ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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L’ALTRA HEIMAT - Cronaca di un sogno: il sentimento del tempo

31/3/2015

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Siamo nell’Hunsrück prussiano tra il 1842 e il 1844. Il giovane Jacob divora qualsiasi libro riesca a procurarsi, mentre intorno a lui le occupazioni rurali dei suoi familiari fanno i conti con l’indigenza e la prospettiva reale del collasso dovuto a una povertà insanabile. Un intellettuale imberbe, che s’interessa agli idiomi degli abitanti dell’Amazzonia e culla, attraverso i suoi studi, il sogno di una fuga irrealizzabile, l’orizzonte di una libertà su cui poter finalmente mettere le mani.
Il concetto di casa, di patria, che poi è racchiuso nel significato stesso della parola tedesca del titolo, “heimat” appunto, si scopre pertanto aleatorio e delocalizzato nell’ultimo film di Edgar Reitz, che gira, con la nitida magnificenza e il luminoso splendore cui ci aveva abituati, un nuovo capitolo della saga che lo rese celebre e glorificato, con merito, dai cinefili di mezzo mondo. Un prequel che arretra di 160 anni rispetto al precedente punto d’arrivo della sua epopea, che approdava al 2000 e lì si fermava, al fine di esplorare il passato e setacciare i sentimenti privati dei progenitori, il senso di disfacimento proprio di un’epoca lontana e in grado tuttavia, idealmente, di giungere fino a oggi con la sua eco. 
A dominare incontrastata nel film di Reitz, infatti, è la netta percezione di una sparizione imminente cui tutti paiono essere indirizzati e che in quegli anni pareva investire obbligatoriamente persone e cose. Senza la furia iconoclasta e onnivora di Hard to be a God di Aleksei German, ma con la stessa totalizzante consapevolezza da opera-mondo.

Ne L’altra Heimat - Cronaca di un sogno, Edgar Reitz fa leva sulla Sehnsucht (si veda a tal proposito il sottotitolo originale), termine con un suo preciso e ingombrante background letterario, per definire e mettere a fuoco le coordinate di una Storia con la “s” maiuscola, che altrimenti finirebbe per sfuggire anche dalle mani di coloro che l’hanno vissuta direttamente (i personaggi del film, protagonisti della storia con la “s” minuscola) e non potrebbe che pervenirci in forma altrettanto evanescente, irrisolta, frammentata. Senza un’affezione, sembra volerci dire Reitz, sarebbe tutto ancora più smorto. Il suo film invece abbaglia e scalda il cuore perché animato dalla volontà costante di ricondurre tutto proprio al sentimento, anche se parliamo del sentimento di un tempo perduto e impossibile da riesumare, di una reminiscenza tutt’altro che vigorosa. Dopotutto, la Sehnsucht è questo: un desiderio venato di fallimento, una cupidigia che però cela dentro di sé il germe della rovina, un’aspirazione cui resta solo la consolazione della nostalgia. Ma si tratta sempre e comunque di una nostalgia produttiva, che gettando una nuova luce sul passato genera senso, crea punti di vista su ciò che si è stati ed è ben distante dall’imbambolarsi in rievocazioni lacrimose fini a se stesse.
Reitz, che già di suo ama ben poco l’effettismo e le menzogne concordate, al cinema come nella vita, analogamente va a caccia di una veridicità da donare alla sua messa in scena che non sia immediata e nient’affatto semplice: un’autenticità aspra e non accomodante che muova da frustrazioni e tracolli vari (le vicende narrate) per appropriarsi di una malinconia in alcun modo retorica o abusata. Reitz usa lo struggimento dei singoli individui e personaggi per illuminare un passato dimenticato e rimosso, sublimato nella ricerca di una patria altra, quella del titolo (il passato è ancora una terra straniera, in fin dei conti) e per far sì che le sue creature vivano e respirino concretamente dentro la tridimensionalità epica e realistica di un vero romanzo storico, torrenziale per durata e ambizioni.

I personaggi di L’Altra Heimat vagheggiano un tempo e un luogo mai vissuto ed è proprio questa tensione a renderli, ai nostri occhi di spettatori odierni, vivi e presenti come non mai, oltre che vicini. Perché, come noi, questi avi di un desolato villaggio prussiano vivono, scoprono, fantasticano, ma soprattutto temono, idealizzano l’intangibile, discutono spesso di ciò che non sanno, non conoscono (davvero). Come noi sembrano sapere solo ciò che non sono, ciò che non vogliono, sperduti in un’era insondabile e famelica. Ed è così che dall’ieri riemerge, timido ma non troppo, l’oggi.
Il bianco e nero del film, summa incredibile di un lavoro quarantennale di Reitz sul colore, isola singoli dettagli cromatici in modo sorprendente e poetico (sono a colori la bandiera tedesca, la frutta, un luigi d’oro, antica moneta, e tanto altro); il digitale in cinemascope splende di luce propria (e che luce), mentre i meravigliosi movimenti di macchina, forti di una steadycam sinuosa e avvolgente, compongono una sinfonia visiva e uditiva in cui alla fluidità dell’immagine corrisponde la densità e l’agilità del pensiero filmico. La macchina da presa, sono parole di Reitz, “si eleva come in un sogno”.
Le scene da antologia si sprecano (la morte della madre, ad esempio, non si rimuove facilmente dalla memoria tanto è impressionante per bellezza e composizione) e il crescendo del film, che si articola in una seconda parte liturgica e luttuosa, va a delineare l’elegia composta e dimessa di una nazione destinata a sorgere: un’ode alla verità di un’identità, culturale e popolare, intonata in punta di piedi e con onestà senza pari da un autentico maestro, che fa scoccare “la freccia del tempo” e non sbaglia un bersaglio, facendo centro a tutti i livelli. Mirando indietro, ma per volgere lo sguardo e fissare l’obiettivo rigorosamente in avanti.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica  

Titolo originale: Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht
Anno: 2013
Regia: Edgar Reitz
Durata: 230’
Interpreti: Jan Dieter Schneider, Antonia Bill, Maximilian Scheidt, Marita Breuer, Rüdiger Kriese
Sceneggiatura: Edgar Reitz, Gert Heidenreich 
Musiche: Michael Riessler
Fotografia: Gernot Roll
Uscita italiana: 31 marzo, 1 Aprile 2015

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LA FAMIGLIA BÉLIER - La musica e il silenzio

30/3/2015

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La formula vincente dell’ultimo trionfale incasso d’Oltralpe si lascia decifrare alla prima sequenza. Nella cucina soleggiata e multi-accessoriata la famiglia Bélier inizia una comune giornata di scuola e lavoro. Posate e piatti tintinnano sonoramente: confortanti segni della vita amena della campagna francese. La figlia Paula, unico membro udente della famiglia, salta in sella alla sua bici e inforca le cuffie. La camera le sta dietro nella corsa sulle stradine dissestate e in discesa mentre “That’s not my name” dei Ting Things accompagna i titoli di testa. I colori saturi della natura, la vita di un’adolescente tuttofare, la freschezza di una regia furbissima, il pop, il candore del latte e, soprattutto, l’irrompere di una diversità vissuta euforicamente: tutte componenti sparse di una storia pronta a bissare col passaparola il successo avuto in patria.

Il nucleo emotivo del film sta tutto nelle relazioni dirompenti di questa famiglia di sordomuti, nei loro silenzi soltanto apparenti. I Bélier vivono vorticosamente la loro diversità, ai più disfunzionale, dando continua prova agli spettatori delle sue difficoltà, ma anche dei suoi segreti vantaggi. La sordità impone una lotta perenne col mondo (vedi il sindaco sornione che tenta di farsi capire giusto per raccogliere due o tre consensi in più) ma in casa, nell’inviolato nucleo bucolico, esige una fisicità più presente e viva. I dettagli sul sesso sono ben temperati nel racconto, ma è indubbio che il film vive i suoi momenti più esilaranti durante questi momenti selvaggi, scorretti quanto basta. La madre che agita entusiasta i primi pantaloni mestruati della figlia o il secondogenito che va in shock per allergia al lattice del profilattico ne sono la prova. Grazie al lavoro degli attori (su tutti, i genitori interpretati da François Damiens e Karin Viard), si assiste al gioco affiatato di una famiglia dove non esistono segreti, che al momento del ciak sembra lasciarsi liberamente andare ai litigi e all’amor fou come alle piccole oscenità domestiche.
Ma l’espediente che fa ingranare il film è tutto nelle calcolate scelte musicali. Parole e note del repertorio saccheggiato di Michel Sardou intervengono nei momenti di acme sentimentale a rilassare la storia. Paula abbandona le spalle e rivela al mondo la voce che credeva di non avere. Incoraggiata dal direttore del coro, impara a spiccare il volo nel canto (“Comprenez bien: je vole”, recita il testo di Sardou). E il film prende note e toni da musicarello, giocando il tutto e per tutto nelle rispondenze tra canzoni e vissuto. “Le monde est plus marrant, c’est moins dèsespèrant en chantant”. Nelle canzoni ascoltate al piano, intonate nel coro o provate al pianoforte si confrontano i personaggi intorno a Paula: su tutti il maestro di canto che si diverte a fare il rude (Èric Elmosnino) e il ragazzo belloccio inquieto il giusto per scatenare nella ragazza le intemperie di percorso (Ilian Bergala). Ma il vero maître de musique è il regista Eric Lartigau, che dirige choristes principali e comprimari con invisibile equilibrio, mettendo a fuoco tutto ciò che serve a una visione in cui si deve stare comodi e stravaccati, con i nervi ben scoperti alle emozioni forti, come accade (unanimemente, per forza) nel finale, impossibile da sostenere tanto è vorace e liberatorio l’abbraccio dei quattro.
In mezzo agli umori e alla vita arricchita dei Bélier tutto è possibile. Non costa niente neanche provare a fare la rivoluzione, se la si fa insieme e “en chantant”. Il padre sfida alle elezioni il sindaco uscente per provare ad aprire un varco popolare e rivendicare la terra che sta per essere occupata. Questo è il punto più sfilacciato e disperso nell’economia della storia, ma è importante accorgersi che è da questo momento che l’eroina inizia a fare i conti con le proprie frustrazioni: insofferente all’iniziativa paterna, rischia di mandare a monte la sua intervista in Tv. La politica, avvicinandola con alti e bassi alla musica, le consente di avvertire, per la prima volta, una cruciale estraneità alle cause territoriali, alle mucche al pascolo, agli incassi stentati del commercio di formaggi. Sfidando la diffidenza dei genitori, già incapaci al principio di accettare una figlia non sordomuta (come le confesserà la madre in un bel momento di resa dei conti), Paula traduce in LIS i versi di “Je vole” durante l’audizione parigina, permettendo loro di ascoltare ciò che non riescono a sentire. Conciliata e approvata, è libera di spiccare “il volo” dalla terra natia. Lartigau la “congela” con i capelli al vento sullo schermo, in un fermo immagine che richiama, ribaltandone il senso, quello su Antoine Doinel ne I quattrocento colpi.
Ispirato al libro di Véronique Poulain Les Mots qu'on ne me dit pas, il film è pensato per affermare al grande pubblico volto e talento vocale di Louane Emera (premio César come miglior attrice emergente dell'anno), concorrente dell’edizione francese di The Voice, sedicenne étoile televisiva che interpreta Paula con la disinvoltura richiesta. Ammutolito il resto della famiglia, il film fa spiccare la sua voce, che emoziona e torna a risuonarci in testa anche dopo la proiezione. La famiglia Bélier funzionerebbe alla grande, tra l’altro, come lungo preserale del prossimo talent, per invitare giovanotti più o meno inquieti a saltare gli steccati dell’amore dei parents e accorrere alle prime file delle audizioni. Faceva scuola, il vecchio Sardou: “Mes chers parents, je pars. Je vous aime mais je pars”. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica  

Titolo originale: La famille Bélier
Anno: 2014
Regia: Èric Lartigau
Durata: 105’
Interpreti: Louane Emera, Karin Viard, François Damiens, Eric Elmosnino, Ilian Bergala, Luca Gelberg
Sceneggiatura: Victoria Bedos, Thomas Bidegain, Stanislas Carrè de Malberg, Eric Lartigau
Musiche: Evgueni Galperine, Sacha Galperine
Uscita italiana: 26 marzo 2015

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BEKAS - In viaggio verso la felicità

26/3/2015

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La parola «Bekas» è molto rispettata in curdo: ha diversi significati, tutti legati all’abbandono, alla solitudine, ai viaggi solitari, senza amici e senza direzione. In questo caso fa riferimento alla pellicola svedese di Karzan Kader, road movie basato su un particolare percorso ambientato in terre curde (la zona del Kurdistan, che comprende i territori di Iraq, Turchia, Siria, Iran e Armenia). Si tratta di una regione che ha suscitato molto interesse in Occidente, anche perché il popolo non è dotato di sufficiente autonomia, nonostante le loro antiche tradizioni, la loro cultura e le diverse dichiarazioni storiche che hanno affermato l’opportunità di uno stato curdo indipendente.
In Bekas ci viene raccontata la storia di due fratelli orfani, Zana e Dana, i quali sopravvivono con grandi difficoltà lavorando come lustrascarpe di strada. Vivono in un villaggio in cui, come tutte quelle piccole città dell’Asia Minore e del Medio Oriente, dilagano personaggi curiosi e luoghi tipici: i venditori del mercato, i fedeli musulmani che fanno il bucato e sono impegnati nelle loro preghiere rituali con inginocchiamenti ripetuti verso la Mecca; le strade strette e le pareti delle case tutte in colori ocra che si fondono con i paesaggi aridi; l’officina di riparazione per articoli elettrici e meccanici, nella quale lavora un personaggio saggio e di buon carattere, che ha dedicato tutta la sua vita a questo mestiere senza dimenticare il suo ruolo di nonno, sempre pronto a insegnare ai nipoti vecchie lezioni con l’aiuto di analogie sapienti; contrabbandieri, lungo le strade polverose infestate dai posti di blocco, che non conoscono differenza tra persone o cose. In questo ambiente variegato sopravvivono con qualsiasi mezzo i due fratelli, lustrascarpe con grande senso degli affari, dell'umorismo e soprattutto con un’innocenza tale da renderli creativi e altruisti.
Quando i due bambini vedono un film che racconta le gesta di Superman nel primo cinema della loro cittadina, decidono di andare in America (la terra del supereroe che può fare tutto) per parlare con lui e chiedergli di restituire loro i genitori, vittime delle guerre di Saddam Hussein contro i curdi. Questa immagine dell’America come terra di Superman è perfettamente allineata con la visione che i curdi hanno nei confronti degli americani, in quanto grandi nemici di Hussein. Soprattutto i bambini la vedono come luogo dei possibili, dal quale cercano di attingere anche senza conoscerlo: Superman, Michael Jackson («quello che canta») e la Coca Cola (simbolo del commercio seriale, presentata con sfumature sarcastiche un po’ alla Warhol).
Così, armati di illusioni e di fantasia, i bambini intraprendono un viaggio che mantiene lo spettatore in sospeso, nonostante la semplicità e la precarietà di tutto ciò che accade. Le immagini del film aumentano questo senso di suspense e avventura: non si sa mai che cosa attenda Zana e Dana, e soprattutto se si tratta di una cammino verso il nulla. Sono in balia totale delle circostanze, ogni loro sopravvivere è un piccolo miracolo.
Questi due bambini sono espressione della tradizione orientale di parlare espressamente (gridando), cosa che i due attori fanno senza alcuna vergogna. Sappiamo cosa imperversa nei loro cuori, nelle loro menti innocenti aperte al mondo terribile degli adulti, pieno di punizioni e delusioni. Ogni incidente provoca una nuova reazione, una nuova analisi creativa e fa aprire le nostre menti a ciò che sta accadendo in molti luoghi del mondo: bambini che vivono la perdita dell'innocenza forzata, tra strade disseminate di mine reali o simboliche, senza avere qualche meta ideale o di viaggio per abbellire o animare i loro giorni difficili.
Bekas è un semplice manifesto dell’amicizia familiare, che malgrado varie vicissitudini, oscillazioni, profitti e perdite vale comunque la pena costruire e promuovere, in quanto è la base della felicità umana. Proprio questa idea di famiglia è ritratta in momenti chiave del film: quello, ad esempio, in cui il nonno manda Dana a prendere alcuni bastoni di legno al solo scopo di insegnargli per mezzo di essi che l'unità familiare è ben superiore alla forza solitaria ed egoistica.
La famiglia è raffigurata come un rifugio in cui l'uomo trova la forza di reagire e affrontare ciò che accade, ma questa bella idea tradizionale corre il rischio di perdersi nelle circostanze attuali. Se però Kader, anche in modo così semplice e tenero, osa proporre tale soggetto sul grande schermo, sta contribuendo positivamente a un mondo migliore. Anche in questo caso è proprio il cinema che smuove i protagonisti, dà loro la speranza di poter cambiare la propria condizione e di poter compiere un viaggio verso la propria felicità. Quello di Zana, fratello maggiore che immagina il suo paese e la sua gente salvata dall’eroe Superman, è lo stesso atteggiamento inesperto del regista che, avendo vissuto in prima persona la fuga della propria famiglia dal Kurdistan e il susseguente rifugio in Svezia (nel 1991, in piena guerra contro le truppe di Saddam Hussein), sognava l’intervento di Rambo.
Karzan Kader infatti racconta: «Io ero ingenuo come lui. Nel film, Zana vede Superman e crede che sia una persona reale. Anch'io vidi Rambo e credevo che lo fosse. È successo durante la guerra e la prima cosa che pensai fu: “Quest'uomo combatte da solo contro un esercito. Ne abbiamo bisogno qui, abbiamo bisogno che ci aiuti. Perché non viene Rambo a rovesciare Saddam?”. Volevo mostrargli la sofferenza del mio popolo perché venisse ad aiutarci.».
In questo suo lungometraggio d’esordio, realizzato nel 2012, giunto in pochissime sale italiane dal 19 marzo e disponibile dal 13 aprile in modalità Video On Demand, l'autore sviluppa un primo cortometraggio con cui vinse la Medaglia d'Argento ai 38mi Student Academy Awards. Un film indirettamente biografico e molto romanzato: la prima impressione è quella dell’intenzione fiabesca, la ripetizione di episodi di fortuna in cui i ragazzi sopravvivono a condizioni sempre più pericolose. Un lavoro che non ha forti propositi socio-politici o fini documentaristici; il contesto storico è quasi un appiglio per far emergere l’aspetto umano della vicenda.
Karder crea così un equilibrio tra paura/dolore e felicità/sogno difficile da gestire, ma che domina abbastanza bene per la maggior parte del tempo. Proprio questo equilibrio costituisce il senso del film: sognare in grande, come solo un bambino sa fare; accettare il dolore e gestirlo come un'occasione per reagire.

Beatrice Paris

Elenco delle sale disponibile a questo link

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Uscita italiana: 19 marzo 2015
Anno: 2012
Regia: Karzan Kader
Sceneggiatura: Karzan Kader
Attori: Zamand Taha, Sarwar Fazil, Diya Mariwan
Fotografia: Johan Holmqvist
Montaggio: Sebastian Ringler, Michal Leszczylowski
Musiche: Juhana Lehtiniemi

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UNE NOUVELLE AMIE (Una nuova amica) - Oltre le barriere

23/3/2015

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À la vie, à la mort. Per sempre, qualsiasi cosa accada. È il patto di amicizia stretto da Claire e Laura, inseparabili sin dall'età di sette anni e cresciute insieme attraverso tutte le fondamentali tappe dell'adolescenza. Quando Laura muore poco dopo aver dato alla luce la sua prima figlia, anche la vita di Claire subisce un brusco stop. Nonostante un rapporto coniugale sereno e tranquillo con il compagno Gilles e un lavoro da impiegata più o meno soddisfacente, Claire non riesce infatti a elaborare il lutto. 
Per tenere fede alla promessa fatta all'amica prima della sua dipartita, la ragazza va a trovare David, il marito di Laura, con il proposito di stargli vicino in un momento così terribile. Per caso, però, Claire scopre un segreto che mai avrebbe potuto immaginare: l'abitudine di David di travestirsi da donna. Claire resta inebetita di fronte a questa rivelazione, la rifiuta e la respinge etichettandola come una perversione, salvo poi, poco alla volta, subire l'attrazione dell'uomo, o meglio della donna, anzi di entrambi: tra i due si instaura quindi una sorprendente complicità che riuscirà a superare qualsiasi barriera.

A volte capita di trovarsi di fronte a un film dove tutto fila liscio. Con disarmante naturalezza, senza alcuno sforzo. Un meccanismo che scivola morbido lungo un sentiero narrativo in cui ogni snodo trova la giusta distanza, la corretta direzione, la perfetta alchimia. È il caso di Une nouvelle amie (Una nuova amica), l'ultimo film di François Ozon, uscito lo scorso novembre nei cinema francesi e per fortuna arrivato anche nelle sale italiane. Dopo l'intrigante e inappuntabile Dans la Maison (Nella casa) e il pregevolissimo e sottovalutato Jeune et Jolie (Giovane e bella), Ozon ribadisce di attraversare un vero stato di grazia, confermandosi per l'ennesima volta uno degli autori più abili del cinema europeo nel giocare con le aspettative dello spettatore, scavando al contempo nelle suggestioni più nascoste dell'animo umano.
Tratto da un racconto di Ruth Rendell pubblicato nel 1985, Une Nouvelle Amie è un esemplare melò in cui l'ambientazione prettamente contemporanea cammina a braccetto con un'atmosfera retrò che pare riportarci indietro verso i capolavori di Douglas Sirk o, per restare in ambiti più recenti, le sgargianti tonalità cromatiche del migliore Almodovar o del bellissimo Far from Heaven (Lontano dal paradiso) di Todd Haynes. Ozon però non si limita a un discorso intimo e sociale sulla sessualità, ma trascina il suo film in un crocevia lungo il quale ogni confine pare annullarsi, rifarsi e di nuovo disfarsi, volando verso la ricerca dell'affermazione di sé e superando ogni schema preconcetto.

Sin dal prologo, dolcemente ingannatorio, comprendiamo come ogni apparenza, nell'opera ozoniana, sarà accartocciata e gettata nel cestino, per lasciare invece spazio a un racconto in cui orientamento sessuale e travestitismo diventano organi vitali di un unico corpo in perenne mutazione di senso; un corpo, ben espresso dal raramente così bravo Romain Duris, che viaggia a testa alta sulle ali di un sentimento tanto diverso quanto normale, tanto improbabile quanto possibile, tanto inatteso quanto carezzevole.
I motivi che spingono il triste vedovo a indossare vestiti da donna, trucco e parrucca, prima nello spazio limitato e protetto di casa propria e poi con coraggio all'aperto, sotto gli sguardi indagatori degli estranei, sono tanti, senza che nessuno degli stessi sia peraltro esaustivo: desiderio di combattere l'assenza della moglie defunta, voglia di regalare alla figlia una parvenza di figura materna, volontà di evadere dalle convenzioni di un quotidiano senza più sapore.
In concreto, però, la focosa mutazione en travesti dell'uomo che tale forse non vuole più essere altro non è se non un intimo percorso iniziatico volto alla mai troppo tardiva scoperta della propria coscienza. Una lunga seduta parapsicologica dalla quale Claire, dopo il rifiuto iniziale, resta affascinata oltre ogni possibile fantasia, abbandonandosi lungo i veli vaporosi di questa nuova amica con la quale stringere un rapporto senza ruoli, perché nel film di Ozon anche i muri che dividono le gabbie della coppia vengono abbattuti senza remore, come dimostra la stessa Claire alternando scene di nudo di intrigante femminilità e circostanze in cui si presenta con abiti piuttosto mascolini.
Così, con piena chiarezza d'intenti e completa efficacia nel risultato, il lavoro del cineasta francese fluttua nell'aria come un'ipnotica bolla di sapone destinata a non scoppiare mai, sovrapponendo momenti dolorosi (il funerale di Laura), affermazioni simboliche (il brano cantato al night e poi ripreso da Claire), parentesi leggere (il maldestro cambio di voce di David in ascensore), spassose digressioni (l'apparizione hitchcockiana dello stesso Ozon al cinema) e sequenze intrise di dirompente erotismo (l'approccio sessuale lesbo/etero in hotel), sino a un epilogo forse non del tutto credibile, ma al posto giusto nella struttura d'insieme di una pellicola capace di ammaliare con coerenza e lucidità.

Una nota a margine la vogliamo dedicare alla coprotagonista, Anaïs Demoustier, classe 1987, ormai lanciatissima verso il gotha del cinema transalpino e qui alle prese con la sua prova finora più adulta e complessa, espressa con esiti ottimali. Un risultato per noi particolarmente soddisfacente, dato che, se ci è concesso dirlo, da queste parti la seguivamo con estrema attenzione già quando in Italia in pochi la conoscevano (l'avevamo apprezzata ad esempio in La belle personne di Honoré, Les grandes personnes della Novion, D'amour et d'eau fraîche della Czajka e Belle Épine della Zlotowski).
Sensuale, fresca, maturata film dopo film, con quegli occhi grandi e curiosi e le candide lentiggini, la Demoustier ha conquistato poco alla volta il gradimento dei produttori e dei registi d'Oltralpe, per poi imporsi prepotentemente negli ultimi tre/quattro anni; non a caso l'hanno voluta tra gli altri Guédiguian per Les Neiges du Kilimandjaro, la Szumovska per Elles, Miller per Thérèse Desqueyroux, Tavernier per Quai d'Orsay, la Ferran per Bird People e di nuovo Guédiguian per il suo ultimo Au fil d'Ariane, oltre ovviamente a Ozon. Un successo di cui non possiamo che essere felici, nella speranza che (eventuali) future sirene americane non la portino via dalla Francia o comunque non le facciano perdere la sua irresistibile genuinità.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema, La vie en rose


Scheda tecnica

Titolo originale: Une nouvelle amie
Regia: François Ozon
Sceneggiatura: François Ozon (dal racconto di Ruth Rendell)
Attori: Romain Duris, Anaïs Demoustier, Raphaël Personnaz
Musiche: Philippe Rombi
Fotografia: Pascal Marti
Montaggio: Laure Gardette
Anno: 2014
Durata: 107'
Uscita italiana: 19 marzo 2015

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BLACKHAT - Vedere per (r)esistere

17/3/2015

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Enter. In Blackhat ci si immerge attraverso un click sulla tastiera, e subito si viene sopraffatti da una sequenza in soggettiva che dirige lo sguardo verso l’infinitamente piccolo: un oceano sommerso composto da microchip e circuiti integrati, messi in scena come un balletto nel quale i soggetti che lo compiono rimangono invisibili. Una dichiarazione di intenti cristallina e incredibilmente esplicita: il primo momento interamente in CGI del cinema di Mann è anche quello che introduce il suo film più astratto e radicale. E, di conseguenza, anche il più incompreso.
Non è una novità, purtroppo, considerando l’indifferenza generale (per non dire di peggio) che da qualche tempo a questa parte accompagna ogni singola uscita del suo autore. Mann viene preventivamente dichiarato colpevole di un cambiamento che non può essere accettato o perdonato, almeno a detta di molti. C’è stato un tempo infatti in cui sembrava impossibile non gridare al miracolo in maniera assoluta e unilaterale: il superamento del classicismo hollywoodiano di L’ultimo dei Mohicani, l’universo di storie e uomini di Heat – La sfida, il solido dramma di denuncia di Insider – Dietro la verità, unica sua incursione al di fuori dei confini di genere (e incetta di nomination all’Oscar: guarda caso). 
Persino l’infinita e sfavillante notte losangelina di Collateral esercitava un fascino dal quale era difficile sottrarsi, almeno in termini di puro piacere della visione. È da Miami Vice, però, che qualcosa sembra essersi incrinato irrimediabilmente nel suo rapporto con la critica e il pubblico, e fa male constatare quanto questo disinnamoramento coincida proprio con l’aumentare vertiginoso di una distanza: quella situata tra il presente – il qui e l’ora – e la direzione verso cui è orientato il suo sguardo. Tra la contemporaneità e il futuro.
Che il cinema di Mann sia da sempre proiettato in avanti non è certo una novità, lo si è capito sin da quei fari che illuminavano la notte nella sequenza di apertura di Strade violente; ma ora che questo moto direzionale si è fatto più frenetico e incalzante, quasi a voler sfidare (anzi, rifiutare) l’incedere del tempo (“time is luck”, “this was too good to last”), ecco, proprio adesso (qui. ora.), si fa fatica a stargli dietro. Guardare avanti significa non rimanere mai gli stessi, e questo Mann lo ha capito sin troppo bene, accettandone consapevolmente le conseguenze. Lo abbiamo accettato anche noi, nel nostro piccolo, subendo di buon grado accuse di fanatismo e di scarsa obiettività, colpevoli di aver messo insieme un’elìte pronta a gridare al capolavoro di fronte a qualsiasi cosa esca dalle sue mani. Colpevoli di (volere? sapere?) vedere, dentro un cinema che vive e respira appunto di questo gesto apparentemente spontaneo, e invece di una complessità inaudita: il vedere.

Si comincia tra le mura di una prigione, esattamente dove finiva Nemico pubblico, per seguire le vicende di Nicholas Hathaway, hacker chiamato a collaborare con l’FBI e il governo cinese per smascherare una pericolosa rete di cyber-terroristi. E questo è un film: uno tra i tanti possibili, seppure – ci dicono – particolarmente fedele alla realtà del mondo della pirateria informatica; fa piacere che ciò venga riconosciuto, ma è importante fino a un certo punto. 
Perché poi c’è un altro film, quello vero, nascosto sotto la superficie ma sempre pronto a venir fuori in mille momenti diversi, tutti grandissimi, e bellissimi, e tutti incredibilmente espliciti nella loro portata emozionale. Ci sono gli inseguimenti, è vero, e le sparatorie caratterizzate da quel realismo estremo che oramai è lecito aspettarsi da Mann: ma, più che le pallottole, a ferire maggiormente qui sono i ralenti impercettibili, gli sguardi e gli abbracci, le pause e le ellissi, i corpi che si inseguono, (si) guardano e (s)fuggono.
Tutto il cuore del cinema di Michael Mann risiede nel lavorare all’interno dei generi e del sistema hollywoodiano, cambiandone la struttura dal di dentro, ma lasciandone intatta la natura esteriore di blockbuster, con tutte le conseguenze e le incomprensioni del caso. E quindi Blackhat è un thriller d’azione fallimentare esattamente come Miami Vice era un poliziesco frammentato e incoerente, perché è un cinema che non sembra andare da nessuna parte. Cosa pensare infatti di un plot che vede un hacker galeotto trasformarsi in un poliedrico SWAT, e un villain trasandato come un clochard del quale finiamo per ignorare identità e motivazioni?
Finché non saremo disposti ad accettare che sono le storie a non esistere più, non saremo pronti per Mann e per Blackhat. Finché non riusciremo a scorgere anche solamente dal buco della serratura tutto quel mondo e tutte quelle vite celate dietro un gesto, una battuta, un momento (il grattacielo sfocato negli occhi di Viola Davis, “chi hai perso l’11 settembre?”), custodite a mò di scrigno, non varrà la pena di insistere oltre. Ma se si prova finalmente a guardare, anzi, a vedere, esattamente come ciascun personaggio continua ininterrottamente a fare, con una ostinazione che rasenta l’epica, allora sì, questo sarà un cinema per tutti; perché è talmente gonfio di amore – verso i suoi personaggi, i corpi, la vita – che lasciarlo fuggire via è un gesto di ingratitudine cieco e sconsiderato.
L’Uomo in Blackhat è un essere di carne, occhi e mani che lotta disperatamente per affermare la propria identità in un universo astratto fatto di pixel, numeri e calcoli; corre, all’insegna di un movimento continuo e senza sosta, e diventa invisibile agli sguardi degli altri perché questo è l’unico modo possibile per dimostrare di esistere ancora. Come nella resa dei conti finale durante la processione, una delle sequenze più esplicite di tutto il cinema di Mann, in cui tastiere e pc vengono finalmente messe da parte per lasciare il posto alle ferite e ai coltelli, in mezzo alla folla, senza che nessuno dei partecipanti al rito collettivo si accorga di nulla. Controcorrente, esattamente come il film tutto: consapevole di essere un oggetto in anticipo sui tempi, e quindi pronto a dare quell’ultimo, lungo addio agli affetti e alle cose, prima di svanire in un’immagine sfocata e diventare nulla. Per esistere ancora.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Blackhat
Anno: 2015
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Michael Mann, Morgan Davis Foehl
Fotografia: Stuart Dryburgh
Musiche: Harry Gregson-Williams, Atticus Ross
Durata: 133’
Interpreti principali: Chris Hemsworth, Tang Wei, Viola Davis, Leehom Wang, Ritchie Coster
Uscita italiana: 12 marzo 2015

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FOXCATCHER - Una storia americana

16/3/2015

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Stupisce, ma nemmeno più di tanto visto il discutibile trattamento riservato dall'Academy a Gone Girl di Fincher (candidato solo per l'interpretazione di Rosamund Pike) e Inherent Vice di Paul Thomas Anderson (nominato solo per la sceneggiatura e i costumi), la mancata nomination agli Oscar come miglior film a Foxcatcher. Al suo terzo lungometraggio dopo Truman Capote - A sangue freddo e L'arte di vincere, Bennett Miller - premiato come miglior regista all'ultima edizione del Festival di Cannes - realizza il suo film più maturo e compiuto, confermando di essere uno degli autori più importanti del nuovo cinema americano. 
Mark Schultz, campione olimpico di lotta a Los Angeles nel 1984, viene contattato dal magnate statunitense John du Pont, che gli propone di trasferirsi nella sua grande e lussuosa tenuta per allenarsi e mettere su una squadra di lottatori in grado di trionfare alle Olimpiadi di Seul del 1988. Mark accetta, sebbene sia costretto a malincuore a separarsi dal fratello maggiore Dave, anch’egli wrestler professionista pluripremiato, con cui ha un legame profondo e viscerale. All’inizio le cose sembrano andare per il verso giusto, ma ben presto il rapporto con du Pont, uomo instabile e controverso succube dell’anziana madre, si deteriora, portando Mark sull’orlo del baratro e innestando una serie di conseguenze drammatiche e ineluttabili.
Tratto da una storia vera, Foxcatcher si avvale della bella fotografia di Greig Fraser (Bright Star, Zero Dark Thirty), che ricorre a colori freddi per sottolineare l’atmosfera gelida e cupa che si respira per tutto il film. Nel raccontare l’ennesima storia sull’anima oscura e deformata del sogno americano, svuotato dei suoi valori, corroso dalle ipocrisie e macchiato col sangue, Miller può contare su un terzetto d'attori in stato di grazia. Channing Tatum è davvero sorprendente nella sua interpretazione di Mark Schultz, lottatore schivo e solitario dalla personalità fragile e vulnerabile nonostante l’aspetto vigoroso e la corporatura massiccia. Cresciuto sotto l’ala protettiva del fratello maggiore ma ancora alla ricerca di un punto di riferimento, di una figura paterna che s’illude di poter trovare nell’eccentrico magnate americano John du Pont, uomo controverso e problematico con una psiche instabile. Il loro rapporto, morboso e precario, è il cuore pulsante del film. 
Nei panni di du Pont troviamo un inedito, impressionante e quasi irriconoscibile Steve Carell, lontano anni luce dai ruoli brillanti che hanno contraddistinto la sua carriera. L’attore americano è a dir poco magistrale nell’impersonare il ricco industriale: i suoi sguardi, i discorsi, le pause, le corsette goffe e i combattimenti grotteschi negli allenamenti in palestra, tutto contribuisce nel rendere al meglio il suo personaggio. La sua andatura ricorda quella di un sonnambulo, un uomo che ha perso o che più probabilmente non ha mai avuto contatto con la realtà circostante. 
Tra queste due figure, in perenne conflitto tra loro e con se stesse, se ne inserisce una terza, quella di David Schultz. Un uomo equilibrato, un padre di famiglia coi piedi ben piantati per terra coinvolto suo malgrado nel rapporto malsano che unisce Mark a du Pont. David, oltre a essere un atleta impeccabile, è anche un allenatore capace e attento, una persona decisa e rassicurante, costantemente in apprensione per suo fratello minore. Ad interpretarlo è Mark Ruffalo, attore sempre più bravo col passare degli anni, capace di conferire grande umanità e sensibilità al suo personaggio, che raffigura la parte sana, pulita e costruttiva della società americana contrapposta invece alla parte oscura, fanatica e malsana ben rappresentata da du Pont.
Durante la visione di Foxcatcher si ha spesso la percezione di un senso di scoramento, disagio e desolazione, unito alla spiacevole sensazione di una tragedia prossima a manifestarsi. La tensione rimane costante, anche grazie a un tappeto sonoro preciso e puntuale nel conferire alle immagini maggiore drammaticità e intensità. Attraverso una narrazione classica e robusta ben sostenuta da una sceneggiatura ineccepibile, Bennett Miller dipinge da par suo un ritratto inquietante, sinistro e doloroso di un’America ferita e vulnerabile, piena come non mai di mille contraddizioni.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Foxcatcher
Anno: 2014
Regia: Bennett Miller
Sceneggiatura: E. Max Frye, Dan Futterman
Fotografia: Greig Fraser
Musiche: Rob Simonsen
Interpreti principali: Steve Carell, Channing Tatum, Mark Ruffalo
Durata: 134’
Uscita italiana: 12 marzo 2015

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VIZIO DI FORMA - La corruzione dell'anima

2/3/2015

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When the winter rains come pourin' down
On that new home of mine
Will you think of me and wonder if I'm fine?

Will your restless heart come back to mine
On a journey through the past?
Will I still be in your eyes and on your mind? 
(Neil Young – Journey Through The Past)


Telefonami, magari
Tu non mi hai mai lasciata sola, Doc.
Non c’è problema, dai. Io…
No, davvero: mai.
Oh…ma sì che è successo.
Mi sei sempre stato vicino.


Paul Thomas Anderson mette in scena la trasposizione cinematografica di Inherent Vice, di Thomas Pynchon, un testo denso e stratificato, non facile da portare sul grande schermo in quanto visione allucinata di un’America anni settanta che si trascina tra acidi, surfisti, hyppies sballati e poliziotti corrotti. Eppure il regista di The Master e Boogie Nights è abituato a stupire lo spettatore con la sua narrazione cinematografica che avvolge lo sguardo e lo ipnotizza. 
In questo caso, poi, l’ipnosi è certamente favorita dalle smodate quantità di droghe assunte dai protagonisti del film e dal loro contagioso e pressoché perenne stato di alterazione sensoriale; lo stesso stato semicatatonico di una nazione che non riusciva a focalizzare il suo sguardo obnubilato sulle mille nefandezze che infestavano il sogno americano. Siamo nel bel mezzo della Age of aquarius, gli anni in cui Nettuno era il pianeta dei fattoni e Urano quello delle sorprese scurrili (Neptune, the doper's planet, and Uranus, the planet of rude surprises), delle coroncine di fiori tra i capelli, delle collanine di conchiglie e dei succulenti extra al Chick Planet Massage a cui avevi diritto se eri uno sbirro.
Vizio di Forma si apre su un mare hopperiano, costretto tra la rigidità di due edifici bianchi e squadrati; una superficie appena increspata, apparentemente calma, ma percorsa in profondità da mille correnti, forti e contrastanti, che, proprio come nei quadri di Edward Hopper, trasmette inquietudine e getta una luce sinistra sulla storia che sta per dipanarsi. 
Il pynchoniano Doc Sportello, con le fattezze stropicciate di Joaquin Phoenix, racchiude in parte i tratti del chandleriano Marlowe, meno gigione e più sornione, più orientato alla marijuana che ai superalcolici. Ossessionato, spaventato e circondato dalla paranoia (“paranoia alert”, scrive sul suo taccuino, durante un incontro con uno dei suoi clienti). Un investigatore privato dall’andatura incerta e con i piedi sporchi, in perenne conflitto con gli sbirri di Los Angeles, specialmente con “Bigfoot” Bjornsen (Josh Brolin), poliziotto burbero, il cui osceno amore per i gelati alla banana ben si sposa con una struttura fisica che riporta alla mente il nintendiano Donkey Kong. 
Doc Sportello è sovente risucchiato dal suo divano, come il drugo del Grande Lebowski di Joel e Ethan Coen, o Robert De Niro in Jackie Brown di Quentin Tarantino, e su quel divano i pensieri si aggrovigliano intorno a uno scopo unico, il suo eterno amore, la sua ex fidanzata, Shasta Fay Hepworth; come in un classico noir l’obiettivo è salvare la donna, persa in un intricato affare di amanti, complotti e zanne dorate. 
Anderson non lesina mai sprazzi di dolcezza; una poetica malinconica caratterizza tutto lo scorrere del film, come nella scena in cui, sotto la pioggia, mano nella mano, i due amanti riescono a dimenticare la crisi d’astinenza con un’infusione di dolcezza mentre, in sottofondo, scorrono le note di Neil Young e la sua Journey Through The Past accompagna il fluire dei ricordi. Annegando, insieme, in un faithnomoriano “underwater love”, folle, impossibile, ma totalizzante. 
Vizio di forma è percorso da una sottile ma tangibile vena erotica, come tutti i film di PTA. Il regista riesce, in un perfetto gioco di equilibrio, tra ironia e sfumature noir, a impregnare la pellicola di un tossico brulichio sensuale e pruriginoso. Il primo sussulto ormonale lo si avverte fin dalla prima fugace apparizione di Shasta, stretta nel suo abitino arancione, corto quanto basta per donare allo spettatore un energico schiocco di frusta al cuore, e non solo. 
Nella città degli angeli si intrecciano personaggi e storie che si sovrappongono e scorrono parallelamente su piani diversi, destinati a incontrarsi occasionalmente all’interno di una narrazione frammentaria, come il linguaggio filmico scelto da Anderson, che cerca di restare fedele e aderente alla linea dettata dalla scrittura di Pynchon. Imprenditori immobiliari miliardari, surfisti sassofonisti, dentisti pedofili ed eroinomani, ebrei nazisti, sbirri corrotti, pupe in calore, la Black guerrilla family e la Fratellanza ariana: questa è la poliedrica umanità di Vizio di Forma. 
Il tramonto degli anni ‘60 e i primi vagiti dei ’70, l’infrangersi del sogno americano, sono raccontati con verve e ironia dal testo pynchoniano; la stessa ironia è portata sullo schermo da Anderson, che dipinge e caratterizza fortemente non solo i personaggi del film ma tutto lo spaccato storico e sociale a cavallo tra un decennio e l’altro, pieno di luci, colori e suggestioni, in un’atmosfera che nascondeva proprio tra quei colori, così saturi e sgargianti, il lato oscuro e marcio di una nazione e dei suoi vizi. Come prima di lui aveva fatto Terry Gilliam, sulla base del testo di Hunter S. Thompson, in Paura e Delirio a Las Vegas, così il regista di The Master si confronta con lo sgretolarsi dell’utopia dei sixties, senza peraltro attingere all’universo grottesco e allucinato di Gilliam; si affida invece a un piglio beffardo e pungente, traendo ispirazione dai crime movies e dalle pellicole in bianco e nero del noir classico, con rimandi allo stile di film come The Big Sleep di Howard Hawks, Kiss Me Deadly di Robert Aldrich e The Long Goodbye di Robert Altman.
Anderson dirige un’opera corale in cui ogni interprete risulta credibile e ben amalgamato con il resto del corpo attoriale; personaggi ben strutturati e in perfetta armonia tra loro. La mdp si sofferma sovente a scrutare volti e sguardi, in primi piani stretti o piani americani, donando la parola ora agli occhi, ora alle espressioni fortemente caratterizzanti di Joaquin Phoenix, Owen Wilson, Josh Brolin e Benicio Del Toro.
L'autore non cede alle lusinghe di un’estetica patinata, ma mette in scena una fotografia a tratti rarefatta e sgranata con i colori e le sfumature degli anni 70, i vestitini sgargianti, le minigonne inguinali alla Twiggy; gli sguardi incorniciati da battiti di lunghe ciglia finta, palpitanti a ogni sguardo, come ali di farfalla, impreziosiscono tutto. Anderson riesce nell’impresa titanica di condensare in un film non solo il romanzo ma forse l’intera anima della scrittura di un grande autore e lo fa con amore, in modo quasi chirurgico, rimanendo fedele alla narrazione testuale di Thomas Pynchon. 
Il cinema di Anderson, in questa sua ultima opera, attraverso l’uso di un linguaggio filmico disincantato e tagliente, tra narrazioni, immagini, suoni, personaggi che si sovrappongono, convivono e si confondono, assume la forma dilatata e confusa della libertà, la libertà di seguire un tessuto fluido in continuo movimento; è questa mutazione continua che esercita una forte fascinazione sullo sguardo dello spettatore meno sprovveduto, e su chi si lascia risucchiare dal vortice magmatico di Anderson e di Pynchon, in balia di una meravigliosa allucinazione.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica

Titolo originale: Inherent Vice
Anno: 2014
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Fotografia: Robert Elswit 
Musiche: Jonny Greenwood
Durata: 148'
Uscita in Italia: 26 febbraio 2015 
Interpreti: Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Katherine Waterston, Owen Wilson, Benicio Del Toro, Reese Whiterspoon

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