ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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ELYSIUM - Lotta di classe senza (con)fine

30/8/2013

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Dopo il successo internazionale di District 9, Neill Blomkamp torna nelle sale cinematografiche con una vicenda che, seppur ambientata in un futuro prossimo e disumano, è antica e profondamente radicata nella storia. In Elysium, questo il titolo del secondo lungometraggio dell’abile regista e sceneggiatore sudafricano, mette in scena pulsioni umane ataviche e vitali come l’incessante movimento per la vita, la migrazione, la speranza, ma anche la strenua difesa dello status quo da parte di una classe dirigente che non vuole perdere i propri benefit.
Elysium, meraviglioso satellite artificiale costruito dall’uomo al di fuori dell’atmosfera terrestre, è l’iperbole economico/difensiva di ciò che accade nella nostra realtà contigua. Un reale fatto di muri e barriere razziali che, da Israele alla California – e gettando uno sguardo alla Berlino del secondo Novecento –, sono strumenti di controllo e difesa. Neill Blomkamp si spinge però oltre e situa il nuovo avamposto della ricchezza e del potere nello spazio profondo. L’impianto spettacolare è imponente, sia le immagini terrestri sia quelle del satellite Elysium sono mozzafiato. Quest’ultimo gode di una cura grafica strabiliante, apparendo come un formidabile omaggio alla “ruota spaziale” kubrickiana – sostituendo le musiche di Strauss con una delicata partitura per violoncello di Bach.
L’anno è il 2154, l’inquinamento sul pianeta Terra è diventato insopportabile a causa dei peggioramenti avvenuti nel ventunesimo secolo. Un gruppo di multimilionari ha quindi deciso di creare un satellite artificiale sui cui vivere per poter mantenere uno stile di vita agiato. Elysium, però, può ospitare solo un numero limitato di individui, abbandonando sulla terra milioni di persone in condizioni di sfruttamento e indigenza. I terrestri tentano in tutti i modi di fuggire da un mondo ormai devastato e dominato da crimine e povertà. L’unico uomo che può riuscire a ripristinare l’equilibrio tra i due estremi è Max, un ragazzo comune che vuole a tutti i costi raggiungere la stazione spaziale. La sua vita è appesa a un filo, fino a che intraprende una missione pericolosa che lo porterà a scontrarsi con il Segretario di Stato di Elysium e con le sue forze armate. Il destino di Max andrà ad incrociarsi con quello di milioni di persone, costringendolo ad una profonda presa di coscienza.
Se in District 9 avevamo un'allegorica visione dei contrasti razziali del nostro passato e del nostro presente, in Elysium siamo testimoni di un’atroce distopia in cui chi può lascia il pianeta e chi rimane è schiavo di uno sfruttamento economico disumano. Blomkamp, però, evita coscientemente qualsiasi discorso pedante e moralista per concentrarsi su Max, interpretato da Matt Damon, personaggio che gli permette di costruire un perfetto film d’azione che mira al coinvolgimento emotivo e intellettivo. «Sono prima di tutto un artista visivo. Non voglio fare film troppo seri, mi piacciono l’azione e la parte estetica ed è così che inizia tutto per me. Ma mi interessa anche la politica», così esprime i suoi intenti il regista sudafricano.
Max, infatti, si vede involontariamente investito dalle aspettative e dalle speranze di molti; il suo desiderio di salvezza si fonde e sfoca al cospetto di un bene più grande, costringendolo ad una rivalutazione dei propri egoismi. Il richiamo al sacrificio è forte e il paragone cristologico anche. La speranza di milioni di accedere al regno dei cieli – in questo caso materializzato nella vita eterna e nelle cure mediche offerte da Elysium (possibile crossover tra elixir ed asylum?) – è così affidata ad un unico uomo le cui vicende possono cambiare il destino dell’umanità.
Neill Blomkamp, tra azione, sentimenti e sottotesti impegnati, cerca di bissare il successo di District 9, offrendo al pubblico un film che, confrontandosi con i blockbuster di fantascienza, si distingue per intelligenza senza però tralasciare il lato più spettacolare del genere di riferimento. Seppur in un’altalena di emozioni e riflessioni che predilige le prime alle seconde, Elysium appare una coerente opera filmica nella carriera cinematografica di un regista giovanissimo che sembra aver già messo le basi per un’affascinante koinè stilistica.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Elysium
Anno: 2013
Regia: Neill Blomkamp
Sceneggiatura: Neill Blomkamp
Fotografia: Trent Opaloch
Musiche: Ryan Amon
Durata: 109’
Uscita in Italia: 29/08/2013
Attori principali: Matt Damon, Jodie Foster, Sharlto Copley

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L'EVOCAZIONE - La sfida di James Wan

21/8/2013

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Pare impossibile che James Wan, regista di origini malesi assai noto agli aficionados del cinema di paura, abbia appena 36 primavere. Sono infatti passati quasi dieci anni dai tempi di Saw – L’enigmista, secondo lungometraggio di Wan destinato a dare il via a una prolifica e redditizia saga in cui peraltro si è ben guardato dal porsi dietro la macchina da presa per i numerosi sequel, limitandosi al ruolo di produttore esecutivo. 
Da allora il giovane filmaker ha continuato a bazzicare il genere horror fino a terrorizzare le platee di mezzo mondo con Insidious, pellicola realizzata nel 2010 che conta già un sequel – diretto sempre da Wan – in uscita negli States tra poco meno di un mese. Alla luce di ciò è ancor più sorprendente apprendere che L’evocazione (The Conjuring), l’horror che sta imperversando ai botteghini d’Oltreoceano, sia stato realizzato proprio dal regista di Saw e Insidious. Dopo aver visto questa sua ultima creatura non si può che prendere atto del livello di maturità raggiunto da Wan e della sua incredibile dimestichezza col genere.
Il film è ispirato a una storia vera accaduta nel Rhode Island all’inizio degli anni Settanta con protagonista la famiglia Perron – padre, madre e ben cinque figlie all’attivo – trasferitasi in una vecchia magione fuori città. Ben presto i malcapitati scoprono di essere finiti in un luogo infestato da oscure presenze e decidono di chiedere aiuto a Ed e Lorraine Warren, una celebre coppia di investigatori del paranormale. 
Il regista, qui ambizioso come non mai in precedenza, lancia da subito la sua personalissima sfida allo spettatore, giocando a carte scoperte nella didascalia iniziale da cui si apprende che la vicenda narrata è tratta dal caso più sconvolgente affrontato dai coniugi Warren durante la loro carriera, talmente terrificante da non essere mai stato rivelato prima. Il suo intento è abbastanza esplicito: far sapere al pubblico che ciò che vedrà lo spaventerà a morte. Wan dimostra coraggio, una discreta faccia tosta ma soprattutto una profonda conoscenza dei meccanismi cinematografici atti a terrorizzare gli spettatori del XXI° secolo. 
Nella prima parte l’inquietudine e la suspense sono ben dosate e calibrate grazie ai tanti momenti di attesa che contribuiscono a far crescere la tensione nel pubblico – a cui per fortuna viene risparmiato quasi totalmente il ricorso alla CGI che nei film horror non ottiene quasi mai l’effetto desiderato – fino a farla deflagrare nel finale ad effetto che non lascerà indifferenti gli amanti del genere. 
L’evocazione raggiunge vette di puro terrore e non si sottrae al difficile confronto con opere come L’Esorcista, spudoratamente omaggiato nella seconda parte del film, spingendosi fino a citare en passant e non senza un divertito compiacimento perfino Gli Uccelli del maestro del brivido Sir Alfred Hitchcock. Per completezza è bene ricordare anche la saga di Amityville Horror ispirata proprio a uno dei tanti casi affrontati dai Warren.
Azzeccato il cast che si avvale dei nomi di Patrick Wilson, già protagonista per Wan di Insidious e del sequel, della sempre ineccepibile Lili Taylor e soprattutto di un’intensa e dolente Vera Farmiga, ormai totalmente a suo agio in questo genere di pellicole dopo le sue apparizioni in Orphan e nella prima stagione di Bates Motel, dove giganteggia nelle scomode e ingombranti vesti della madre di Norman Bates.
L’evocazione non presenta particolari elementi di novità, sebbene l’efficace sceneggiatura scritta dai fratelli Chad e Carey Hayes non si limiti come accade quasi sempre in questi casi a seguire le vicende della famiglia minacciata dal male, ma riesca a sviluppare in maniera parallela le vicissitudini dei Warren nel gestire la propria vita a causa della loro particolare attività, assestando autentici spaventi anche nello spettatore più scafato e avvezzo ai meccanismi del cinema horror. Di questi tempi, dove si fatica sempre più a trovare film di genere degni di questo nome, non è poco davvero.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Conjuring
Anno: 2013 
Uscita in Italia: 21 agosto 2013 
Regia: James Wan
Sceneggiatura: Chad Hayes, Carey Hayes
Fotografia: John R. Leonetti
Musiche: Joseph Bishara
Attori: Patrick Wilson, Vera Farmiga, Lili Taylor, Ron Livingston, Mackenzie Foy
Durata: 112 min.

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APACHE - Una vita violenta

19/8/2013

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«La montagna in mezzo al mare...». Così definiva la Corsica Guy de Maupassant nel suo primo romanzo “Une vie” (1883). L'incipit di Apache di Thierry de Peretti rievoca indirettamente queste parole: nei primi fotogrammi ci appare una sontuosa villa, alta sulla costa di Porto Vecchio, ma dietro l'apparenza di un luogo ameno può esserci un'anima nascosta ed è questa la chiave registica e drammaturgica di Apache. 
Tratta da un fatto di cronaca avvenuto circa otto anni fa (ma non dichiarato all'inizio del film), la pellicola si rifà alla cruda realtà, ai generi cinematografici del gangster movie e dei polizieschi francesi, e soprattutto riesce a farsi atto di accusa di specifiche dinamiche tra uomini senza ergersi sul piedistallo. 
Dall'alto della villa si passa al basso, lì dove risiedono gli abitanti di Porto Vecchio – i figli di coloro che sono stati saccheggiati, conquistati e colonizzati. In Apache “alto” e “basso” s'incontrano simbolicamente quando i nostri quattro protagonisti - Aziz (Aziz El Addachi), François-Jo (François Joseph Cullioli), Jo (Joseph Ebrard) e Hamza (Hamza Mezziani) - entrano nella villa di cui è custode il padre di Aziz. Il branco si divide, i più fragili come François-Jo si isolano tra bevute e bravate, ci si contende l'unica ragazza presente, Maryne (Maryne Cayon), e si sfrutta il lusso di altri fino alla deriva dell'eccesso di alcol e del furto – portano via un vecchio stereo e due fucili da collezione. 
In una società “normale” il (mis)fatto sarebbe stato denunciato alla polizia; in quella degli “apaches”, invece, i ricchi proprietari parigini scelgono di rivolgersi a un boss locale ed è questa caccia al ladro ad innescare le evoluzioni all'interno del branco umano. Con la giusta distanza, de Peretti ci mostra un gruppo di giovani aggregatosi per circostanza, accomunati dall'ennui e dalla frustrazione della loro condizione di vita. Aziz, François-Jo, Jo e Hamza non conoscono la lealtà in amicizia, ma solo la legge della sopravvivenza, per cui anche tra di loro scatta una caccia, quella al capro espiatorio. 
Con un occhio sempre rivolto ai generi di riferimento, de Peretti mette in scena l'opposizione esistente sul piano sociale ed economico tra chi abita temporaneamente la città e chi la vive. La costruzione drammaturgica (realizzata a quattro mani con Benjamin Baroche) crea un climax che arriva come un fulmine a ciel sereno nonostante il ritmo perda un po' di terreno nella parte centrale e ci siano elementi premonitori che qualcosa accadrà, perché basta tener conto della natura (dis)umana dei ragazzi. In Apache non ci sono tanti dialoghi, le parole sono spesso frecciate sullo status e sulla nazionalità («Resta nel tuo quartiere! Hai il kebab, la moschea e tutto il resto»), si lascia tempo e spazio allo spettatore per ambientarsi e immergersi in quell'atmosfera. Lo stesso titolo oltre a farci pensare istintivamente alle tribù indiane (e al western), fa riferimento al modo in cui il capo della polizia chiamava i fuorilegge a Belville e al contempo rievoca il concetto di territorio. 
Partendo in primis dal paesaggio, de Peretti prova a scardinare tutti i luoghi comuni utilizzando il formato quadrato (4/3) - così da cancellare dai nostri occhi le panoramiche da cartolina – e linee guida quali il piano-sequenza e il fuori campo, lì dove quest'ultimo assume una funzione determinante per l'urto emotivo e di pancia che può avere sullo spettatore.
Dietro l'acqua color smeraldo si cela una fauna umana, dietro le spiagge paradisiache possono esserci le paludi e questo de Peretti lo sa, ne ha consapevolezza e ce la restituisce. Quello che colpisce è il modo in cui il film fa memoria di ciò che è accaduto realmente anni fa in quei luoghi senza riprodurlo, senza scadere nella docu-fiction. È come se il cinema diventasse la terapia per superare il dramma che fu e gli interpreti dei protagonisti, scelti non tra attori professionisti, sono bravissimi nell'incarnare le ombre dei giovani, quel mix di impulsi primordiali e premeditazione da cui nasce l'inquietudine profonda che si legge sui volti e nelle loro azioni.
Dopo aver raggiunto il climax, quel filo elettrico che attraversa il lungometraggio scarica la tensione nel finale; nel corso di Apache percepiamo questa carica sotterranea costante (pronta a scoppiare) nonostante, qualche volta, il paesaggio prevalga sull'uomo e alcune soluzioni conclusive arrivino senza un'esplicita riflessione dell'individuo, serviteci come dato di fatto. 
Messe da parte alcune imperfezioni di scrittura, in forma ciclica de Peretti ci riporta dove tutto era cominciato, chiamandoci direttamente in causa e non trattandoci come meri spettatori; la sequenza conclusiva di sguardi in macchina ci inchioda completamente, rifuggendo il moralismo. 
Concludiamo sottolineando la scelta della Kitchenfilm, che ha voluto far uscire il film in lingua originale – sottotitolato – proprio il 14 agosto, in contemporanea con gli altri Paesi. Una data non casuale, visto che la «notte del destino» (chi vedrà il film lo scoprirà) coincide proprio con la notte di Ferragosto.

Maria Lucia Tangorra

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Les Apaches
Regia: Thierry de Peretti
Attori: Aziz El Hadachi, François-Joseph Cullioli, Hamza Mezziani, Maryne Cayon, Joseph-Marie Ebrard
Fotografia: Hélène Louvart
Musiche: Cheveu
Costumi: Mati Diop
Sceneggiatura: Benjamin Baroche, Thierry de Peretti
Anno: 2013
Durata: 82'

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