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AUTOPSY (THE AUTOPSY OF JANE DOE) - Ogni corpo nasconde un segreto

11/3/2017

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​Grantham, Virginia. Il medico legale Tommy Tilden (Brian Cox) opera nell'obitorio del luogo, una cittadina di periferia, assistito dal figlio Austin (Emile Hirsch) e dal vecchio gatto Stanley. Da tre generazioni i Tilden eseguono autopsie in caso di decessi sospetti. Quando la polizia locale rinviene il corpo di una ragazza in una cantina, lo sceriffo Sheldon (Michael McEllhatton) porta il cadavere in camera mortuaria e chiede a Tommy di determinare le cause della morte entro la mattina del giorno successivo. La donna non ha documenti e le sue impronte non sono rintracciabili nei data base delle forze dell'ordine. Inoltre il ritrovamento è avvenuto nel seminterrato di un'abitazione dove due persone sono state massacrate e uccise. Lo sceriffo ha fretta di venire a capo dell'omicidio e dunque il coroner dovrà eseguire l'autopsia durante la nottata. 
Austin, che sta per uscire con la fidanzata Emma (Ophelia Lovibond), decide all'ultimo momento di rimanere con il padre per dargli una mano. Sin da subito il medico legale riscontra alcune incongruenze poiché il corpo non presenta alcun segno di rigor mortis e gli occhi sono di color grigio opaco, peculiarità contrastanti al fine di stabilire la data del decesso. Nonostante le numerose fratture a polsi e caviglie, non si evidenziato all'esterno lividi e traumi. La lingua è stata recisa, dalla cavità orale viene estratta una fibra tessile, dal naso spunta una mosca e, come se non bastasse, Tilden senior sostiene che il terreno incrostato sotto le unghie sembra torba, combustibile fossile caratteristico di zone situate ben più a nord. E il peggio deve ancora accadere. 
Quando il coroner seziona il corpo, ne fuoriesce un copioso flutto di sangue mentre la radio cambia stazione di propria iniziativa. Gli organi interni della donna sono orribilmente danneggiati e, nel corso dell'autopsia, emergono nuovi particolari raccapriccianti. Continuano intanto a manifestarsi fenomeni inquietanti nonché inspiegabili a rigor di logica. I Tilden comprendono di essere in reale pericolo, perché il cadavere, qualsiasi cosa esso sia, forse non è del tutto senza vita. Padre e figlio decidono di procedere comunque con l'esame autoptico, unica strada percorribile per spiegare il mistero che avvolge la sconosciuta, anche se un annuncio radiofonico parla di una violento temporale in arrivo. 
Impossibile proseguire oltre senza rivelare ulteriori colpi di scena, sottraendo così allo spettatore l'ebbrezza di un sano spavento. Basterà anticipare al pubblico che si avrà a che fare con processi alle streghe, citazioni bibliche, campanellini e una tempesta imminente.

Autopsy (The Autopsy of Jane Doe) è il secondo film (il primo in lingua inglese) del norvegese André Øvredal, già autore del promettente mockumentary Troll Hunter. Jane Doe è il termine gergale che si utilizza per indicare una persona di sesso femminile la cui identità rimane sconosciuta (a tal proposito risulta quanto mai inspiegabile la scelta di far uscire il film nelle sale italiane con il titolo Autopsy, in inglese peraltro, stravolgendone il senso originale). 
Øvredal realizza un discreto horror senza ricorrere a sensazionali effetti speciali. Inoltre, anche nelle scene il cui il sangue non può non scorrere, come durante il sezionamento del corpo, non si sconfina mai nello splatter. Se The Autopspy of Jane Doe riesce dunque a creare una buona dose di suspense lo deve al fatto che l'intera trama si sviluppa quasi esclusivamente in un ambiente chiuso, con due soli protagonisti più un cadavere (la bellissima e immobile Olwen Kelly). È grazie all'atmosfera claustrofobica dell'obitorio, con una sala operatoria dal grigio metallico e con lunghi corridoi bui, ricoperti di legno scuro, dove da uno specchio posizionato in alto su di una parete si intravvedono oscure presenze, che si percepisce un clima da catastrofe imminente (e, a sentire il bollettino meteorologico, una minaccia incombe anche dall'esterno). Nondimeno, le battute e gli aneddoti di Tilden senior disseminati nel corso della narrazione contribuiscono a tenere alta la tensione. Ad esempio racconta a Emma di legare un campanellino attorno all'alluce dei defunti in memoria dei tempi andati, quando questo espediente serviva per sincerarsi che i cadaveri fossero effettivamente tali, oppure sentenzia: “ogni corpo ha un segreto, alcuni lo nascondono soltanto meglio degli altri.”
Purtroppo, ed è un peccato, la seconda parte della vicenda non sta al passo con la prima e si perde del tutto nel finale, piuttosto banale e prevedibile. Le carte in regola per girare un ottimo horror non mancavano di sicuro a Øvredal, però, e spiace dirlo, l'esito definitivo ha più il sapore di un'occasione sprecata. In ogni caso, se Stephen King ha speso buone parole per The Autopsy of Jane Doe,  il film qualche merito lo dovrà pur avere. 

Una curiosità: Brian Cox ha interpretato il primo Hannibal Lecter della storia del cinema in Manhunter di Michael Mann (1986). 

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica 

Titolo originale: The Autopsy of Jane Doe
Anno: 2016
Regia: André Øvredal
Sceneggiatura: Ian Goldberg Richard Naing.
Fotografia: Romain Osin
Montaggio: Patrick Larsgaard, Peter Gvozdas.
Musica: Danny Bensi, Saunder Jurriaans.
Durata: 86'
Attori: Emile Hirsch, Brian Cox, Ophelia Lovibond, Michael McEllhatton, Olwen Kelly, Parker Sawyers, Jane Perry
Uscita italiana: 8 marzo 2017

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SILENCE - Fenomenologia di una Fede

6/3/2017

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​Silence è il più grosso flop di tutta la carriera scorsesiana. Un film tenuto nel cassetto per decenni, oggetto di diatribe produttive, realizzato e rilasciato nelle sale nel gennaio 2017 con un lavoro di marketing pessimo, al punto che è probabile che il film non sia stato visto del tutto, piuttosto che giudicato male e abbandonato dietro a un passaparola. Eppure, Silence è, ancora una volta, un lavoro profondamente in linea con il suo autore, l’ennesimo esempio di infinita maestria e consapevolezza del mezzo; un’opera già testamentaria, foss’anche esplicitamente per il suo contenuto, summa di una vera e propria fissazione psicologica che Scorsese ha bisogno di approcciare in un continuo tentativo di svisceramento. 
​
Il film prende le mosse da una quest ben precisa, prima ancora che padre Rodrigues e padre Garupe, due gesuiti portoghesi del XVII° sec., abbiano il tempo di fare le dovute presentazioni, quasi entrambi esistessero solo in virtù della loro chiamata alle armi. L’indagine è quella volta a rintracciare padre Ferreira, colui che inverosimilmente sembra essersi piegato alle torture giapponesi facendo atto di abiura, ovvero rinnegando il dio cristiano in favore di una nuova dottrina.
​Ed è così, dunque, che Martin Scorsese si muove nella personale esplorazione di una vita, ancora una volta rintracciando – mai in maniera così radicale – le figure bibliche in quelle umane, sondando ogni tipo di approccio alla fede (e il suo punto di vista non può che essere cattolico, quello della religione che conosce meglio). Tra Kichijiro, giapponese convertito al cattolicesimo, nonché colui che tradisce ripetutamene il padre, ma che in fondo non è altro che il cristiano ”prototipo”, che pecca e ricerca la confessione come atto di rinnovata depurazione;  padre Garupe e Mokichi, entrambi esempi virtuosi di un fondamentalismo che è in grado di affermare l’istituzione e le sue norme e di sacrificarsi ad esse (autorizzando, così, la morte di un mucchio di fedeli clandestini); padre Ferreira, colui che ha compiuto il primo passo, cominciando una vita da buddista (cristiano) al di fuori della chiesa; l’Inquisitore e i vertici giapponesi, divisi tra arte affabulatoria orale e vessazioni coercitive che abbiano il fine dell’apostasia, a loro modo portatori di una verità sulla fede che sanno potersi esercitare al di fuori dell’atto del tutto formale dell’abiura. 
Ma Silence è prima di tutto una (altra) disquisizione, atea se vogliamo, sulla forma caparbia di un solipsismo cieco che va manifestandosi nello spirito di un padre gesuita che perde il proprio Dio e letteralmente allucina di esser egli stesso Icona, Signore, Divinità. Il suo è un delirio egotico che non solo è esempio di un malfunzionamento del proprio rapporto con il divino (un unico Dio a cui è impossibile avvicinarsi, che necessariamente dev’essere Altro, potendosi giammai incarnare generando forme di culto della persona), ma simbolo della modalità ecclesiale cristiana che, attraverso il sacerdozio, presuppone che si possano di Dio fare le veci. Dimentichi, nel frattempo, dell’irripetibilità e della qualità materica dell’immagine sacra, che altro non è che, appunto, mera immagine. Di effigi, infatti, Silence è colmo, a esercitare un potere omogeneo di immagine nell’immagine, a cadenzare un ritmo placido eppure paradossalmente avvincente, laddove la narrazione procede senza alcun guizzo drammatico, in una postura kurosawaiana dotata di incredibile avvolgenza. 

​D’altronde, Rodrigues non abbandonerà mai il suo Dio e nemmeno la sua rappresentazione, ma si riscopre suo figlio, a lui vicino e devoto, nel momento del ripudio, quando, egli come altri, cede all’atto convenzionale della mattonella calpestata, lì dove con l’enfatizzazione stilistica di un ralenti eclatante Rodrigues ritrova la voce della divinità. Qui sta tutto l’ereticità della voce scorsesiana, quella eclissata dalla chiusa che vede Rodrigues unito all’icona anche nella morte: forse è soltanto possibile una vera comunione con il proprio Dio al di fuori della prassi di una religiosità mondana, istituzionalizzata? Perché, allo stesso tempo, l’eroe di Silence spartisce con i suoi colleghi precedenti una sostanziale naïveté nel non volersi arrendere al proprio destino, rifiutandosi di vedere prima ancora che di imparare. 
Il ricongiungimento finale al crocifisso cristiano è, quindi, parto di un’ambiguità di fondo che vede il padre gesuita abbandonare la fede ufficialmente, nel passaggio da istituzione a ossessione, fino allo spirito – cioè alla sua forma mistica. Eppure, stretto tra le sue mani, nella capsula tombale, un'altra croce, un altro simbolo: un ritorno, un attaccamento al materico. L’epilogo scorsesiano sarebbe, al primo impatto, un raccoglimento romantico e fin troppo esplicito se non fosse preceduto da una parabola esistenziale e religiosa del tutto anti-retorica. 
Ma Silence è un’opera fortissima anche, e soprattutto, per le sue innegabili qualità cinematografiche, nella sapiente coniugazione di molteplici sfumature all’interno di un lasso di durata sostanzioso, mai gravante e tedioso. Scorsese non rinuncia nemmeno al nervosismo della sua mdp, amalgamandola egregiamente all’austerità di un lavoro ancora una volta teso tra americano ed europeo, in una crasi di linguaggio e contenuto in grado di dare intelligibilità (ma mai elementarità) a una materia dal carattere introverso ed imperscrutabile come quella che fin da Mean Streets lo accompagna. 
Quali sono le forme distinguibili del vero, del falso, del credente e del creduto? Quali le forme del sacrificio, della trasgressione, della fede e quindi dell’interiorità umana? Scorsese non ha mai pretese di univocità. Jordan Belfort (The Wolf of Wall Street) non era altro che la forma più contemporanea e volgare, priva di ogni etica, dell’individualismo di padre Rodrigues. La sua fede è impugnata in una penna-simulacro. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Jay Cocks, Martin Scorsese
Interpreti: Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Tadanobu Asano, Ciarán Hinds, Shin'ya Tsukamoto, Yoshi Oida
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musiche: Kathryn Kluge, Kim Allen Kluge
Anno: 2016
Durata: 161’
Uscita italiana: 12 gennaio 2017

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SPARROWS (PASSERI) - Il canto della sconfitta

3/3/2017

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Ari è un giovane ragazzo di sedici anni, suo malgrado costretto ad abbandonare il suo nido d’infanzia, Reykjavik, a causa della partenza della madre verso l’Africa, accompagnata dal nuovo compagno danese. Il giovane si ritrova così costretto ad andare a vivere col padre e con la nonna in uno sperduto villaggio nel nord dell’Islanda: un “buco” in cui tutto è uguale a se stesso e la quotidianità sfugge grazie all’abuso di alcool.
Il canto di Ari, splendido e incantevole, su cui si apre il film del regista islandese Rúnar Rúnarsson, è un simbolo di candore, dal quale l’opera si discosta gradualmente per mostrare le difficoltà che la vita porta ad esperire, un gioco in cui bianchi e neri, bello e brutto, buono e cattivo non esistono, e le cui sfumature costringono Ari ad accettare i propri tormenti.
L’universo di Passeri è sicuramente grigio e triste: a questo proposito il cineasta afferma che «bisogna rendersi conto che ci sono degli ostacoli da superare nel corso della vita, che è inevitabile dover affrontare piccoli e grandi drammi. Ma bisogna evidenziare le cose belle. E se nel mio film ci sono uno o due eventi che possono essere scioccanti, la mia intenzione non è quella di impressionare gratuitamente, ma di far provare la bellezza che ne segue. È un errore lasciar pensare allo spettatore che tutto è bello e luminoso come succede nelle produzioni hollywoodiane o che la vita è un inferno senza speranze come in alcuni film d’essai. Nessuna delle due opzioni è corretta, perché nella vita, quando si cade, ci si rialza e il sole splende di nuovo. C’è sempre speranza, non bisogna mai perderla».
L’imbruttimento di giovani e adulti a cui Ari è “invitato” ad assistere è certo inevitabile ma non innocente; ognuno è a suo modo chiamato alle proprie responsabilità e puntualmente fallisce. Esempio lampante è proprio il padre di Ari che negli ultimi sei anni ha sempre dimenticato i compleanni del figlio a causa della sua dipendenza dall’alcool, ingigantita, probabilmente, dalla inadeguatezza ad essere una solida figura paterna. Eppure le due generazioni messe a confronto – l’occasione è la festa di metà estate a cui il regista dedica uno sguardo spietato – non sono così distanti: birra, donne e rapporti occasionali non sono celebrazione ma strumento di allontanamento dalla routine giornaliera.
Il canto di Ari non è però dimenticato: vi sono episodi di fuga o di commozione (il funerale della povera nonna, ad esempio) in cui a quei pochi spiragli di bellezza è dato brillare.
Il giovane protagonista e il padre sono, nelle maglie della narrazione, due facce della stessa medaglia. Entrambi sono abbandonati dalla stessa donna, madre e moglie – sebbene con tempistiche assai diverse – ed entrambi cercano un equilibrio che appare impossibile.
L’opera filmica di Rúnar Rúnarsson, premiata in numerosi festival nel mondo e ora distribuita anche nei cinema italiani grazie a Lab 80, ha il pregio di essere un solidissimo coming of age che si colloca nel panorama di quel cinema nordico capace di affrontare piccole situazioni e di renderle meravigliose. Il pallore della fotografia – caratteristica e “fenomeno” del cinema scandivano tutto – illumina e non sbiadisce le forme e le figure che compongo le inquadrature: esse risplendono assieme ai colori intensi delle emozioni e delle sventure dei protagonisti.
Passeri è in sostanza il perfetto “film medio” proveniente da quella Scandinavia “allargata” che  con costanza e generosità dona ai propri spettatori vicende tragicamente umane. E quella di Ari ne è la rappresentazione ideale: prova ne è il sacrificio finale, atto a conservare, per quanto possibile, l’aura virginale della amata Lara. 

Emanuel Carlo Micali

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Þrestir
Regia: Rúnar Rúnarsson
Sceneggiatura: Rúnar Rúnarsson
Fotografia: Sophia Olsson
Montaggio: Jacob Schulsinger
Musica: Kjartan Sveinsson
Durata: 99’
Uscita italiana: 2 marzo 2017
Attori principali: Atli Óskar Fjalarsson, Ingvar E. Sigurðsson, Rakel Björk Björnsdóttir, Rade Serbedzija

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