteralmente, e confrontarsi con il mondo esterno, partecipando a un concorso musicale. Occasione, per il gruppo, di suggellare il patto o schiantarsi al primo ostacolo. Quanto è crudele, a volte, la vita.
La costruzione di Frank è prevalentemente basata sui pensieri di Jon, sulla sua voce fuori campo, deputata a collegare tra loro le singole scene. Attenzione però: in questo piccolo gioiello post-moderno, la storia è raccontata come una fiaba cross-mediale, in cui l’elemento “social” (i tweet inviati da Jon a un indecifrato pubblico, che scorrono in sovrimpressione a favore dello spettatore) contraddice la natura anti-sociale dei personaggi. Isolati come gli ultimi di una qualche comunità primitiva e romantica in via di estinzione, i musicisti si affacciano finalmente al mondo esterno per attrazione, ma ne rimangono inevitabilmente travolti.
Un milione di visualizzazioni sul canale Youtube non corrisponde necessariamente a un seguito nella vita reale, dove nulla è empatico e ogni livello di comunicazione è compromesso dalla superficialità. La vita reale è un percorso a ostacoli che letteralmente può travolgerti se non sai gestire te stesso, le relazioni, il caos. L’arte sembra erodersi quando entra in contatto con il vortice della popolarità, quasi ne venga corrotta, fino a perdersi.
Si può analizzare Frank in molti modi. Per codici narrativi e disegno dei personaggi, si propone quasi come una parabola sull’anticonformismo o sul rifiuto di allinearsi ai codici dell’esistenza sociale. Frank nasconde il volto popolare di Michael Fassbender: indubbiamente l’idea del regista – proibire al pubblico di vedere il viso dell’attore – ha un suo morboso fascino e cattura. Ma Frank è anche un personaggio da fumetto, con quel suo faccione sorridente, la bocca grande, gli occhi tondi che ti fissano sempre, i capelli neri ben disegnati e pettinati. Frank ha i tratti dell’uomo perfetto, forse ciò che ciascuno di noi vorrebbe essere. Un giovane ferito e insicuro che annega nel suo personaggio per la paura di sopravvivere senza, di togliersi la maschera, perché la sua anima è accettata e ammirata solo se la voce esce dalla grottesca testa di cartapesta. Una grande verità emerge: nella società contemporanea degli amici virtuali e intangibili, la poesia dell’artista è il fiato che solo i simili possono comprendere. Eppure, con o senza la maschera, il rapporto con l’altro è sempre difficile, conflittuale, convulso.
Dobbiamo allora spogliarci delle nostre paure, rivelare le nostre fragilità, e avere il coraggio di intonare un «I love you all» sulle note della musica più originale, stravagante, anticonvenzionale (e quindi vera) che possa esistere.
Frank ci insegna che un viso è ingannevole, ma non le parole, l’intonazione, la gestualità. E forse tutto ruota, in fin dei conti, attorno alla ricerca di autenticità, alla corrispondenza tra il nostro essere e l’apparire. La ricerca della propria voce, o della propria musica interiore, passa attraverso l’armonia. Quando Frank descrive le espressioni del proprio viso dentro quello immutabile di cartone, la suggestione verbale ci porta a immaginare. Sappiamo che Fassbender è lì, da qualche parte, e la nostra mente se ne costruisce un’idea. Di base siamo noi spettatori a creare il suo volto sul quel corpo scenico, dai movimenti nevrotici. E sono gli altri bravissimi interpreti a riflettere la personalità sfuggente di Frank su se stessi.
Un’operazione brillante ma complessa e difficile, che il regista Larry Abrahamson accetta e vince. Si prende poco sul serio, gioca per forza di cose sul filo dell’ironia, sui canoni del surreale, combina elementi classici (la maschera, l’arte che esiste solo in sé, etc.) con suggestioni visive pop e situazioni da teatro dell’assurdo. Tutto in novanta minuti irresistibili. Ed è moltissimo. Chapeau.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Larry Abrahamson
Sceneggiatura: Jon Ronson, Peter Straughan
Interpreti: Domhnall Gleeson, Michael Fassbender, Scott McNairy, Maggie Gyllenhaal, François Civil, Carla Azar
Anno: 2014
Durata: 95'
Musica: Stephen Rennicks
Uscita italiana: 14 novembre 2014

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TORNERANNO I PRATI - Le guerre del poeta

10/11/2014

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Ermanno Olmi, all'interno del panorama del cinema italiano, è uno dei pochi cineasti in grado di imprimere alle proprie immagini un'autentica sincerità, quella parte di sé inscindibile dal messaggio che i suoi film intendono esprimere. La sensazione che una particolare condiziona umana stia scomparendo, e la volontà di fissarla nel tempo e nella memoria, in Torneranno i prati emerge in una forma nuova, che conferisce alla dimensione evocativa un senso di inesorabilità più intenso rispetto alle opere del passato. 
In occasione del Centenario della Grande Guerra, l'autore ricostruisce la lunga notte in trincea di un gruppo di soldati sul fronte nord-est, all'alba di Caporetto nel 1917, al quale viene dato ordine da parte del Maggiore (Claudio Santamaria) di spostare il posizionamento delle spie in un rudere poco distante. Le condizioni di vita dei soldati in trincea, rappresentate con la massima aderenza al reale, contrastano con la visione di una natura bellissima e oscura, pervasa da un solenne silenzio interrotto soltanto dal ticchettio dell'orologio che scandisce il tempo che precede l'eroica morte de il dimenticato. 
Olmi si cala in trincea per mostrarci da vicino la sofferenza e lo smarrimento nei volti duri dei soldati, scruta gli angoli, cattura sfumature e oggetti, affiancando cosi alla descrizione realistica un'approfondita ricerca psicologica dei personaggi, che permette all'autore bergamasco di dare spessore alle immagini attraverso l'uso particolare dei suoni (specie nella sequenza d'apertura). 
Il senso e la morale del film ruotano intorno al desiderio di restituire un'identità a tutti quei giovani senza nome caduti in guerra e sepolti sotto la neve, senza la quale non può esserci dignità. I nomi si ripetono come un eco ininterrotto nella mente del Capitano (Francesco Formichetti), che getta via i gradi e rifiuta gli ordini dell'ufficiale, a sua volta incapace di sfuggire alle gerarchie, affiancato da un giovane tenente in carriera (Alessandro Sperduti) che per tutto l'arco del film manifesta una sensazione di sempre più grande incertezza e inadeguatezza al grado assegnatogli. 
L'incalzare dei colpi di mortaio dell'esercito austriaco assale lo spazio della natura, così irraggiungibile e ostile, fin quando arriva l'ordine di ritirata da parte degli ufficiali italiani. Nella scena chiave della lettera del tenente alla madre, la poetica olmiana si libera in tutta la sua drammaticità, in un pianto soffocato che sembra consegnarsi direttamente al tempo infinito: «si è sempre vittime e sopravvissuti due volte». Anche la visione di un luminosissimo larice d'oro, che appare agli occhi innocenti della Sentinella, è un sogno lontano che fa presto a tramutarsi in un incubo di morte. È in questi precisi momenti che con il suo Torneranno i prati Olmi incide un forte pessimismo alle proprie immagini, affrontando un tema delicato dai caratteri universali che lascia poco spazio a rimpianti. 
La nostalgia per la perdita del legame tra natura e uomo, la denuncia nei confronti delle barbarie della società moderna, tipiche dell'Olmi anni Settanta e Ottanta (L'albero degli zoccoli ne è il manifesto ideale) sono le linee guida di un pensiero sempre vivo, che trova nella Grande Guerra l'occasione per mostrarci ancora più da vicino le lacerazioni di coloro che, sottratti alla realtà, si muovono sospesi tra la vita e la morte. La disobbedienza del Capitano, o del soldato anonimo che si suicida rifiutando gli ordini, «è un atto morale che diventa eroicità quando la paghi con la morte». 
Olmi da sempre ci invita a fermarci e riflettere, fa del cinema lo strumento ideale di comprensione del mondo, il luogo in cui è possibile ancora oggi condurre le guerre del poeta. Alla fine torneranno i prati e tutto sarà dimenticato, lasciandoci in un stato di sonnolenza dello spirito, «la sonnolenza di chi vive sull'orlo della tragedia e non sa come reagire».

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Torneranno i prati
Anno: 2014
Durata: 80'
Regia: Ermanno Olmi
Sceneggiatura: Ermanno Olmi
Fotografia: Fabio Olmi
Musiche: Francesco Liotard, Alessandro Romano, Francesco Tumminello
Attori principali: Claudio Santamaria,  Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea di Maria

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RITORNO A L'AVANA - I reduci della rivoluzione

2/11/2014

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Amadeo, stanco idealista con ambizioni letterarie, ritorna a L’Avana dopo sedici anni di esilio volontario in Spagna. I suoi quattro amici, conosciuti sin dai tempi della rivoluzione, lo festeggiano su una terrazza, tra aneddoti, alcool e sana musica americana. Tentano di capire cosa abbia lasciato loro il passato, oltre a comporre un diario di vivaci aneddoti. La vita che è stata reclama un resoconto, la vita che verrà è un enigma da svelare. Infiammati dai ritmi della musica, paghi di un’intimità ritrovata, l’esordio del film li sorprende in un ballo giunto quasi alla conclusione. Illuminati dal giorno ancora caldo, espanso, si abbandonano a ricordi colmi di dettagli, alla delizia degli ozi e del vino, provando a lasciarsi sotto i piedi, per le strade di L’Avana, la noia e la fatica di vivere. 
Laurent Cantet non è nuovo a piccoli racconti dalle ambizioni generazionali. Come già in La classe - Entre les murs, il regista sceglie una prospettiva parziale come luogo deputato al racconto: lì erano le mura di una scuola, qui è una terrazza. Dai piccoli gesti ordinari, dai discorsi sfiancanti su tutto e niente la vita è amplificata in tutta la sua contraddittorietà, e ai personaggi è dato di emergere prepotentemente, in tutta la loro detonante carica di allegria, cinismo e pulsioni distruttive. 
Testimoni traditi di una stagione piena della storia, un tempo d’amore e ideali non tramandabile, i protagonisti di Ritorno a L’Avana sono immobili come i tempi del racconto che stenta a trascorrere: la terrazza è un’alcova disfatta, dove le beltà perdute sono stracci seccati dall’afa, una prigione esposta ai venti su cui la città vigila e cui accede attraverso le voce dei suoi prigionieri. 
Cantet lascia alla storia il tempo di approfondirsi, spaccarsi nelle pieghe intrecciate dei racconti. I suoi personaggi si raccontano interrompendosi, incespicano, ritornano con ossessione sugli stessi argomenti. Scherzano, litigano, poi si danno le spalle per guardare L’Avana. Davanti alla ringhiera si stende uno squarcio di autostrada non troppo affollata, l’arteria che lascia alla vita il suo corso. Nei pochi silenzi la città sale dai muri e si svela nel suo disordine vuoto, nei rumori sempre distanti, nelle voci di un vicolo o forse di un’altra terrazza incastrata nel cemento. Ma la terrazza è anche la terra dell’approdo: gli amici, accomunati dalla sofferta rinuncia di un’utopia, hanno conosciuto l’esilio, ciascuno a suo modo. E ciò a cui assistiamo è in fondo l’ultimo resoconto di un viaggio che da L’Avana si è slanciato e a L’Avana è arenato.  
Amadeo, Eddy, Aldo, Rafa e Tanìa distrattamente ascoltano la città che pulsa nel traffico, nelle liti per strada, nelle urla dei tifosi. Diversi e incompatibili come i veri amici in ogni parte del mondo, stonano tra di loro come i colori delle case in rovina, eppure hanno un’intensità corale che satura lo spazio, nelle liti come durante i pasti a base di whisky e fagioli neri. Merito degli attori e della sceneggiatura di Cantet e Leonardo Padura Fuentes, giornalista e scrittore cubano classe 1955, da anni impegnato nell’affrontare “le vicissitudini materiali e spirituali” che la sua generazione ha conosciuto. 
Il titolo originale (Retour à Ithaque) ci riporta alle fantasie di Omero e alle avventure del suo multiforme eroe: se per Ulisse era il richiamo alla guerra la causa dell’allontanamento dalla patria e dell’inizio di un viaggio inatteso, incagliato nei punti più ostili del Mediterraneo, a spingere Amadeo verso l’esilio è stata l’insofferenza verso un ambiente ostile, impenetrabile a influenze culturali (la “penetrazione culturale” di mode e musica americane aborrita dal regime), fiero del suo credersi microcosmo autarchico: Cuba negli anni Novanta, durante il Periodo especial, all’indomani della crisi dell’Unione Sovietica. 
Cuba, simbolo storico della possibilità di dar forma a utopie di liberazione, ha privato la sua gente dell’opportunità di un riscatto, dentro e fuori i suoi confini. Vent’anni di pericoli non poterono scalfire l’animo di Ulisse, che mantenne fino al ritorno lo sguardo saldo, teso dal mare verso la sua reggia, fiducioso di riprendersi la vita perduta. Per Amadeo non c’è stato viaggio né memoria di esperienze o pericoli da trascinarsi dietro, perché l’esilio non gli ha concesso una vita appagante né una fuga di libertà: così dalla Spagna ha portato soltanto qualche pregiata bottiglia di vino e aneddoti sul temperamento delle donne catalane. 
Non esiste viaggio possibile né mondo conoscibile al di là di Cuba. Così i protagonisti restano sospesi nella risposa elusa a una domanda elementare: è stata Cuba a spingerli in quella stanza polverosa, dove sono accatastati rimpianti e speranze disattese, oppure la loro stessa debolezza, l’incapacità di rivoltarsi, reagire, disporsi sul serio alla vita a costo di rinunciare a tutto? 
Nel passaggio da un pomeriggio a un’alba la terrazza si è riempita di oggetti: bottiglie vuote, lampade, sigarette, un’enorme tela astratta. Quando la carrellata finale passa sui cinque, immobili al risveglio del giorno, inanimati tra l’inanimato, l’immagine di quella danza nel caldo del giorno precedente è talmente lontana da sembrare una lontana allucinazione, il sogno effimero di cinque anime voltate di spalle l’una all’altra. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Retour à Ithaque 
Anno: 2014 
Durata: 90’ 
Regia: Laurent Cantet 
Attori: Jorge Perugorrìa, Isabel Santos, Fernando Hechevarria, Nestor Jimenez, Pedro Julio Diaz  
Sceneggiatura: Laurent Cantet, Leonardo Padura Fuentes 
Fotografia: Diego Dussuel 

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