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SNOWPIERCER - La distopia corre sui binari 

28/2/2014

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Dopo essere stato presentato all’ultima edizione del Festival di Roma dove ha vinto il Mouse d’Argento, il premio della critica online, come miglior film fuori concorso, Snowpiercer arriva finalmente nelle sale italiane. 
Liberamente tratto da Le Transperceneige, graphic novel francese di culto realizzata nel 1984 ma pubblicata solo adesso qui da noi in occasione dell’uscita del film, l’ultimo lavoro di Bong Joon-ho conferma tutto il talento e l’incredibile potenziale che il regista coreano aveva già avuto modo di mettere in mostra nei suoi (quattro) lungometraggi precedenti, a partire dal folgorante Barking Dogs Never Bite, commedia d’esordio folle e nerissima.
Siamo nel 2031 e da 17 anni il pianeta terra sta vivendo una nuova era glaciale, che ha ridotto ai minimi termini il numero della popolazione mondiale. I pochi superstiti si trovano a bordo dello Snowpiercer, un sofisticato e ultra tecnologico treno rompighiaccio che ogni anno percorre l’intera superficie terrestre senza fermarsi mai grazie al suo motore perpetuo. Infinitamente lunga, questa nuova e moderna “arca sferragliante” è dotata al suo interno di ristoranti di lusso, saune, piscine, acquari avveniristici e discoteche. Lo Snowpiercer è stato concepito dal suo demiurgo, il misterioso Wilford, che non abbandona mai la locomotiva, per soddisfare ogni capriccio delle classi sociali più potenti e facoltose, che hanno avuto la fortuna di acquistare un biglietto di prima classe per vivere un’esistenza dorata nei vagoni di testa. Ben diverso lo scenario nella coda del treno, dove si trovano i più poveri, ammassati in vagoni sudici e inospitali, alle prese con fame e miseria e sotto la costante e spietata sorveglianza militare. Esasperati da torti e soprusi e da condizioni di vita intollerabili progettano ora l’ennesima ribellione, dopo quelle scoppiate in passato e represse nel sangue. Stavolta però alla loro guida c’è Curtis, intenzionato a risalire il treno fino al primo vagone perché “chi controlla la locomotiva controlla il mondo”.
Come si può facilmente intuire dalla trama, il film mette in scena una chiara e potente allegoria della nostra società, con i vagoni che riproducono fedelmente le suddivisioni e le diseguaglianze sociali. Anche se Snowpiercer può essere considerato a tutti gli effetti un film di genere, uno science fiction distopico a sfondo post-apocalittico, Bong Joon-ho non nasconde le sue ambizioni nel voler lanciare un forte messaggio politico e una netta condanna dei meccanismi che determinano la nostra scala sociale. Chi conosce la sua filmografia sa bene che il cineasta coreano è da sempre interessato a indagare la natura umana attraverso l’utilizzo e il ricorso ai generi cinematografici più disparati: dal thriller per Memories of Murder, dove partendo da un fatto di cronaca nera degli anni ’80 si può trovare un atto di accusa nei confronti della società coreana, al monster movie per The Host, fino al cupo melodramma di Mother, che pone l’accento sulla condizione politica del suo paese. In tutti i suoi lavori emerge una visione pessimistica dell’animo umano, così come in Snowpiercer, che rappresenta un ulteriore e coerente tassello della sua poetica.
Si tratta del film più costoso della cinematografia sudcoreana (39 milioni di dollari), anche se è da considerarsi una coproduzione internazionale finanziata in parte con capitali francesi e statunitensi, con il coinvolgimento tra gli altri anche del regista Park Chan-wook, che anni addietro acquistò i diritti del fumetto francese su consiglio dello stesso Bong, a sua volta rimasto totalmente stregato e rapito dalla sua lettura. Girato nel 2012 a Praga, in teatri di posa dove sono stati ricostruiti i vagoni del treno posti su speciali e appositi macchinari che ne simulassero il movimento, Snowpiercer ha costituito una vera e propria sfida a livello tecnico per i suoi realizzatori. Nell’ammirarlo sul grande schermo non si può non rimanere stupiti per la fluidità delle riprese realizzate in ambienti stretti e angusti e per l’incredibile mobilità e dinamicità della macchina da presa, capace di immortalare le numerose e concitate scene d’azione in modo assolutamente magistrale e con estrema naturalezza. 
Se la troupe sul set era contraddistinta da maestranze coreane, inglesi, ceche e americane, non risulta certo meno variegato il notevole cast internazionale riunito dalla produzione. Nei panni di Curtis - il leader dei rivoltosi - troviamo Chris Evans, impegnato finalmente in un ruolo a tutto tondo e non privo di ombre, come si scoprirà col passare dei minuti, consigliato a sua volta dal saggio Gilliam (in omaggio al regista di Brazil), interpretato dal britannico John Hurt e supportato dal tecnico esperto in sistemi di sicurezza Namgoong Minsu, impersonato dal versatile e sornione Song Kang-ho, connazionale del regista che lo aveva già diretto in Memories of Murder e The Host. Il resto del cast maschile è completato dai nomi di Jamie Bell e Ed Harris, ma è giusto soffermarsi sulle magnifiche interpretazioni delle attrici coinvolte, che rischiano di mettere in ombra i loro illustri colleghi. Se Octavia Spencer si fa notare nel ruolo di Tanya, madre combattiva ed esplosiva pronta a prender parte a crudi e sanguinari combattimenti all’arma bianca pur di risalire il treno e riabbracciare il figlioletto, a rubare la scena a tutti ci pensa l’istrionica e quasi irriconoscibile Tilda Swinton, imbruttita fino all’inverosimile per impersonare Mason, il braccio destro di Wilford.
Nonostante il mastodontico ed encomiabile impegno produttivo, i limiti del budget, cospicuo ma non paragonabile a quelli faraonici di qualsiasi super produzione hollywoodiana, emergono nelle scene del treno in corsa ripreso dall’esterno e dei paesaggi innevati e desolati interamente realizzati con l’ausilio della CGI, che si dimostra troppo marcata e artefatta, incapace di restituire quel senso di verosimiglianza indispensabile per il coinvolgimento del pubblico. È l'unico neo di un film che porta impresso il marchio di fabbrica del talentuoso regista sudcoreano, ben riconoscibile anche in alcuni siparietti ironici e grotteschi come la spiazzante e orwelliana parentesi musicale del vagone-scuola, una sequenza che basterebbe da sola a giustificare il prezzo del biglietto. Nell’epilogo, teso e concitato, l’autore si prende i suoi rischi mettendo tanta carne al fuoco e dimostrando un amore incondizionato verso la sua creatura, attraverso un finale che lascia intravedere un esile barlume di speranza.
Impreziosito da scenografie splendide e immaginifiche, curate da Ondrej Nekvasil, che mutano e si rinnovano completamente passando da un vagone a un altro, da un livello (da superare) a un altro all’insegna della contaminazione videoludica, Snowpiercer riesce a coniugare impegno e intrattenimento dando vita a un blockbuster d’autore intelligente e audace, lontano anni luce dagli stereotipi e dai facili schematismi del cinema mainstream.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Snowpiercer
Anno: 2013
Regia: Bong Joon-ho
Sceneggiatura: Bong Joon-ho e Kelly Masterson
Fotografia: Hong Kyung-pyo
Musiche: Marco Beltrami
Durata: 125’
Attori principali: Chris Evans, Tilda Swinton, Song Kang-ho, John Hurt, Octavia Spencer, Jamie Bell, Ed Harris

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LONE SURVIVOR - Eroi nell'altrove

20/2/2014

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Un gruppo di marines, di stanza in Afghanistan, si alza al mattino. Sono i leoni e le gazzelle della guerra invisibile, percepita solo tramite la CNN, vissuta solo da chi quella guerra la vive davvero. Hanno un incarico: uccidere un capo talebano.
Ispirato alla storia vera di Marcus Luttrell (interpretato con buon vigore da Mark Wahlberg), e al romanzo da lui scritto sull’azione Red Wings, Lone Survivor, come recita il titolo stesso, non è una storia di attacchi, ma di difesa. Della vita, la propria e dei compagni. Una storia di sopravvivenza e sacrificio, ma anche di solitudine. È la guerra senza ragione, dislocata nei territori dell’altrove.
Lone survivor è perfettamente in linea con l’esplorazione della guerra afgano-irachena fatta da Peter Berg nella sua breve ma interessante filmografia. Laddove The Kingdom rifletteva l’intelligence (si fa per dire) nella Presidenza Bush, e Battleship portava avanti l’elaborazione post 11 settembre dell’altro come minaccia, Lone survivor ci parla di eroismo e fratellanza. Berg recupera anche il cast tecnico e alcune tematiche ricorrenti della sottovalutata serie tv Friday Night Lights: non abbiamo qui solo la spettacolarizzata esaltazione dell’identità di gruppo, ma anche lo stesso direttore della fotografia, Tobias Schliessler, e gli stessi compositori, il gruppo Explosions in the Sky, che insieme a Steve Jablonsky scrivono un tema sommesso e toccante, affatto trionfalistico.
Il racconto di sopravvivenza è un classico del cinema di genere americano; la facile metafora dello yankee perso nelle terre sconosciute e selvagge dello straniero non è cosa nuova. Ne abbiamo avuto un ottimo esempio in Bat 21, con Gene Hackman smarrito nelle paludi vietnamite. L’Afghanistan somiglia sempre di più al Vietnam nell’immaginario collettivo, soprattutto per il senso di spaesamento e di dubbio, nonché di destabilizzazione, insinuatosi nel popolo americano. Anche nel caso di Lone Survivor, come per The Kingdom, il contesto storico e politico è reso ben evidente. I primi minuti ci rendono immediatamente chiaro dove siamo, chi saranno i protagonisti e quale storia si andrà a raccontare. Il film è spicciolo, in questo senso. Non si perde in chiacchiere ma si preoccupa di approfondire motivazioni e psicologia dei personaggi. Sono loro, dopotutto, soggetti e agenti dell’empatia con lo spettatore, causa ed effetto dell’emozione collettiva per un racconto di guerra che vuole attrarre sull’umanità e sul coraggio dell’essere umano in circostanze estreme.
Il modello è Black Hawk Down di Ridley Scott, con la sua struttura episodica e il profondo senso di rispetto per i marines che hanno sacrificato se stessi per un ideale più alto. Eric Bana, che era stato il solitario eroe e collante nel film di Scott, è idealmente promosso a capo della missione strategica, un ponte meta-cinematografico, quasi un cross-over, in cui l’attore esce da uno schermo per entrare in un altro, nello stesso contesto, la stessa situazione, solo elevato al rango di comandante delle operazioni.
Peter Berg non ha la cultura di Ridley Scott e, consapevole dei propri limiti, fa ciò che gli riesce meglio: sviluppa l’azione come metafora narrativa. Per il tramite dei personaggi racconta la tragedia dei militari americani in una terra ostile, segnata, rischiosa. Territorio privilegiato del nemico, il bosco afgano si scatena come natura contraria e ostile e diventa un terzo protagonista, ago della bilancia nel determinare la sorte favorevole o avversa degli americani. È forse questo l’aspetto più interessante del film, ossia l’ingresso nella dimensione della natura che, invasa, sembra animarsi per mostrare la sua bellezza e insieme la sua violenza. Ora sono i rami, ora i tronchi, gli alberi, le rocce. I passi falsi sono di chi non conosce. Il talebano è lo stereotipo del nemico nell’America di oggi, una figura impersonale e anonima che funziona da pretesto per un racconto di coraggio e senso del dovere. Un racconto di fratellanza che cede solo quando l’ambizione lo porta a ragionare in termini apprezzabili ma superficiali sull’idea più religiosa di vicinanza tra i popoli.
L’estetica del videogioco, fatta di esplosioni da fuochi d’artificio, schizzi di sangue espansi a raggiera in fermo immagine, proiettili sibilanti eternamente a bersaglio, buoni e cattivi perfettamente distinti e identificati, viene qui tradotta in film. Ed è vincente. Questa è l’economia attraente e consapevole di un action movie che pesca a piene mani nella retorica gloriosa di Act of Valor ma sa tradurre gli stereotipi in simboli della cultura post-moderna americana. Le facce fresche e popolari dei protagonisti diventeranno ben presto maschere di sangue e di sofferenza, e sui primi piani Berg insiste molto a marcare l’entità del sacrificio.
Nel gruppo di ottimi protagonisti (alcuni totalmente estranei al cinema di guerra, come Ben Foster o Emile Hirsch), si erge Taylor Kitsch, simbolo e feticcio del cinema di Peter Berg. Giocatore ribelle e afflitto dal destino in Friday Night Lights, militare scavezzacollo per Battlefield, in Lone Survivor abbandona le vesti del cattivo ragazzo per farsi baluardo dell’eroismo nella nuova, super-tecnologica, impalpabile guerra americana. Quando risale le rocce verso la luce, chiamando un frammento di divinità al cospetto della fine, Kitsch non è nemmeno più se stesso, né il personaggio che interpreta; è soprattutto l’eroe del rovinoso John Carter from Mars, un fallimento che metaforicamente suggerisce il disastro della missione di guerra, o della guerra stessa.
John Carter cambia abiti ma, nella location da videogame dove il conto delle vittime reali è incalcolabile, sacrifica se stesso al simbolico altare dell’eroismo americano, lanciando un messaggio di soccorso ma anche implorando l’America che manda i suoi figli a morire di tornare a prenderli. Peter Gabriel, mentre scorrono le fotografie degli eroi caduti, interpreta Heroes, culmine della catarsi cinematografica.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Peter Berg
Anno: 2013
Attori: Mark Wahlberg, Taylor Kitsch, Emile Hirsch, Ben Foster, Eric Bana
Sceneggiatura: Peter Berg (dal romanzo Lone Survivor di Patrick Robinson e Marcus Luttrell)
Fotografia: Tobias Schliessler
Musiche: Explosions in the Sky, Steve Jablonsky
Durata: 121'
Uscita italiana: 20 febbraio 2014

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THE MONUMENTS MEN - Nazionalismo e cultura

13/2/2014

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Ispirato a una storia vera e basato sull’omonimo libro scritto da Robert M. Edsel, l’ultima fatica da regista di George Clooney era saltata agli occhi per la scelta di raccontare una storia piuttosto inusuale e sulla carta suggestiva: la ricostruzione dell’operato di un gruppo di militari dell’esercito statunitense decisamente speciale, incaricato di salvaguardare alcune opere d’arte europee non ancora costrette all’oblio dai bombardamenti e dai depredamenti nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Un soggetto stimolante, dinanzi al quale era lecito aspettarsi un’altra opera degna di nota da parte di uno degli esponenti più in vista della Hollywood radical e liberal, uno che finora dietro la macchina da presa non aveva sbagliato quasi nulla (perfino la sciocchezzuola In amore niente regole, se letta come un frizzante omaggio alla slapstick comedy, presentava i suoi tratti di godibilità).
Duole pertanto ritrovarsi davanti a un’operazione di una piattezza totale e in gran parte sconcertante, un esempio malriuscito di cinemino esile che vorrebbe essere classico senza averne né la stoffa né le prerogative. Clooney si mette addosso i baffetti alla Clark Gable e ingaggia una super squadra di attori da affiancare a se stesso, da Bill Murray a John Goodman passando per Bob Balaban e Jean Dujardin. Nessuno di loro, però, riesce a incidere. Il film è infatti zeppo di battutine non del tutto efficaci e intermezzi che lasciano il tempo che trovano, ma soprattutto di una retorica patriottarda bollita e irricevibile. Non un guizzo, né una scelta estetica rilevante o un’inquadratura che non trasudi meccanicità svogliata fin dalla composizione del piano regia, pur tenendo conto del fatto che, come ha detto Bill Murray alla presentazione del film in Italia: “George non ha fatto un film d’arte ma sull’arte”. Quello di Clooney è pero un lavoro che di arte parla poco e male, preoccupandosi solo di sbandierare al mondo la nozione rivoluzionaria secondo la quale anche gli yankee possono avere a cuore la cultura e morire per essa. E allora? Può un’ideuzza così bozzettistica e sempliciotta giustificare un film di quasi due ore?
C’è una scena, in The Monuments Men, in cui il personaggio dello stesso Murray scopre uno spazio sotterraneo enorme e lo rivela accendendo una luce. Nell’inquadratura successiva, ecco troneggiare una delle tante bandiere americane che la pellicola di tanto in tanto si concede (a riprova che è un film solo sbandierato e molto poco scritto e girato, per l’appunto). Quasi un’equazione matematica, verificata con un didascalismo da manuale aritmetico: illuminare un pezzo di storia non così conosciuto per Clooney non ha significato altro che limitarsi a intavolarlo sotto l’egida salvifica degli Stati Uniti d’America, senza preoccuparsi di imbastire intorno un discorso specifico sul problema della conservazione dell’opere nell’immaginario collettivo e nella memoria storica, sulle azioni concrete - anche non spettacolari - di cui c’è bisogno affinché un patrimonio diventi effettivamente bene condiviso attraverso il tempo.
Il suo pare una sorta di film su commissione e da Studio System trapiantato negli anni duemila, venuto male e imballato da uno strambo mestierante, sbagliato e fuori tempo massimo per definizione. Un trattatello nazionalista ed edificante tra buonismo a fiumi e sciatteria dilagante di cui ben poco si sentiva la necessità. Lo sguardo di Clooney pare qui regredito a mille miglia di distanza dagli esiti non di rado interessanti dei suoi film precedenti, come se un intorpidimento generale avesse minato tutte le fasi di sviluppo senza iniettare in nessuna di esse la giusta dose di pressione necessaria a innalzarlo fuori dalle paludi dell’insufficienza piena. C’è il rendez-vous finale col nazista da fumetto, bidimensionale e ovviamente cattivissimo come si conviene a un calligrafico disegnino, la gag stagionata e paleolitica della mina che non si sa se esploderà con protagonista Matt Damon (forse il più sottotono di tutti) e perfino la grandiosa Cate Blanchett appare qui sprecata e fuori fase come non mai, tentando di infondere al suo personaggio una tridimensionalità che il film non merita e rispetto al quale è completamente esterna e immotivata.
A coronare la dèbacle, una colonna sonora di Alexander Desplat che sembra scritta a occhi chiusi e con la mano sinistra, inutilmente enfatica e sovrabbondante, a sottolineare le parate militari e i frangenti che di tutto avrebbero bisogno fuorché di un tappeto sonoro così ingerente. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema
   

Scheda tecnica  

Anno: 2014
Regia: George Clooney
Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov
Fotografia: Phedon Papamichael
Musiche: Alexandre Desplat
Durata: 118’ 
Uscita in Italia: 13 Febbraio 2014
Interpreti principali: George Clooney, Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Jean Dujardin, Bob Balaban, Hugh Bonneville, Cate Blanchett

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ALL IS LOST - When a Man Comes Around

11/2/2014

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Il paragone viene quasi da sé, e non potrebbe essere altrimenti: difficile infatti non accostare All Is Lost a Gravity, ovvero l’altra pellicola del 2013 a mettere in relazione la solitudine del protagonista con il contesto geografico e fisico che lo circonda. Là l’ignoto spazio profondo, qua gli orizzonti sconfinati dell’Oceano Indiano. Ma se Alfonso Cuarón non rinunciava mai a dimostrare un (indubbio) talento tecnico per i piano sequenza e la costruzione di momenti concitati e ad effetto, al contrario J.C. Chandor lavora di sottrazione per eliminare il superfluo. Se Gravity rilanciava continuamente la tensione, a volte persino in maniera forzosa, costringendo la sua protagonista Sandra Bullock a un tour de force alla stregua di un vero e proprio percorso a ostacoli, All Is Lost rifiuta coerentemente la politica della scena madre, dimostrandosi una sorta di blues solitario su un uomo e il suo universo. E null’altro.
Dopo l’esordio con il discreto Margin Call, Chandor stavolta sceglie un approccio completamente diverso: se il titolo precedente era in tutto e per tutto un film di sceneggiatura, scandito freneticamente dai dialoghi dei suoi personaggi (al punto da sembrare quasi una pièce teatrale), questa volta il regista rinuncia alla parola. Fatta eccezione per una lettera-testamento, recitata fuori campo all’inizio del film, All Is Lost è un purissimo esempio di cinema muto. Un personaggio solo, unità di luogo (l’oceano, appunto), utilizzo essenziale – quindi bellissimo – del commento musicale: tanto basta a Chandor per vincere la sua sfida. Persino la trama, se proprio si vuole ragionare in questa direzione, è poco più di un canovaccio ridotto ai minimi termini: un uomo costretto a lottare per la sopravvivenza a bordo della sua piccola nave privata, dapprima alle prese con lo scafo danneggiato da un container, poi con la furia incontrollata della natura che lo confinerà in una scialuppa di salvataggio, in attesa dei soccorsi. Non sapremo mai il suo nome, chi fosse o perché si trovasse da solo in quel contesto.
Tutto qua, eppure All Is Lost è anche, se si vuole, un film d’azione: nel senso primigenio del termine, dal momento che la macchina da presa è costantemente incollata sul protagonista e sui suoi gesti, in una lotta disperata contro tutto ciò che lo circonda. Persino il suo passato è un mistero, un aspetto puramente secondario ai fini dell’insieme, perché Chandor trasforma ogni singola azione in pensiero, in epica (quella vera), trasfigurando le gesta del navigatore solitario in una riflessione dal respiro ampissimo e sconfinato, esattamente come gli orizzonti entro i quali si perde l’immagine.
Una riflessione che assolutamente non può scindere dalla scelta del suo protagonista, qui talmente indispensabile al punto che lo si potrebbe quasi identificare come l’autore “in ombra” del film: Robert Redford. Non più solamente un volto, bensì un testimone. Quindi, un sopravvissuto: alla New Hollywood, a un cinema che non c’è più. Al Tempo. Il Jeremiah Johnson di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, quarant’anni dopo, confinato in una dimensione che non può più appartenergli: perché oggi non è più quell’epoca, quel cinema, quel contesto. E Redford lo sa bene: basterebbe pensare alla sua ultima opera da regista, La regola del silenzio, per capire quanto e in che modo questi due film siano intrinsecamente collegati tra di loro, al punto che entrambi potrebbero benissimo essere intesi come il passaggio di testimone tra una generazione e l’altra. Tra padri e figli, tra i protagonisti di un passato scomodo (i “terroristi” della New Hollywood nel film di Redford) e i destinatari di una verità ottenuta attraverso quelle domande che non dovremmo mai smettere di porci.
Ecco il motivo per cui All Is Lost è commovente fino alle lacrime: perché è l’addio di un Uomo (di un Padre?) che sa che è giunto ormai il momento di farsi da parte, perché questo è l’unico modo per proiettare la propria progenie nel futuro. Una preghiera, come l’amen cantato da Alexander Ebert nella stupenda canzone dei titoli di coda, affinché tutto ciò che è stato non vada perduto. E nella tenacia del suo protagonista, nel suo non volersi arrendere dinanzi all’ineluttabile, in quella meravigliosa semplicità di alcuni gesti apparentemente insignificanti (la scelta degli oggetti da portare con sé dentro la scialuppa, l’ultima rasatura), si nasconde tutto un mondo e il suo insegnamento, attraverso una semplicità, un’immediatezza talmente macroscopica che nessuno può permettersi il lusso di ignorare. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema

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Scheda tecnica  

Titolo originale: All Is Lost
Anno: 2013
Regia: J.C. Chandor
Sceneggiatura: J.C. Chandor
Fotografia: Frank G. DeMarco
Musiche: Alexander Ebert
Durata: 100’
Uscita in Italia: 6 Febbraio 2014
Interpreti principali: Robert Redford

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12 ANNI SCHIAVO - Olocausto americano

7/2/2014

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Solomon Northrop (Chiwetel Eijofor) è un uomo libero che si occupa con dedizione dei propri affari e della famiglia. L’apertura di 12 anni schiavo è un ritratto elegante della buona società americana, così amabilmente integrata tra bianchi e neri, così progressista, così operosa. Si tratta però solo di un inganno. Solomon va una sera in un sofisticato ristorante, e di lì a poche ore è rapito. Rinchiuso. Venduto. Solomon diventa schiavo. Da quel momento, il film è compiuto.
Costretto progressivamente a piegarsi in se stesso e ad accettare la perdita non solo della libertà, ma della dignità di essere umano, Solomon è trascinato in un universo parallelo alla realtà che ha sempre vissuto. È un viaggio all’inferno che conta diversi gironi tra le zone buie della storia americana, fino a un prevedibile ma agognato epilogo.
Questo è il racconto. La schiavitù, nuda e cruda, senza preamboli o poetiche digressioni sull’America e gli americani. Un giorno sei libero. Il giorno dopo sei chiuso in un baule. Perché? Non importa sapere. Steve McQueen adotta la prospettiva dell’uomo libero che smette di possedere la propria vita, un essere umano spogliato perfino della propria natura. Il regista catapulta Solomon in un buco nero dal quale la riemersione sembra non dover avvenire mai. Un dislocamento straziante e traumatico, una discesa progressiva nell’indicibile olocausto americano. 
Steve McQueen non è interessato al film didattico e dà per scontato che tutti sappiano la storia degli schiavi d’America. Si concentra invece sulla vicenda piccola e umana del protagonista, qui elevata a storia collettiva e pertanto enfatizzata. Unica digressione sull’infernale esperienza, che si snoda su un unico registro registico e interpretativo, è la varietà di personaggi che intrecciano il cammino di Salomon: il rampollo sadico (Paul Dano), lo schiavista umano (Benedict Cumberbach), il padrone perverso (Michael Fassbender) con la schiava concupita (Lupita Nyong’o) e la moglie frigida (Sarah Paulson), l’uomo illuminato (Brad Pitt). Tali figure sono così marcatamente definite da diventare archetipi della tradizione culturale, storica e letteraria nonché visiva della stessa schiavitù. 
La Lousiana è il teatro principale della narrazione, campo sterminato di naturale bellezza e paesaggio dell’orrore. Sean Bobbit, direttore della fotografia, e Steve McQueen compiono la scelta di esibire la violenza e rappresentare la degradazione umana attraverso la sopraffazione dell’altro. Nessuna forbice salva lo spettatore dalla frusta, dal sangue, dal rumore secco delle ossa rotte, dal respiro della vita che viene sputata via quando lo schiavo alza la testa. La storia di Solomon è un simbolo, lui è la storia nascosta degli Stati Uniti moderni, che devono sempre rivolgere lo sguardo al passato per capire come andare incontro al futuro.
Le atrocità messe in scena diventano una forma di edificante intrattenimento, scrive Cinema Scope: obiezione legittima. Se mostrare la violenza risulta necessario nell’impianto del film, McQueen tende a puntare su una rappresentazione dell’orrore così puntuale e diligente da arrivare al manierismo. Non c’è compiacimento, ma la mancanza di tensione narrativa si fa sentire, in quanto latitano il senso e l’intenzione più profonda delle azioni e delle motivazioni, in un film che finisce col proporre una – pur toccante - carrellata di immagini sull’abiezione umana.
Trascurando il contenuto per favorire una esasperazione della forma nella cornice storica, McQueen scavalca il didascalico script di John Ridley per arrivare a una illustrazione rigorosa, sanguinosa e pop. Siamo comunque lontani dall’epica postmoderna di Django Unchained; con il capo chino e il senso di colpa assistiamo a una costante serie di vessazioni, soprusi, violenze fisiche e psicologiche. Chiaramente McQueen compara la schiavitù all’Olocausto: il suo obiettivo è trasformare la storia di Solomon in parabola, e il suo occhio british tocca le corde degli americani, sempre in cerca di qualcuno che li metta sul bando degli imputati e quindi portati a premiare 12 anni schiavo come film dell’anno, non si sa se per lavarsi la coscienza o per pura passione.
Siamo di fronte a un prodotto di ottima fattura, ma che di fatto nulla aggiunge alla cinematografia sulla schiavitù. Rimangono invece le interpretazioni di Chiwetel Eijofor (teatrale, controllato, dolente, bravissimo nella gestione dello spazio scenico) e Michael Fassbender, il solo elemento autentico in un affresco storico dal taglio moderno ma anche artefatto. L’attore di Shame torna con McQueen a esplorare la perversione. Calato in un personaggio al limite dello stereotipo del cattivo con la frusta, Fassbender recupera da quel film il tema della sessualità maschile, e disegna il penoso ritratto di un uomo abietto ma anche impotente di fronte alle donne come al potere. Un debole con le mani sporche di sangue, che può solo guardare il suo misero regno scivolare via al disperato richiamo della libertà.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: 12 years a slave
Regia: Steve McQueen
Sceneggiatura: John Ridley, dal romanzo "12 anni schiavo" di Solomon Northrop
Fotografia: Sean Bobbitt
Montaggio: Joe Walker
Durata: 134'
Anno: 2013
Distribuzione italiana: 20 febbraio 2014
Attori: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Lupita Nyong'o, Paul Dano, Benedict Cumberbatch, Brad Pitt, Alfre Woodward, Sarah Paulson

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