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MAPS TO THE STARS - Demoni vs. spettri

23/5/2014

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Maps to the Stars riparte da Cosmopolis, con un collegamento diretto che ha dell’impressionante: ancora Pattinson, e ancora una limousine. Solo che stavolta l’attore è autista e non passeggero, in una Los Angeles nella quale giunge il personaggio di Mia Wasikowska, strana ragazza con una vistosa cicatrice da ustione sul collo e, sulla carta, la semplice voglia di fare un giro a Hollywood. In fuga dalla famiglia e dal suo oscuro passato, che nasconde una colpa di cui lei stessa si è macchiata e che tornerà alla carica nel presente. Tra ville, divismo, scrittori-massaggiatori misteriosi con arie da guru, dive sul viale del tramonto logorate dall’ambizione e dall’ipocrisia e divetti arroganti, si dipana uno spaccato corale e paranoide, ansiogeno e colmo di momenti spiazzanti.
“Fatti una vita, o fatti una morte”: è una battuta di Havana Segrand (Julianne Moore), attrice dall’animo orrido desiderosa di interpretare un ruolo che fu della madre, a prima vista casuale ma che in realtà dice molto dell’ultimo film di David Cronenberg. In assenza della vita reale, sottomessa alle ragioni della finzione, dell’apparenza, dell’industria moralmente deteriore dell’intrattenimento e del cinema, non resta infatti che abbandonarsi alla raffigurazione di carcasse arenate, quali sono per l’appunto i personaggi di Maps to the Stars. Spettri di una costellazione indicibile, lontana anni luce dalla verità e dalla spontaneità, confinati nella gabbia di un’artificialità che il film del regista canadese trasuda in ogni scelta di regia e in ogni dialogo della calibratissima sceneggiatura di Bruce Wagner (che però, saggiamente, non chiude il cerchio ma rilancia la posta). Niente più che spettri, evocazioni di una seduta spiritica travestita da film d’interni raggelato e melodrammatico. 
Non c’è, forse, altro modo di avvicinarsi a questi esseri così poco umani, androidi che anelano al grande schermo e ai suoi fasti perché quella è l’unica dimensione nella quale possono ritrovarsi, emotivamente e ontologicamente, a loro agio. E non è un caso se le presenze realmente soprannaturali del film, che fanno capolino spesso a testimoniare la devianza psichica dei personaggi e a torturarli psicologicamente, più che spettri sembrano demoni paradossalmente più autentici e potenzialmente più malvagi e pericolosi, nonostante l’innocenza di molti di loro, delle creature rimaste in vita. Perché le figure fantasmatiche, a ben vederle, ci sono già. E accanto a loro non ne ammettono altre, provando a ricacciare il più lontano possibile tutto ciò che è alieno dalla loro posticcia forma di sopravvivenza.
Maps to the Stars è un film straordinariamente neutro, che colpisce nel segno laddove A Dangerous Method falliva, ovvero nella messa in scena capillare di un universo completamente dominato dalle leggi della psicanalisi, dalla freudiana coazione a ripetere all’Imago Dei di Jung (non a caso), che viene citata in modo esplicito da Cusack. I suoi abitanti ambiscono infatti alla pienezza cosmica, al soddisfacimento di se stessi, ma impattano tragicamente nell’impossibilità di procurarsi una felicità nuova e rigenerata: nell’epoca del crollo dell’utopia e della fine degli ideali, viene meno anche l’immagine idealizzata e la fiducia colma di speranza nel futuro.
Il postmoderno moltiplica se stesso all’infinito per definizione, in una serie di brutte serigrafie. E il film di Cronenberg non a caso somiglia a una fastidiosa e abbrutita sitcom dalle tonalità tragiche, nella quale i paradossi vengono amplificati fino a farsi insostenibili, i rapporti tra i padri e le figlie regrediscono al crudele rifiuto e l’amore non è più forte ma solo più freddo della morte (checché ne dica Stafford Weiss), al di là di ogni illusione in vitro e di qualsiasi gioco di prestigio mirato a gonfiare identità e personalità.
Già, la personalità, questa sconosciuta. La vera grande assente di Maps to the Stars, in cui non si trova neanche a cercarlo con il lumicino un esempio di sana coerenza e cristallina fedeltà a se stessi: tutti tradiscono tutti e tutto ma soprattutto si tradiscono, contraddicendo e contraddicendosi, mostrando questo o quel volto in un’insalubre e indifferenziata moltiplicazione di prospettive, pronta a farsi pura orgia dell’individualismo e dell’utile. È questo l’elemento del film più disturbante e algido, il più vicino a una costante doccia fredda in cui l’avvilimento dei sentimenti e dell’integrità di uomini miseri e fallimentari è resa sullo schermo da momenti in cui gli effetti sonori si fanno assordanti come non mai.
L’unica (non) mappatura possibile, insomma, è il caos, l’unico conforto rimasto è ascoltare il guazzabuglio della propria testa e di un cuore che esplode di collera, saturo di contraddizioni e mascheramenti, di risate che si sovrappongono a colpi di coda macabri, a coiti senza senso, ad antidepressivi e premi insanguinati. È proprio quest’ultimo aspetto a rendere l’ultimo Cronenberg un grande affresco disperato e quel che più conta, in barba a ciò che se ne dice in giro, ben più originale delle apparenze.
Riflettere sulle derive post tutto dell’immaginario, in un momento in cui lo fanno tutti, dai discorsi sul digitale ai canyons schraderiani, passando per la messa in gioco e in dubbio dell’atto stesso del filmare, non rende automaticamente un film bollito, specie se si adopera il bisturi con cui Cronenberg da sempre legge qualsiasi cosa, rovesciando il reale, la carne, i corpi e plasmandoli alle sue esigenze espressive. Hollywood è in questo caso solo un pretesto per raccontare la crisi di riconoscimento del nostro tempo, in cui, fuori da ogni mappa o tracciato, non c’è identificazione e si può solo viaggiare stando fermi, come corpuscoli stellari spersi nello spazio, senza meta e senza una galassia, anche lontanissima, cui approdare. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema

Scheda tecnica  

Titolo originale: Maps to the Stars
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Bruce Wagner
Montaggio: Ronald Sanders
Fotografia: Peter Suschitzky
Anno: 2014
Durata: 110’
Uscita italiana: 21 maggio 2014
Attori: Julianne Moore, Mia Wasikowska, John Cusack, Sarah Gadon, Robert Pattinson, Olivia Williams, Evan Bird, Carrie Fisher.  

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LE MERAVIGLIE - Corpi sbiaditi

21/5/2014

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Quella di Alice Rohrwacher, si è detto e scritto, è un’Italia segreta. Lontana da una certa iconografia del Bel Paese a dir poco prevedibile, in virtù della quale guardi e sai già tutto quello che ti serve sapere: contesto regionale, sociale, culturale, come se fosse una prescrizione telecomandata delle categorie umane e paesaggistiche, peggio se contemporanee e (dunque, quasi sempre) stereotipiche. Un’imposizione spesso oleografica che per lo spettatore più esigente corrisponde a una vessazione. Il film della Rohrwacher, dal titolo bello e pretenzioso, a tale palude riesce almeno a sottrarsi. Ma conferma, come se ce ne fosse bisogno, che un immaginario non inflazionato e un mondo autobiografico fortemente personale da ricreare sullo schermo non bastano a garantire un film ispirato e necessario a priori.
Quella della Rohrwacher è un’Italia bambina, una pre-adolescente rimasta ferma a un’età che coincide fatalmente con l’arcaicità di tutto ciò che sta intorno alla protagonista Gelsomina, ai suoi genitori (il padre Wolfgang, la madre interpretata da Alba Rohrwacher) e alle sue sorelle: la campagna, la ruralità candida e allo stesso tempo cruenta che influenza anche i rapporti umani, i tanti sottintesi di una terra arida e generosa insieme. Intermedia nelle apparenze, nella collocazione territoriale, nelle funzioni svolte marginalmente rispetto alla società urbana. E poi quella tv, innocente e distante, atemporale e altrettanto fanciulla. Senza sciatterie o colpi di coda trash, simile piuttosto a una fiaba agreste con tanto di fatina avvenente (la Milly Catena di Monica Bellucci).
Il primitivismo de Le meraviglie, più che una benedizione, è tuttavia uno scialbo compromesso, tra ciò che il film avrebbe potuto essere e dire e ciò che irrimediabilmente non fa e non arriva a essere. Banalmente una zavorra, più sottilmente un alibi attraverso il quale la regista si sottrae dai reali rischi di una rappresentazione pulsante, che odori in modo autentico degli umori della natura e delle sue implicazioni fisiche. Alice Rohrwacher, più che mettere in scena una favola eterea e primordiale, si incolla alle sue stesse ombre e vivacchia al loro fianco, indugiando come ad attendere uno scatto in avanti che però non sopraggiunge mai.
Il suo sguardo, come nel precedente, bellissimo Corpo Celeste, è quello pedinante di chi respira addosso alle sue creature, ma la postura qui totalmente inerte della narrazione non fornisce appigli validi e motivi d’interesse a un flusso di coscienza che vorrebbe scorrere libero e fluente come un ruscello ma s’impantana nel fango dei propri stessi obiettivi non realizzati. Se il primo film della Rohrwacher inscenava un conflitto dialettico di potenza impressionante tra la profana prosaicità della terra di Calabria e la sacralità problematica e ipocrita di riti religiosi e catechismi, qui questa forza interna manca e ciò che ne viene fuori è una deriva impalpabile, senza puntelli, senza sbocchi: il ritratto sciapo di un’adolescenza tra i campi, ordinario nel senso peggiore, che nulla a che a fare con i pregi dell’estetica del cinema del reale.
Potrebbe sembrare un film significante, Le meraviglie, nel suo incedere spoglio e timido, nel pudore naturalistico e nella sua affezione per immagini che nelle intenzioni dovrebbero essere di pura sensazione e di schietto sentimento. Il risultato, però, somiglia più a un vuoto senza peso, imprecisato più per via della sommatoria dei difetti che per netta scelta stilistica. In uno scenario così privo di steccati salutari, tutto può allora tornare utile per allungare il brodo: un dettaglio burocratico, una sprecata sottotrama (l’arrivo nella casa della famiglia di Gelsomina di Martin, ragazzo tedesco in rieducazione), perfino una trovata poeticizzante ma sfiatata: quel cammello che giunge dopo la giraffa de La grande bellezza che l’anno scorso rappresentava l’Italia sulla Croisette, a suggellare il nostro costante, pacchiano fraintendimento del fellinismo, tutto zoologico e ben poco assimilato.
Le meraviglie sarà anche dialogato in tante lingue (italiano, francese, tedesco), ma dimentica di parlare quella più importante: il codice espressivo di un’ispirazione sincera, così umile e sentita da abbassarsi al livello delle ragazzine che dovrebbe accompagnare, da immolarsi per loro. La Rohrwacher invece a questo giro sembra sacrificarsi solo sull’altare della propria compiaciuta rigidità da auteur. Una fermezza che nel finale, all’apice dell’inconsistenza, ribadisce una volta per tutte la sua natura di scialbo cinema dalle chimere autoriali da inseguire come spettri (si guardi in maniera speculare l’inizio, tutto giocato sulla presenza e l’assenza di luce) e si mette a dare la caccia ai fantasmi. Con la macchina da presa che si sposta dai corpi, resi troppo sbiaditi da una lente sul mondo non all’altezza, e va in cerca dell’aria e dei suoi misteriosi spostamenti. Una metafora perfetta del film. Ovviamente involontaria, ma straordinariamente crudele. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema

Scheda tecnica   

Anno: 2014
Regia: Alice Rohrwacher
Sceneggiatura: Alba Rohrwacher
Fotografia: Hélène Louvart
Musiche: Piero Crucitti
Durata: 110’
Uscita italiana: 22 maggio 2014
Attori: Alba Rohrwacher, Sam Louwyck, Sabine Timoteo, Maria Alexandra Lungu, Agnese Graziani, Monica Bellucci.

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LOCKE - I'm driving

3/5/2014

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Ivan Locke è un uomo ordinario in tutto e per tutto, la quintessenza della stabilità e della sicurezza: ha un fisico robusto, dalla stazza non indifferente, che probabilmente gli procura tutta l’autorevolezza di cui ha bisogno nel rapportarsi con gli altri, nella vita e sul lavoro (è un costruttore). Il suo è un corpo in perfetta linea con i parametri di un’Inghilterra operaia, lavoratrice e con i piedi ben piantati su un terreno già solido ed edificato. Un pater familias che rincasa con le mani che odorano di calcestruzzo e trova la moglie e i due figli ad accoglierlo, un uomo tutto ufficio, casa, famiglia e partite di calcio in Tv. Uno che magari fa pure il tifo per una squadra che bazzica non di rado la zona retrocessione, costretta a soffrire come lui per sudarsi gli obiettivi anche minimi da raggiungere.
Tom Hardy incarna questo personaggio con incredibile aderenza fisica e un accento gallese che, data la sua nettezza compassata, ben si sposa con un tipo dai modi così spicci e concreti, la cui esistenza scolpita nel cemento verrà presto sgretolata. Travolta da una colata di situazioni-limite, che egli stesso non farà nulla per evitare. Quello di Steven Knight è un one man show di fattura pregevole, un film da abitacolo tutto girato nell’auto del protagonista e scandito dalle innumerevoli telefonate che egli riceve in una nottata decisiva per gli equilibri della sua vita. Un’oasi di tranquillità perfetta e inviolata che collasserà di colpo nel momento in cui Locke deciderà di prendersi sulle spalle il peso di una colpa con cui altrimenti non riuscirebbe a convivere: proprio lui, l’irreprensibile Ivan Locke, ha tradito la moglie in una notte di solitudine, e ora quella ragazza con cui si intrattenne aspetta un bambino.
Ivan, il cui padre all’epoca lo abbandonò senza neanche fargli vedere la propria faccia quand’era in fasce, non vuole eternare la maledizione paterna e non intende in alcun modo replicare l’orrore di quell’errore, anche a costo di sacrificare quel sereno ecosistema che è la sua esistenza. Per lui non c’è in questo caso poi tanto amore per la donna le cui acque si sono rotte con due mesi d’anticipo, costringendolo a mettersi in viaggio di corsa, e anche il coinvolgimento è al minimo storico. Ciò che più gli preme è l’obbedienza a quell’integrità dalle fondamenta stabili come gli edifici che costruisce e sulla quale egli basa tutto se stesso.
Locke è un film sul senso di responsabilità che irrompe nell’ordinarietà forse soddisfacente ma sbiadita di un common man come tanti altri, rendendo improvvisamente vividi e rischiosi i colori e le traiettorie del suo percorso di vita: linee rette (casa, lavoro, famiglia) che s’intersecheranno in un disegno geometrico tragico ma incontrovertibile e si comprometteranno clamorosamente in un’unica notte di mutazioni profonde; il tutto mentre Ivan guida verso Londra, verso quel figlio che sta venendo alla luce e che avrà il suo cognome. Il futuro, man mano che l’alba si appropinqua, si assottiglia per lui sempre di più, avvicinandosi pericolosamente all’idea di una corsia a senso unico, senza possibilità di ritorno nella direzione opposta.
Locke è per 85’ al volante col suo magnetico protagonista, ma non si tratta di una costrizione che pesa sullo spettatore, del contrassegno spossante di un film da camera con pretese d’estremismo. Locke è esattamente il contrario di tutto ciò. È un film che parte da un’idea di messa in scena di sicuro d’impatto, con l’intento di impostarla su un tracciato narrativo il più possibile efficace e tradizionale, che si espande sulla base di una sceneggiatura ad alto tasso di funzionalità, con delle forze archetipiche che si dibattono al suo interno: la zavorra del padre mai avuto, l’analogia d’effetto di Locke col più scarso dei calciatori che realizza un gol capolavoro per lui impensabile (anche l’uomo qualunque può fare la migliore cosa possibile, in una notte fuori dall’ordinario), il rapporto tra il nevrotico e il faceto con un collega di lavoro beone e non troppo affidabile (il riuscitissimo Donal). A tutto ciò si associa una costruzione visiva di grande fascino, mentre le voci al telefono delineano personaggi, stati emotivi ed interi mondi affettivi e professionali: poche inquadrature, con tre telecamere per ogni scena, tessute insieme attraverso giochi cromatici e di luce e dissolvenze incrociate che restituiscono tutto il caotico pathos di un tormento interiore portato avanti con soffertissima lucidità.
Lo script di Knight è un vero e proprio manuale di sceneggiatura, fondato su elementi basici ma dal riscontro sicuro, che lavora sulla tensione e sulla sospensione, che gioca sull’immedesimazione di pancia dello spettatore e lo trascina in questa mini-odissea autostradale, in cui la vita del protagonista è smantellata in modo direttamente proporzionale al coinvolgimento di chi guarda.
È proprio questa la più grande forza di un film incentrato su un uomo che, a prescindere dal colore del semaforo, trova dentro di sé l’intima ragione per andare avanti, per sobbarcarsi la gravosità delle proprie coraggiose scelte. È proprio il caso di dirlo, specie di questi tempi di sotterfugi legalizzati, proprio come si farebbe quando il più scarso della tua squadra del cuore infila in rete un gol da tre punti al 90°: What a miracle.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Locke
Anno: 2013
Durata: 85’
Regia: Steven Knight
Sceneggiatura: Steven Knight
Fotografia: Haris Zambarloukos Musiche: Dickon Hinchliffe
Uscita in Italia: 30 aprile 2014
Attori: Tom Hardy, Ruth Wilson, Olivia Colman, Andrew Scott, Ben Daniels, Tom Holland, Bill Milner

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