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NOW YOU SEE ME – Il trucco c’è e si vede

14/7/2013

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Now You See Me parte da un’idea che è una curiosa commistione: e se i maghi si servissero delle loro abilità per sottrarre soldi alle banche e restituirli a tutti? A gente che ha perso casa, che versa in situazioni difficili, che in condizioni normali non riuscirebbe mai ad appropriarsi di tutto quel denaro in una volta? Novelli Robin Hood specializzati a seconda delle differenti vocazioni (un mago delle carte, un ipnotista, un’escapologa e una specie di street magician), si muovono spinti da motivi d’ispirazione anarchica realizzando tranelli su scala globale, con l’Interpol e l’FBI a tentare di far sentire loro il fiato sul collo.
La motivazione, però, nell’era della secolarizzazione delle ideologie autentiche e appassionate, non può che essere l’ultimo dei motori scatenanti: i prestigiosi scudieri del crimine di Louis Leterrier sono infatti prezzolati per conto del ricco artigiano Michael Caine e non si sottraggono dal far emergere la matrice mercenaria di ciò che portano a compimento. Negli anni della grande crisi economica che non risparmia nessuno, l’insicurezza collettiva non può d’altronde essere rappresentata al cinema se non attraverso il crollo verticale di ogni credo, anche nell’heist movie. E naturalmente c’è dell’altro: il venir meno delle certezze coincide infatti, in Now You See Me, con un collasso delle coordinate spazio-temporali che non potrebbe trovare raffigurazione migliore dei trucchi di magia, votati per antonomasia ad astrarre le cose chissà dove, a farle sparire, a depistare e ad ingannare. È la diretta rispondenza di un potere economico reso sempre più elitario fino a comportare l’immaterialità odierna dei flussi di denaro, ormai legati ai grafici, non meno misteriosi di certi bluff di un Jesse Eisenberg che ci tiene ad essere “il più abile in ogni stanza”, proprio come avveniva in certe sensazionali scene legali in interni di The Social Network.
Il regista Louis Leterrier, cineasta di bottega che quando ha tra le mani del materiale che non sia aberrante sa bene come confezionare discreti prodotti medi che accontentino sia gli studios che il pubblico (l’ottimo risultato al botteghino americano di questo film ne è la prova), insegue e trova una quadratura ritmica e un baricentro invidiabili. Il suo è infatti blockbuster di puro entertainment estivo, luccicante e ludico quanto basta. Un cinema che nel bene e nel male, nelle forzature così come nei passaggi pretestuosi, riesce comunque a far riscoprire il piacere concreto di un intrattenimento cerebrale che sa bene come mantenere viva l’attenzione dello spettatore. Riuscendo con malizia a fargli credere di essere intelligente e di possedere una mente agile anche laddove - e capita spessissimo - si tratta solo di mera superficie e non c’è nulla da vedere oltre.
Il trucco insomma c’è e si vede anche, a dispetto delle pretenziose tag-line secondo cui più avvicineremmo lo sguardo e meno saremmo in grado di capire. In realtà, a fare le pulci a Now You See Me (cosa assolutamente inutile e gratuita), si intravedono anche le crepe e le fragilità di un film costruito in provetta in ogni sua componente, dal casting al taglio generale che strizza l’occhio a Steven Soderbergh e ai vari Ocean’s con l’intenzione di fornirne una versione più politica (paroloni) e sintonizzata sull’attualità. Non fatevi dunque ingannare dalla presenza emblematica di Michael Caine: il film di Leterrier ovviamente non è The Prestige e neanche The Illusionist e anche solo un accenno a qualsivoglia accostamento, specie col primo dei due film appena citati, risulterebbe a dir poco bislacco.
Semmai a Now You See Me, che si concede sequenze di reality show che sembrano rubate a un incrocio tra gli Hunger Games e una pubblicità di Christian Dior, andrebbe riconosciuto il merito - si stabilisca fino a che punto riduttivo - di aver saputo temperare l’ambizione dentro un film forse più compito e sorvegliato di svariati prodotti analoghi, ma in fin dei conti apprezzabile nella messa in campo non troppo presuntuosa di certe dinamiche, altrove ben più manipolate e irritanti. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Louis Leterrier
Sceneggiatura: Ed Solomon, Boaz Yakin & Edward Ricourt                                           
Fotografia: Larry Fong                                                                                                      
Montaggio: Robert Leighton, Vincent Tabaillon                                                                  
Scenografia: Peter Wenham  
Anno: 2013
Durata: 116’
Interpreti: Jesse Eisenberg, Mark Ruffalo, Woody Harrelson, Mélanie Laurent, Isla Fisher, Dave Franco, Michael Caine, Morgan Freeman

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PACIFIC RIM - Un cuore analogico sotto il metallo

13/7/2013

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Si riparte da Hellboy – The Golden Army, e non poteva essere altrimenti. Un film che, oltre a essere uno dei migliori adattamenti di un fumetto (anche e soprattutto in virtù di non esserne la trasposizione letterale), fu la dimostrazione di uno straordinario talento messo in campo da Guillermo Del Toro. Talento che, ad essere sinceri, fino a quel momento era più che lecito mettere in dubbio: opinione personalissima di chi scrive, ma le ambizioni autoriali del regista messicano mal si sposavano con i risultati compiuti dei suoi film più impegnati e celebrati, ovvero il dittico sulla guerra civile spagnola formato da La spina del diavolo e Il labirinto del fauno. 
Con Hellboy – The Golden Army invece è come se il cinema di Del Toro si fosse finalmente liberato di un pesante fardello, proclamando il suo autore per quello che oggi ci appare a tutti gli effetti: un regista di immaginari. E dopo alcuni progetti inseguiti e poi abbandonati (Lo Hobbit, Le montagne della follia), Pacific Rim arriva ora a sancire definitivamente la prosecuzione di questo percorso, attraverso un (ri)pensare il cinema fantastico come al luogo di incontro ideale tra molteplici elementi della cultura popolare. Tra immaginari, appunto.
Sulle influenze della pellicola è già stato detto e scritto in abbondanza, sin dalla comparsa in rete del primo trailer: gli appassionati di anime e manga non incontreranno difficoltà a riconoscere i numerosissimi omaggi inseriti all’interno del film, da Go Nagai alla saga di Gundam passando per Neon Genesis Evangelion, così come i conoscitori dei Kaiju- Eiga andranno sicuramente in visibilio per quanto riguarda le creature aliene provenienti dagli abissi. Tutto vero, indubbiamente. Ma il gioco delle citazioni è davvero l’aspetto meno interessante di Pacific Rim, perché ridurre il lavoro di Del Toro al semplice omaggio di uno spettatore appassionato significherebbe perdere di vista la portata globale dell’intero progetto. Progetto che è invece un’operazione di sincretismo culturale perfettamente coerente con quanto iniziato nel 2008 con il già citato The Golden Army: se là i riferimenti riguardavano prevalentemente la narrativa fantastica (da Michael Moorcock a Lovecraft, senza dimenticare il più recente Clive Barker), l’universo qui coinvolto è addirittura più vasto, un metatesto ricchissimo in grado di spaziare dal mondo occidentale a quello orientale.
La citazione, o omaggio che dir si voglia, non rimane mai tale: al contrario, si trasforma ed evolve in motore narrativo, proiettando continuamente il film verso nuovi spunti e nuove mete. Ciò che colpisce maggiormente è la capacità di trasfigurare il racconto in mitologia, al punto che, davvero, non si può che dar ragione a chi ha azzardato analogie con la saga di Star Wars. Come accade nell’universo Lucasiano, infatti, anche Pacific Rim è un grande conglomerato di storie e uomini, piccoli tasselli che vanno a comporre un disegno ben più complesso. Si parte in medias res, e ci si ritrova subito catapultati in un grande romanzo fantastico del quale il film sembra una sorta di controcampo, tanti e tali sono gli aspetti presenti. Come se il cinema non bastasse più, come se la vita (per quanto irreale, fantascientifica, fantastica) manifestasse tutta la propria insofferenza nell’essere racchiusa in due ore di durata.
Ecco, è proprio di questo che avevamo bisogno: di un cinema fantastico ancora in grado di ripristinare la meraviglia primigenia del racconto, attraverso una cura e una qualità di scrittura che è sempre più raro trovare nei prodotti mainstream odierni. Un cinema che non per questo rinuncia alla propria visionarietà, anzi: ma lo sguardo meravigliosamente classico e pacato di Del Toro - a partire dal rifiuto del cinemascope - non cerca mai lo stordimento o il superamento dei confini del visibile (qualsiasi paragone con Michael Bay e i suoi Transformers è quindi assolutamente fuori luogo), riuscendo sempre a contenere le dimensioni titaniche delle sue creature all’interno dell’inquadratura.
Un blockbuster dal cuore analogico, dove la componente umana è sempre in primo piano, e mai relegata sullo sfondo: dalla “connessione neurale” tra i piloti, necessaria per gestire il movimento degli immensi robot da combattimento, fino alla sinergia totale che si instaura tra tutti i paesi del pianeta dinanzi alla minaccia aliena; nonostante le apparenze titaniche, Pacific Rim è quindi innanzitutto un film costruito ad altezza uomo, e per l’uomo. Dove le relazioni interpersonali, le cui dinamiche occupano l’intera parte centrale del racconto, sono il fulcro di una visione del mondo in cui da soli non si è nessuno, e insieme si diventa famiglia.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Guillermo Del Toro
Sceneggiatura: Guillermo Del Toro e Travis Beacham
Montaggio: Peter Amundson, John Gilroy
Musiche: Ramin Djawadi
Fotografia: Guillermo Navarro
Anno: 2013
Durata: 131’
Uscita Italiana: 11/07/2013
Interpreti: Charlie Hunnam, Idris Elba, Rinko Kikuchi, Charlie Day, Ron Perlman

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TO THE WONDER - Niente merveille

12/7/2013

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L’incanto e la caduta, dagli altari alle polveri: è un fallimento napoleonico l’ultimo film di Terrence Malick, a un anno di distanza da The Tree of Life, capolavoro celestiale che spalancava le porte della percezione e non aveva paura a sobbarcarsi la vertigine sconfinata di cosmologie sublimi e di una ricercata poesia del dolore familiare, di echi panteisti e di un afflato così confinante col divino da dare l’impressione di poter abbracciare tutto l’amore del mondo a noi conosciuto.
Ecco, dinanzi a To the Wonder occorre dimenticarsi di tutto quell’irripetibile apparato di filosofia e commozione per assistere basiti e impietriti all’involuzione franante di un autore che in questa - si spera - isolata parentesi appare a dir poco irriconoscibile. La bellezza sacrale, misteriosa e intoccabile è diventata un’allitterazione continua e inutilmente enfatica, una mimesi estetica del precedente (capo)lavoro che vorrebbe ma non può, incarcerata nell’aspirazione mortificata e mai raggiunta contenuta nel titolo stesso, to the wonder, verso il miracolo (che non c’è). 
Di fatto To the Wonder, più che costituire un’elegia frammentaria e in miniatura rispetto a quella che era l’epica esiodea del film con Brad Pitt Palma d’Oro a Cannes 2011, si configura come la pessima prova generale del film che ci sarebbe potuto essere ma che non c’è stato. È la cronaca di un fallimento, un’opera-calco allarmante che torna sul “luogo del delitto” di The Tree of Life per ricavarne una versione più esile e intima ma finisce soltanto col costituirne il figlio illegittimo nato prematuro, malato e deforme. Quasi uno scherzo della natura, emanato da un genio che fino a questo momento non si era mai dimostrato capace di girare un film che fosse più di tanto al di sotto dell’eccezionale (in tal senso la sua opera più modesta prima di questo film, The New World, era sintomatico di un manierismo che in questo caso non lascerà scampo a niente e nessuno).
In questa decadenza sregolata, nella quale sembra emergere tutta la fragilità di un uomo reclusosi per anni nel suo cantuccio estraneo al resto del mondo, i gesti disarticolati e liberi come i moti di farfalle da non catturare ma da lasciare scorrazzare liberamente nell’aria estremizzano la pulsione anti-narrativa del film: le immagini, come in Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni, sono asservite alla totale assenza di un proposito narrativo, le mani si sfiorano ma rimangono sospese, gli occhi contemplano ma non affondano mai lo sguardo. La goccia d’acqua ghiacciata non cade mai sul sasso bollente, tutto è amorfo, anonimo, sgusciante dallo sguardo di uno spettatore anestetizzato da uno stile che vorrebbe spacciarsi per generoso ma poi occlude, stringe, si attacca ai corpi oblunghi, si affloscia e sparisce, subissato dalla noia priva di esito, dalla fluvialità scoordinata e involontariamente ridicola di quei flussi di coscienza continui. Si gira a vuoto, ci si rincorre nei corridoi dei supermercati, si sprofonda nella mancanza di un punto d’arrivo che rende vana qualsiasi girandola.
Vi diranno che è un grande film, probabilmente cullati dall’illusione cieca e obbligatoria che ogni immagine che provenga dalla macchina da presa di Terrence Malick debba necessariamente essere degna di un processo accellerato di santificazione. Duole dirlo, ma non è proprio questo il caso. To the Wonder è un film di cicatrici che anziché rimarginarsi continuano a sanguinare, di crepe che non si riducono in alcun modo ma piuttosto si allargano a dismisura a ogni minima scossa o sussulto. È un lavoro che chiederebbe di essere amato pur in tutta la sua campale bruttezza, ma lenirlo in questo modo equivarrebbe a rendergli un pessimo servizio e a lodare stavolta (leggasi: per una volta) immeritatamente il suo autore. E il problema non sono certo l’ovvia legnosità di Ben Affleck, l’astratta incomunicabilità dei personaggi o l’uso massiccio di una voce fuori campo che in questo caso trasforma la meraviglia in un catalogo di banalità. E non sono neanche i troppi momenti ai limiti del pecoreccio finto-spiritualista, tra cui quello che vede protagonista una Romina Mondello alla quale vengono affidate battute del calibro di: “Io sono l’esperimento di me stessa”, “Voglio qualcuno che mi sorprenda” e “Sono un mostro cattivo”.
È piuttosto il sentore di un film tristemente terminale, il segnale esterno di una ferita interna, il simbolo di una sopraggiunta senilità dell’autore che, stando a To the wonder, sembrerebbe coincidere con una sorta di spinta dilettantistica. Attendiamo fiduciosi i prossimi episodi della sua ritrovata, solerte prolificità cinematografica per essere, si spera davvero, prontamente smentiti.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Terrence Malick 
Sceneggiatura: Terrence Malick Fotografia: Emmanuel Lubezki 
Montaggio: A.J. Edwards, Keith Fraase, Shane Hazen, Christopher Roldan, Mark Yoshikawa
Scenografia: Jack Fisk
Anno: 2012
Durata: 112’
Uscita italiana: 04/07/2013
Interpreti: Ben Affleck, Olga Kurylenko, Rachel McAdams, Javier Bardem, Charles Baker, Romina Mondello

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