ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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IL SALE DELLA TERRA - L'altro pianeta

28/10/2014

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Il sale della terra si potrebbe definire come la traduzione per immagini di ciò che per Wim Wenders rappresenta l'arte, e le sue molteplici possibilità di stabilire legami con le altre arti. Dopo il cinema, la musica, e la danza, l'autore tedesco incontra la fotografia di Sebastiao Salgado, e insieme con il figlio Juliano Ribeiro Salgado i due ricostruiscono le tappe di un percorso che ha reso l'artista brasiliano tra i più importanti testimoni delle atrocità compiute dall'uomo.
«Il fotografo è colui che disegna la vita con luci e ombre» ricorda in apertura Wenders. Il film mostra sin da subito immagini di straordinaria potenza che attraggono a sé lo spettatore e lo coinvolgono direttamente nella rievocazione di un vissuto, come frammenti di realtà che parlano una lingua universale. La visione della Serra Pelada, e i migliaia di uomini che risalgono le pareti dell'immensa miniera d'oro, è la traccia sensibile di una condizione umana e una finestra verso l'altro pianeta.
Le sofferenze che Salgado incontra in Africa, dapprima come economista, conducono l'artista per oltre quarant'anni alla ricerca delle ragioni dietro le atrocità compiute dall'uomo. Dai primi reportage sulle condizioni dei lavoratori in Sahel, alle migrazioni in Etiopia e al genocidio in Rwanda alla fine degli anni novanta, le fotografie di Salgado documentano il dolore inciso nella terra e su corpi e volti di vittime a cui è negata l'esistenza. La voice over di Wim Wenders si affianca al racconto in prima persona di Salgado e le fotografie che scorrono sullo schermo, esaltate dal mezzo cinematografico, fungono da tramite per l'esperienza e collocano l'interlocutore entro i confini di un dialogo diretto con l'artista.
Il pathos che scaturisce dal montaggio delle immagini, sapientemente modulato in crescendo da Wenders, è frutto inoltre di un particolare meccanismo di messa in scena. All'interno di una sala buia, l'autore tedesco posiziona uno schermo tra la cinepresa e Salgado, su cui scorrono le fotografie, e grazie all'utilizzo di uno specchio riflettente si ottiene una sovrapposizione fra volto e immagini, un modo inedito di comunicare un messaggio dettato dalla volontà di adoperare la superficie dello schermo come punto di incontro di due esperienze diverse ma complementari (processo rafforzato dall'uso prevalente di primi piani).
Le esperienze scioccanti catturate dagli scatti di Sebastiao Salgado negli anni trascorsi in Africa spingono il fotografo a fare ritorno nell'azienda agricola di famiglia, dedicandosi con la moglie Léila all'ambizioso progetto di far rinascere la foresta, piantando milioni di alberi, lì dove per anni la terra è rimasta arida e desertica (oggi Instituto Terra). L'opera recente di Salgado, Genesis, è un viaggio alla ricerca di terre e bellezze inesplorate del pianeta e ristabilisce il legame tra l'uomo e la natura, quest'ultima inquadrata nel suo essere metafora della speranza e orizzonte di riflessione sulle disarmonie della società contemporanea.
Nella seconda parte del film, il rapporto tra il piano dell'enunciazione e l'impianto visivo è tale da permettere di trasferire l'emozione a un livello più meditativo e contemplativo, laddove le meraviglie dei colori si sostituiscono alla lucentezza del bianco e nero. Il sale della terra è un film necessario, un omaggio dovuto a un grande artista della fotografia capace di trasmettere una verità autentica al proprio lavoro, sintesi perfetta tra osservazione e partecipazione, conferendo alle immagini un movimento interno in bilico tra meraviglia e terrore.
Wim Wenders torna al cinema con un'opera originale che travalica i canoni del genere e sperimenta forme di narrazione alternative (già espresse in passato ad esempio ne I fratelli Skladanowsky, 1995, film al limite tra documentario e fiction), mosso da un senso di responsabilità dell'artista nella scelta di ciò che sia, attraverso il proprio lavoro, meritevole di rappresentazione; in questo l'opera stessa trova la sua ragion d'essere.

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Salt of the Earth
Anno: 2014
Durata: 110'
Regia: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado
Sceneggiatura: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, David Rosier
Fotografia: Hugo Barbier, Juliano Ribeiro Salgado
Musiche: Laurent Petitgand
Attori principali: Sebastiao Salgado, Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, Léila Wanick Salgado

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THE JUDGE - Le colpe dei figli, le ombre dei padri

27/10/2014

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Si scatena una tempesta in un pomeriggio qualunque, a Indianapolis. Padre e figlio si rincorrono mentre il vento infuria. Il passato incombe sulle loro vite ammaccate e trascina rimorsi, vecchi rancori, paure. 
Il giudice Palmer e suo figlio Hank si affrontano sulla scena da professionisti della dialettica e della ragione prevaricante, ma entrambi hanno aggirato la verità, mancando la sfida degli affetti. Consumati dalle cose non dette per troppo tempo, si trovano nella casa dei ricordi d’infanzia, alla quale il figlio ritorna suo malgrado pur non essendo mai potuto fuggire. I ricordi di una vita, imprigionati in cantina su bobine di pellicola Super 8, sono polverosi, lontani. Restano le ferite non rimarginate. 
Hank Palmer (Robert Downey Jr.) è un avvocato di Chicago, brillante e audace. Ritorna nella città dove è cresciuto in seguito alla morte della madre. Il rapporto con suo padre (Robert Duvall), giudice di indubbia moralità e vecchio alcolista, è distaccato da anni. Estranei l’uno all’altro, i due si ritrovano a collaborare quando il giudice viene accusato di omicidio. Hank tenta di costruire un’efficace strategia difensiva per suo padre, ma deve prima affrontare la sua ostilità. Il processo è anche l'occasione per i due di recuperare del tempo e fare i conti con delle tensioni mai sopite. Il passato erompe insieme a inaspettate verità sul conto del giudice.
The Judge è un film di misura impeccabile, studiato nella scrittura; arriva in fretta al punto e ingozza di emozioni forti. La logica implacabile con cui la regia di Dobkin articola i tempi domestici e le fasi del processo distribuisce senza riserve indizi rivelatori e tensione. Il pregio della sceneggiatura sta nel lavoro di contaminazione tra gli sviluppi di un classico legal thriller e gli intrighi di un altrettanto classica storia dalle dominanti familiari e psicoanalitiche. Le due storie si complicano specularmente fino a sovrapporsi nell’ultima seduta del processo: quando il padre, dal banco dei testimoni, confessa ormai sfinito dalla vita le ragioni della sua rabbia verso l’uomo che è accusato di avere ucciso, il figlio non può più difenderlo. Ma almeno ha incassato una verità definitiva, per quanto dura. Due uomini che in privato non hanno fatto altro che sfuggirsi, sulla scena pubblica della giustizia americana non possono più evitare di ammettere le rispettive colpe. 
Il lavoro sugli ambienti è affidato a Janusz Kaminski, direttore della fotografia di Spielberg dai tempi di Schindler’s List. La casa e il tribunale sono gli scenari di una lotta sfiancante e la luce, le frequenti penombre comprimono gli interni, dentro i quali i personaggi vivono solo quando sono l’uno contro l’altro. I confronti (affronti) tra i protagonisti sono le fondamenta del film: difficile non restare ammirati dai tempi fulminei di Downey jr. e dal carisma di Duvall, tutto giocato in minime variazioni di tono e gesto, che racconta con efficacia quei passaggi bruschi tra luce e ombra propri del temperamento del suo giudice. Duvall, del resto, aveva già reso le pieghe fosche del mestiere interpretando nel ’72 Tom Hagen, figliastro di don Vito Corleone, avvocato e tutore degli interessi di una famiglia che è leggenda cinematografica.
La bandiera americana si staglia su uno stralcio di cielo sereno, vigilando sulla patria. Hank Palmer si ferma a contemplarla, poi entra nell’aula vuota del tribunale. Il figlio si prepara a colmare l’autorità mancata del padre e capisce, varcando le porte dell’aula, di averlo sempre voluto. Un esempio di come efficace (e prevedibile) può essere al cinema il racconto di figli insofferenti ai padri che ambiscono tacitamente a occuparne gli alti ranghi. È una vocazione del cinema americano: rivelare la coscienza collettiva (e occulta) mettendo in scena famiglie problematiche, palcoscenici per colpe e rapporti irrisolti. Storie condotte in crescendo, da cui non è facile distogliersi, tanto denso e feroce è l’intreccio. 
The Judge esibisce tutto, non offre distensioni né spazi per riflettere eppure, a parte quando si invischia nelle vicende sentimentali di Hank (i personaggi femminili, purtroppo, sono abbozzi nemmeno così funzionali), offre una solidità erede dei bei classici. E occorre almeno ricordare che i migliori avvocati raccontati al cinema sono frutto della fantasia americana: Paul Newman ne Il verdetto, Denzel Washington in Philadelphia e, indimenticabile, Gregory Peck ne Il buio oltre la siepe. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Judge 
Anno: 2014 
Durata: 140’ 
Regia: David Dobkin 
Attori: Robert Downey jr., Robert Duvall, Vera Farmiga, Vincent D’Onofrio, Billy  Bob Thornton 
Sceneggiatura: Nick Schenk, Bill Dubuque 
Fotografia: Janusz Kaminski 
Musiche: Thomas Newman 

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IL GIOVANE FAVOLOSO - L'in(de)finito

20/10/2014

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Diretto da Mario Martone (classe ’59), Il giovane favoloso arriva in sala dopo l’anteprima alla 71ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia: una produzione Palomar con Rai Cinema, riconosciuta meritevole di interesse culturale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC).
Ammaliato dal fascino Ottocentesco, Martone ha avuto modo di delinearne le sfumature già nei suoi lavori precedenti: all’Opera con Leoncavallo e Mascagni, al cinema con Noi credevamo e La meditazione di Hayez, in teatro con le Operette morali da due anni in tournée. Oggi, con Il giovane favoloso, torna a mettere mano alla biografia leopardiana creando un biopic certamente non tradizionale: mostra infatti i cambiamenti nella vita del poeta simultaneamente alla crescita del suo pensiero e delle sue opere.
Nonostante la ricostruzione filologica (tratta principalmente dall’epistolario) e una ricostruzione geografica estremamente fedele (Recanati, Macerata, Osimo, Loreto, Firenze, Napoli e ancora Recanati), il Leopardi di Martone assume i tratti di un personaggio inedito, bipolare, continuamente in contraddizione: in lui forza fisica e caratteriale non riescono a coesistere. Da giovane, quando potrebbe in realtà godere del supporto delle sue forze fisiche sebbene già precarie, lo vediamo costretto su una sedia, a subire, non riuscendo a esternare il suo disagio. Crescendo vediamo che con la sua persona maturano anche le sue malattie: si ritrova così senza il sussidio del suo corpo ma sprezzante del giudizio altrui, sfacciato e sincero, forse rassegnato.
Vittima del taedium vitae che lo soffoca e lo rende eternamente insoddisfatto, cresce in un ambiente familiare povero di affetti e in un contesto sociale che si caratterizzava per la sua arretratezza e pigrizia culturale, godendo solo della compagnia dei fratelli. Sogna una vita non solo oltre le mura di casa, ma ben lontano dai confini di Recanati. Lasciando la famiglia però cerca di restaurare quel rapporto ormai perso con i fratelli, sostituendoli con i suoi amici.
Leopardi è sempre in cerca di un qualcosa che lo aiuti a sopperire a quell’eterna infelicità, alla «infinita vanità del tutto» che lo porta a chiudersi in se stesso. Una personalità indefinita, in bilico tra estro e sofferenza, incarnata da un Elio Germano capace di rendere esattamente questo conflitto interiore: sempre più ingobbito, tremolante, in alcuni momenti perfino agonizzante.
Una continua contraddizione rimarcata dalla regia, sicuramente moderna e dinamica, in antitesi con il tempo narrato (l’Ottocento), ma anche dalla coinvolgente colonna sonora costituita da musiche di Sascha Ring (1978) e di Gioacchino Rossini (coevo dello scrittore). I suoni interagiscono con il paesaggio e aiutano lo spettatore a comprendere il vero significato dei pensieri del poeta, il quale mostra attraverso i suoi occhi quell’«amaro e noia» che vive, perché «la felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno».
Un film ideale per gli amanti della letteratura, che possono fruire di poesie recitate e vissute, per chi nel cinema ricerca la tecnica, ma anche per gli amanti della pittura Romantica a olio, che si può riconoscere in molti fotogrammi. 

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica  

Regia: Mario Martone
Sceneggiatura: Mario Martone
Anno: 2014
Attori: Elio Germano, Isabella Ragonese, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Edoardo Natoli, Anna Mouglalis
Fotografia: Renato Berta
Musiche: Sascha Ring, Gioacchino Rossini
Durata: 137'
Uscita italiana: 16 ottobre 2014

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JOE - Il riscatto della condizione umana

12/10/2014

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Gary (Tye Sheridan) è un quindicenne con un padre alcolizzato e violento; è l’ultimo tra gli ultimi, un ragazzino con un’anima candida alla deriva, in un ambiente familiare che ti può solo sporcare. Joe (Nicolas Cage) è il datore di lavoro di Gary. Vive tranquillo tra i boschi, tagliando alberi, asfaltando, facendo il vuoto dentro di sé e attorno a sé. Joe mantiene il controllo della propria vita per evitare di ricadere negli errori del passato, finché prende a cuore la vita e il destino di Gary, l’indifeso, l’Altro da sé che sembra non appartenere a quel luogo, a quella famiglia, a quel presente. Gary, con il suo innato entusiasmo verso la vita, verso la gioia e la speranza nelle piccole cose, potrà dare a Joe un significato per quella esistenza altrimenti buia, priva di motivazioni, boscosa come buia, senza spiragli.
Joe entra nelle sottili dinamiche del rapporto generazionale ma, di più, si sforza di affrontare il tema del rapporto parentale, e, in quello che appare a tutti gli effetti come un racconto di formazione, inserisce da subito l’elemento tragico, lo strappo tra figure paterne: quella biologica, disturbante e orrorifica, e quella acquisita, rivendicata per il valore dei comportamenti che caratterizzano un vero genitore. Ma non è un dogma: Joe si offre a Gary per ricevere in cambio la purezza delle emozioni, la gioia di fare del bene a un altro essere umano. Poi però c’è il passato che torna, che torna sempre, che chiede di pagare pegno. Il passato si chiama Willie (Ronnie Gene Blevins), ha una cicatrice sul viso e puzza di alcool. È una minaccia mentale e fisica, e prima o poi causerà una strage.
Joe è un film indipendente di quelli senza scorciatoie interpretative né narrative. È tutto lì, esposto e descritto in immagini, facce, dialoghi scarni, scene a un tempo poetiche e violente. È la natura di questa opera ruvida e affascinante, così come l’ambientazione che presenta. Il regista David Gordon Green (Undertow) si tiene fuori dalla “comfort zone”, ed esce costantemente dalle sicurezze di scrittura e regia. Per ogni momento in cui si affaccia il sole sulle vite di Gary e di Joe, e sulle persone che ruotano attorno alla loro orbita, segue l’oscurità del dramma imminente, qualcosa che rincorre i protagonisti, quel quid che forse è proprio dentro di loro. Qualcosa cui non possono sfuggire.
In Joe c’è un viaggio nel passato del protagonista che, a ben vedere, è anche un viaggio nella carriera di Nicolas Cage, punto focale del film e colui dal quale dipende l’intera composizione. La pellicola racchiude alcune dei temi ricorrenti nella filmografia dell’attore: la dipendenza dall’alcool, la disperata ricerca della solitudine, come della deriva dalla socialità. Non siamo dalla parti di Via da Las Vegas, ma c’è un filo ideale che si connette con Ben, il personaggio che nel 1995 portò l’Oscar a Nicolas Cage. Come Ben, anche Joe combatte - ma forse nemmeno tanto - contro i propri demoni, mentre scopre il desiderio di investire in un altro essere umano.
L’evoluzione del personaggio è disegnata nei rapporti con gli altri e nella dimensione in cui questi influenzano le sue azioni, ma di più è offerta dalla curva emozionale del suo protagonista. Non è un caso che la regia lo segua e il cast si rapporti a lui stabilendo un efficace legame di interdipendenza. Il giovane Tye Sheridan (The Tree of Life, Mud), tutto istinto e passione, è il contraltare ideale di Nicolas Cage; una interpretazione, la sua, che è stata onorata al Festival di Venezia con l’assegnazione del Premio Mastroianni.
Joe è tagliato su misura per il Nicolas Cage di vent’anni fa, ora riscoperto grazie all’occhio coraggioso di David Gordon Green. Qualcosa accomuna i due, forse la comune ricerca delle proprie origini dopo una serie più o meno lunga di scelte professionali fallimentari. Il Texas tanto caro a Green è descritto con autenticità nella rappresentazione e verità nella scelta dei dettagli, complice anche una fotografia (di Tim Orr, abituale collaboratore del regista) che sceglie tutte le tonalità del rosso autunnale, della terra, la sabbia, il blu come una striscia divisoria tra la sera e la notte, come se l’intero film fosse ambientato al crepuscolo. Abbiamo una terra bellissima e dura, crudele, abitata come abbandonata dagli ultimi della scala sociale, dai disperati che sopravvivono come possono in una cittadina quasi ai confini del mondo. Questa è solo una parte dell’America rurale, di quell’America che con la politica e i clamori delle metropoli ha veramente poco in comune. Questo è lo specchio dell’America che subisce e si fa anarchica, vivendo a proprio modo e ingaggiando il proprio sistema di vita: azione-reazione, dare-avere, torto-vendetta.
Non siamo dalle parti di Steinbeck, ma qui stanno gli evasi, gli esuli, i lavoratori senza speranza, i solitari, i violenti, gli onesti in cerca della paga del venerdì. Ed è solo il contesto: in Joe, le pur importanti tematiche sociali fanno da sfondo alla toccante storia del riscatto della condizione umana. La parabola avviene attraverso i piccoli gesti e i grandi sacrifici compiuti dagli uomini che erano solo stati scordati dal destino, e il cui valore mai potrà essere dimenticato.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Joe
Regia: David Gordon Green
Attori: Nicolas Cage, Tye Sheridan, Ronnie Gene Blevins
Sceneggiatura: Garry Hawkins, basata sul romanzo di Larry Brown
Fotografia: Tim Orr
Anno: 2013
Durata: 117 minuti

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CLASS ENEMY - Generazioni a confronto

12/10/2014

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«La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive».

Questo, originariamente di Thomas Mann, è il monito che il professor Robert Zupan (Igor Samobor) vuole lasciare alla propria classe. Un insegnamento che potrebbe riassumere una pellicola superficialmente volta a esaurire la sua ragion d’essere proprio qui. Il regista, tuttavia, non si accontenta e vuole andare oltre, costruendo una fitta rete psicologica che non si limita a sottolineare la diversità tra le due categorie sociali costituite da giovani e adulti, ma ritrae anche la differenza che caratterizza ciascun uomo.
Sabina è un’adolescente completamente disorientata, alla disperata ricerca di uno scopo nella vita, di una missione e del significato stesso di avere una missione da compiere. Proprio questo suo senso di smarrimento è quello che Rok Bicek vuole farci avvertire, sin dall’inizio, con continui primi piani in cui risaltano i suoi occhi persi e lucidi, incorniciati da livide occhiaie. Lei apre il film, lo chiude e lo smuove prendendo forse la sua prima vera decisione, che la porta ad abbandonare il suo ruolo di amica, compagna di classe, alunna e figlia: togliersi la vita. Una scelta importante, come cerca di spiegare anche il professore, che non tutti i suoi compagni sarebbero stati in grado di fare e che, come tale, va rispettata.
La sua migliore amica non riesce a parlarne e preferisce il silenzio come cura al suo dolore; gli altri compagni di classe si lasciano trascinare dalla rabbia e cercano, con i loro mezzi, qualcuno da considerare “colpevole”, trovandolo prima nel Sistema che non funziona, poi nel professore di tedesco nel suo ruolo di insegnante freddo e intransigente. «Prima loro temevano noi, oggi noi temiamo loro» confessa la preside a Robert, spiegando come siano cambiate le cose nel secolo corrente.
Questo dissidio tra alunni e insegnante serve a Bicek per dipingere l’evidente incomunicabilità tra le generazioni: giovani e adulti che tendono a scrutarsi con uno sguardo misto di incomprensione e disapprovazione. Gli adulti temono che i nuovi arrivati siano pronti a rovinare e distruggere quell’intima nomalità che hanno faticosamente costruito e preservato, i giovani dal canto loro provano un forte impulso a raddrizzare ciò che i loro attempati predecessori hanno sbagliato e guastato, preoccupati dalla caotica situazione creata dagli adulti. Questo, come innumerevoli altri casi, sta nella soggettività dei giudizi e dei punti di vita. Difficilmente simili controversie si possono risolvere obbiettivamente: non è tutto bianco o nero (come spesso ricordato nel film), ma esistono sfumature cromatiche che ogni occhio percepisce in modo singolare.
Così, mentre gli alunni della quarta A accusano l’incapacità di ascolto del professore, la sua crudeltà, l’aver preso come spunto didattico la morte di una loro compagna e il non aver dato il giusto peso alla tragedia, Robert in realtà cerca di educare i suoi alunni a quella che è l’essenza e la crudeltà della vita. Igor Samobor incarna l’unico personaggio portatore di valori solidi e per questo non viene capito. Del resto è comprensibile se inserito in un contesto in cui professori e genitori devono avere a che fare loro stessi con la propria immaturità e incapacità di educare: se i genitori lasciano liberi i figli non imponendo loro alcuna autorità, non rendono loro neanche un gran servizio per la vita che devono affrontare.
Il Sistema dunque funziona, è freddo e matematico, ma non sempre rispettato: è lì che si genera la falla.
Class Enemy è la prima opera del regista sloveno classe 1985, ed è stata girata interamente in una scuola con attori non professionisti (se non per casi particolari come Samobor, nota star slovena). Autore anche della sceneggiatura, Bicek riesce abilmente a calibrare tutte le inquadrature, rendendole funzionali alla narrazione. Vincitore della Settimana della Critica alla 70ª Mostra di Venezia, il film è stato candidato all'Oscar e allo European Award.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Rok Bicek
Sceneggiatura: Rok Bicek, Nejc Gazvoda, Janez Lapajne
Attori: Igor Samobor, Natasa Barbara Gracner, Tjasa Zeleznik, Masa Derganc
Montaggio: Rok Bicek, Janez Lapajne
Musiche: Frederic Chopin
Durata: 112'
Anno: 2013
Uscita in Italia: 9 ottobre 2014

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PASOLINI - Abel Ferrara, frammenti d'artista

3/10/2014

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Caro Sandro,
non è forse giusto ch'io dica a te cose che riguardano te, e che ti dipingono con tanto amore. Io ho un culto di te. E, come tutti i culti, mi dà il rimorso di non essere così forte e fedele da praticarlo degnamente. Ciò lo dico come se ambedue fossimo morti, e la vita non ci toccasse dunque più con la sua miseria, che giorno per giorno, ora per ora, contraddice ciò che tu sei e ciò che io penso tu sia. È la vita nella sua totalità, come se noi l'avessimo del tutto adempiuta (e di fatto è quasi così) che ora io guardo. (Roma, febbraio 1970, lettera di Pasolini a Sandro Penna da Pier Paolo Pasolini, Vita attraverso le lettere, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1994)

Un cammino a ritroso, iniziando, come in un ossimoro, dalla fine, anche se in fondo “non si muore mai”. Le ultime ore della vita di Pier Paolo, con un occhio che indugia prima sulla sua figura da artista e si ferma, poi, sul Pierruti familiare. Dallo sguardo algido della camera della tv francese a quello materno di donna Susanna (Adriana Asti) e degli amorevoli affetti più prossimi. La lirica si posa su superfici terrene, raggiunge vette pindariche ma resta sempre umana e concreta.
Abel Ferrara va oltre il biopic; si muove su coordinate più profonde, che disegnano il corpus pasoliniano nella sua totalità, seguendo i sentieri impervi di un animo caleidoscopico e ruotando intorno alle mille sfaccettature dell’uomo e dell’artista. Una complessità difficile da incanalare in una forma filmica, compressa in una narrativa che sfiora la figura policromatica e prismatica del Maestro, accarezza l’umano e si eleva oltre, con rispetto e devozione.

"Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere". (Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 1957)

Attraverso una ricerca minuziosa e precisa, le tracce di Pasolini sono ricostruite da Ferrara con estrema attenzione. Il regista sceglie di raccontare la vita invece che la morte, segmenti di un’esistenza condotta tra le mille contraddizioni di un personaggio/persona complesso e contraddittorio, marxista e cattolico in conflitto con lo Stato e con la Chiesa, esploratore dei lati più bui della società e dell’animo umano, ma che usava spesso la parola splendido, come ricorda Mark Cousins. In rapida successione si alternano sullo schermo i corpi nudi e violati nelle scene di Salò, il suo ultimo film, e le parole delle ultime interviste concesse a Philippe Bouvard (Antenne 2 - 31 ottobre 1975) in cui si dichiarava “un militante politico, ora più che mai, pur non essendo mai stato iscritto ad un partito politico”, e Furio Colombo, il giorno prima del ritrovamento del suo cadavere all’idroscalo di Ostia (Siamo tutti in pericolo, La Stampa - 8 novembre del 1975).

“E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire "evidenza". Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è "stare con i deboli". Ma io dico che in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere” (…)

L’osmosi è continua: vita e opera, opera e vita. Ferrara tratteggia la figura di Pasolini con uno sguardo personale, una visione anarchica ma pregna d’amore verso un modello ispiratore della sua cinematografia. Il regista adotta una formula estremamente personale di ritrarre lo scrittore, attraverso frammenti narrativi che si intrecciano tra loro. Cattura gli occhi celati dietro gli occhiali scuri, si spinge oltre quelle lenti e muove verso il palpito delle passioni, protese verso una società violenta che inevitabilmente distrugge i suoi figli più fragili e geniali. Il regista accarezza con dolcezza quella figura, la sfiora, racconta il quotidiano farcito dei suoi oggetti, la sua Alfa Romeo, la lettera 22, i suoi libri, il suo aggirarsi per le periferie romane e il credo politico, perché “ogni cosa è politica, anche il sesso”.
Nel corpo di Willem Dafoe rivive Pasolini, attraverso una struttura nervosa, mascella volitiva e mani gentili, con le dita in tensione continua sulla lettera 22, come una danza. Una trasformazione perfetta, sul campo di pallone, nel quotidiano, tra gli affetti. Dopo 4:44 Last Day on the Earth, Ferrara si affida ancora a Dafoe per una nuova messa in scena sul caos della morte, sulla fine imminente, feroce e violenta.
Ciò che vede Pasolini è ciò che vede lo spettatore: una fusione di sguardi di cui Ferrara è il tramite, in un complicato mosaico di scene e momenti. La mdp indugia sui volti, proprio come amava fare Pasolini, perché gli occhi valgono più di mille parole, e forti emozioni trapelano dai campi medi e dalle immagini ferme nei campi stretti. I visi si elevano a una santificazione profana, dallo sguardo materno in perenne trepidazione, di una intensa Adriana Asti, fino ai ragazzetti di borgata, quei ragazzi di vita rincorsi e pagati per un amore polveroso ai margini delle strade o sulle spiagge desolate.
Lo spazio in cui vive il Pasolini di Ferrara è un luogo sospeso tra la vita, la morte e l’attesa di essa, vivendo appassionatamente e con frenesia. Un non luogo che ospita il fervore delle passioni, i pensieri, le idee e gli affetti, dominato dalla necessità di ardere, tra ferocia e peccato, colpa e redenzione, descritto da un cinema spietato che dà voce all’eccesso, quello di Ferrara come quello di Pasolini.

Il film è come la lingua scritta della realtà (Pier Paolo Pasolini)

Il cineasta italo-americano ritrae con pennellate sapienti la borgata selvaggia nelle notti di sesso e la borghesia malata, attraverso una narrazione frammentaria, in perenne slittamento onirico, in cui il piano reale scivola sulle immagini delle opere pasoliniane, confondendosi nei party insieme al Carlo di Petrolio, riprovevole, ma così vicino a Pier Paolo, o seguendo il viaggio salvifico di Epifanio, ruolo destinato a Eduardo De Filippo (qui interpretato da Ninetto Davoli) per il mai realizzato Porno-Teo-Kolossal.
In questa opera ferrariana l’occhio non è indirizzato verso Pasolini, ma verso l’immagine dello stesso così cara al regista che l’ha raccontata; è un viaggio condotto in primis dallo stesso Ferrara alla ricerca del Suo Pasolini, lavorando per sottrazione e offrendo allo spettatore una visione anarchica e personale, attraverso la cifra stilistica tipicamente ferrariana.
Un’osmosi tra narratore e oggetto della narrazione, realizzata in modo pacato, tenero e affettuoso, con umiltà. “Non potrei mai vivere senza fare film”, dichiara Pasolini/Defoe, in una dialettica filmica in cui confluisce tutto l’amore di Ferrara nei confronti della settima arte e verso colui che considera tra i suoi maestri.

“Non bisogna creare aggiungendo, ma togliendo” (Robert Bresson)

Il regista cerca di condensare la complessa personalità e la poliedrica produzione artistica di Pasolini all’interno dell’angusto recinto filmico, ma inevitabilmente il ritratto dell’artista, realizzato con rapide e secche pennellate, può disorientare sia gli spettatori digiuni dell’Opera pasoliniana, che i suoi cultori.
Il bignami di Ferrara può risultare indigesto ai più ed essere gradito soltanto ai cultori del suo cinema, che probabilmente apprezzeranno e riusciranno a comprendere meglio lo sforzo espressivo compiuto dal cineasta e la sua evidente volontà di raggiungere registri più alti per descrivere un uomo, un artista, verso il quale nutre infinito affetto.
Il Pasolini di Ferrara è uno strappo figurale, una narrazione che sfiora e accarezza l’animo indomito del friulano; parla direttamente al cuore, in uno slittamento progressivo di amorosi intenti, con una messa in scena composta ed elegante, e una dialettica continua in cui alla figura scomoda dell’intellettuale si alterna quella dell’uomo.

“Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati sia un piacere, e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista.” (Pier Paolo Pasolini)

Mariangela Sansone

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Festival Reportage

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Scheda Tecnica

Titolo originale: Pasolini
Anno: 2014
Regia: Abel Ferrara
Sceneggiatura: Abel Ferrara e Maurizio Braucci
Fotografia: Stefano Falivene
Musica: Neil Benezra
Durata: 86 min
Uscita in Italia: 25 settembre 2014
Interpreti principali: Willem Dafoe, Adriana, Asti, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea

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