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IL GRANDE GATSBY – Il romanticismo tonante

18/5/2013

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Baz Luhrmann è senza dubbio il regista contemporaneo che più di ogni altro ha legato al suo nome la fama sfavillante di esteta, di perseguitore accanito del kitsch tonante e dell’immagine barocca e iper-rifinita. La scelta di adattare una delle pietre angolari della letteratura americana e mondiale, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, ha dunque fatto prevedibilmente storcere il naso a molti, scettici su quali potessero essere gli effettivi punti di contatto tra la secchezza perlacea della prosa dell’autore di Tenera è la notte e l’immaginario filmico ormai proverbiale del regista australiano. 
Dubbi e perplessità a dire il vero legittimi ma a sorpresa scongiurati da un film che è molto di più di ciò che le premesse non proprio rosee potessero far presagire. Una versione ben più apprezzabile di quella polverosa e datata sceneggiata da Francis Ford Coppola e interpretata da Robert Redford nel 1974, sulla quale pesava un immobilismo asettico che ne ha accelerato di gran lunga la tempestiva rimozione dall’immaginario collettivo. 
A quell’imbalsamazione stilistica Luhrmann contrappone un’ipertrofia boccheggiante che non va per il sottile e a cui non interessano né il fine psicologismo delle pagine di Fitzgerald né tantomeno le implicazioni sociali che il romanzo recava al suo interno. I focus sui nuovi ricchi e su un retrogrado, conservatorista blaterare di differenze di classe e di sangue, che nel film sono solo accennati, rientrano non a caso più in una sostanziale fedeltà a certi dialoghi del romanzo che in una profonda adesione tematica. Il film di Luhrmann con Leonardo Di Caprio mira piuttosto a riempire gli occhi con un disarmonico caos di forme belle, specialmente nella prima parte, la più vicina a Moulin Rouge! nella dimensione sontuosa e travolgente. Un tripudio di silhouette da Belle Époque in cui però il cinema stesso potrebbe paradossalmente passare per il grande assente, dimenticato e sacrificato sull’altare dei vezzi narcisistici del regista (che sia proprio Luhrmann Gatsby, in fondo?). 
La grossolanità delle forme si fa infatti bombardamento accecante e massacrante, tacciabile di esile e vano compiacimento nel dispiegamento delle visibilissime disponibilità produttive. Un’orgiastica ed estatica accozzaglia, tale (sulla carta) da fare a pezzi la pregna nebulosità del capolavoro letterario di partenza, massacrandone il senso e lo spirito. 
Da un punto di vista denotativo, le considerazioni sopra elencate potrebbero anche essere vere, ma discutibile è la conseguenza che il taglio magniloquente di Luhrmann genererebbe. Il cuore intimo della storia originale è infatti assolutamente rispettato se non esaltato dal rigore sinestetico del regista di Romeo + Giulietta, nel cui film emerge tutta la potenza distruttiva e mortifera nonché il disfacimento fisico e morale di un sogno americano che si è schiantato contro la morte, conscio ormai della sua fine ineluttabile, della propria condizione ansimante di esule rinnegato da ogni possibile Eden, da qualsivoglia festa grandguignolesca e in pompa magna. Un’essenza livida che  in questa nuova, (naturalmente) post-moderna versione de Il Grande Gatsby è finalmente estremizzata anche da una prospettiva teorica: non è dunque il film di Luhrmann a essere vuoto, ma è esso stesso a farsi piuttosto consapevole specchio riflettente della vuotezza dell’american dream (“Ma se Gatsby non esiste, tutto questo a che serve?”). 
È proprio questo lo scarto e il cortocircuito fondamentale da cogliere per apprezzare il lavoro di ri-codificazione formale e semantica di Luhrmann, tutt’altro che manierista nella misura in cui il suo calligrafismo e la sua filologia rovesciata si configurano con una precisa finalità comunicativa e significante. 
Ne è conferma assoluta la seconda parte, che preme il piede sull’acceleratore del romanticismo e del sentimento, privilegiando la costola romantica del romanzo che è ciò che interessa Luhrmann più da vicino e che più di ogni altra cosa è in linea con la sua poetica. Come affine alle sue corde è per altro la riproposizione modernizzata delle atmosfere del romanzo, con l’hip hop al posto del jazz, generi musicali massificati al sommo grado ora come allora. Una traslitterazione pop che se si va al di là dell’irritazione momentanea e del purismo può essere apprezzata quale opportuna e non offensiva cornice cinematografica di un’opera ancora stupenda e attuale, con dei vincoli molto forti col nostro tempo che sono perfettamente visibili con po’ di sforzo e che la modernizzazione grafica contribuisce a evidenziare.
È un film facile da far morire dentro etichette stantie già incollate con la saliva sul precedente cinema di Luhrmann, Il Grande Gatsby. Più difficile scorgerne i meriti, con lo stesso Luhrmann che - va detto - si mette d’impegno per distrarre e stornare dai veri obiettivi com’è sua consuetudine, con qualche sarabanda di troppo che rischia quasi di distogliere dal nocciolo della questione. Una sostanza che è comunque prepotentemente centrata grazie a una forza emotiva e romantica senza pari che il film dispiega in tutta la sua potenza distruttiva. Una carica talmente roboante da estinguersi e ridursi progressivamente, da essere divorata dalla propria brama di rapacità e concupiscenza, proprio come nel romanzo. Il sogno non può dunque che agonizzare, riducendosi flebile e morente come una luce verde e opalescente che va spegnendosi pian piano.  

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Great Gatsby
Anno: 2013 
Uscita in Italia: 16 Maggio 2013 
Regia: Baz Luhrmann
Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Craig Pearce
Fotografia: Simon Duggan
Musiche: Craig Armstrong
Durata: 143 min.
Attori principali: Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire, Isla Fisher

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