ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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GRAVITY - Verso la trascendenza

28/12/2013

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La gravità e la sua negazione. Alfonso Cuaròn, nella sua prima incursione nella fantascienza pura, ci porta direttamente fuori dalla terra. Il regista aveva già approcciato il mondo futuribile e futuristico con l’apocalittico Children of Men, ma con Gravity compie un passo avanti nella discussione sulla natura dell’uomo andando addirittura a segnarne i nuovi contorni, dentro e fuori la dimensione terrestre.
L’ingegnere Ryan Stone (Sandra Bullock) e Matt Kowalski (George Clooney), un astronauta esperto, sono impegnati in una missione spaziale. Del tutto inaspettatamente qualcosa va storto, e i nostri si trovano d’improvviso smarriti tra la vita e l’oblio, costretti a lottare per la loro sopravvivenza in un ambiente vuoto e denso al tempo stesso, in uno spazio unico e totalizzante che risucchia gli uomini come granelli e getta su di loro scie di oggetti, pezzi, frammenti. Gli scarti dell’umanità tornano all’uomo perché nulla è mai veramente perduto. Panta rei, forse, in un’altra dimensione. Qui tutto torna indietro. Anche la vita richiama la vita.
Un thriller fantascientifico, ma soprattutto una riflessione filosofica ambiziosa e magnificamente riuscita. Non siamo dalle parti di 2001: Odissea nello spazio, ma Cuaròn trova la sua originalità in un taglio introspettivo che, nel gioco gravitazionale della macchina da presa senza appigli, esplora il senso dimenticato dell’essere uomo. Tutto è precario e in divenire, dentro e fuori lo spazio cinematografico, non spaziale. La macchina da presa rotea dentro la cornice del film alla stregua di un qualsiasi altro oggetto smarrito, di fatto dando l’impressione dell’assenza di gravità, con la costante lentezza dei movimenti che girano attorno alla protagonista, confondendo prospettive e punti di vista. Non sarà lei a girare attorno alla macchina da presa? Al cineocchio di Cuaròn? Non sarà la Bullock a volteggiare attorno alla terra? A ridiscuterne i contorni, gli spazi, la profondità, la piccolezza?
Senza punti di riferimento né stabilità, Ryan Stone cerca di sopravvivere trasformando il suo corpo-oggetto in mezzo per l’azione, facendo valere la forza dello spirito e il potere dell’intelligenza. Ciò che ci salverà. Un corpo senza peso si aggrappa alla vita. L’umanità dominante sulla Terra si rivela così piccola, fragile, inconsistente. La collisione, con i suoi oggetti impazziti a formare il vero elemento thrilling della storia, è metafora delle avversità. Siamo soli eppure non saremo mai immuni dalle sventure, dagli ostacoli inaspettati, dalla pioggia di piccoli e grandi problemi che trovano, puntano, talvolta colpiscono le nostre vite. Possiamo solo affrontare ciò che capita e, nel tempo della rivoluzione intellettuale, scegliere che sia la nostra mente, lo spirito, l’innato e disperato senso di speranza e sopravvivenza ad agire con noi, per noi.
Gravity mostra la magia di un 3D che cattura lo spettatore nel mirabolante e terrificante volteggiare attorno al nulla. Ma sarebbe riduttivo ricondurre la bravura di Cuaròn alla sua abilità tecnica. Le scelte registiche sono e diventano di fatto scelte narrative, interconnesse non solo con la storia ma anche con la fotografia, il montaggio e la sontuosa colonna sonora.
Cruciale anche la scelta degli attori. La presenza di una star come George Clooney sembra voler offrire allo spettatore un punto di riferimento, l’unico elemento stabile nel prologo all’avventura spaziale dell’ultima donna fuori dalla terra. Quando il pilastro viene meno, la sua assenza apre un buco intangibile e percepibile, e destabilizza la protagonista come gli spettatori. Sul nodo della solitudine, Alfonso Cuaròn struttura parte della sua straordinaria visione spaziale. Tutto si presenta come fisso, concreto, addirittura rassicurante, fino al momento in cui ciò che avevamo dato per certo, d’un tratto, svanisce. Fino al momento in cui Eva, la prima donna, viene abbandonata da Adamo e costretta a rincorrere se stessa nella poetica, tragica, ineluttabile escursione spaziale.
Sandra Bullock, impegnata nella sua prova più matura e difficile, utilizza qui per la prima volta la sua fisicità per negarne lo stile, l’essenza, gli effetti. Costretta a un lavoro impressionante sulla corporeità, la Bullock scava dentro di sé per dare una vita e una luce complessa al personaggio di Ryan Stone, al suo corpo senza senso, orientamento, peso, gravità. Ai suoi respiri, sospiri. Alle preghiere pagane, divine. A un corpo come cosa inerte, involucro fluttuante dentro il quale si agita e anima lo spirito di una umanità vibrante, abbandonata, ostinata di tornare. Tornare dove? Strappare il cordone ombelicale con la rassicurante figura paterna implica una rincorsa verso l’ignoto, dentro gli spazi neri, impalpabili e consistenti, dell’estraneità alla vita terrena. 
Dobbiamo perderci per ritrovare la bussola. Possiamo anche morire, ma come anime nuove dal grembo di un’altra esistenza possiamo rinascere. Giovani, puri. Nella conoscenza.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Alfonso Cuaròn
Sceneggiatura: Alfonso Cuaròn, Jonás Cuarón
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Colonna sonora Steven Price
Montaggio: Alfonso Cuarón, Mark Sanger
Scenografia: Andy Nocholson
Interpreti: Sandra Bullock, George Clooney
Anno: 2013
Durata: 91'
Uscita italiana: 3 ottobre 2013

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PHILOMENA - Confortevole semplicità

24/12/2013

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Ispirato alla vera storia di Philomena Lee, raccontata nel libro di Martin Sixsmith The Lost Child of Philomena Lee, l’ultimo film di Stephen Frears narra di una donna irlandese che solo da anziana decide di rimettersi sulle tracce del figlio, lo stesso figlio che le era stato negato da adolescente quando, rimasta incinta in seguito al rapporto occasionale con uno sconosciuto, Philomena era stata ripudiata dalla famiglia e rinchiusa in un convento di suore (correva l’anno 1952 e una simile faccenda non poteva che essere insabbiata all’istante). Quel bambino le era stato strappato dal grembo per essere dato in adozione dalle monache com’era a quel tempo consuetudine. Da allora, nessun contatto e neanche la minima notizia. 
Nel frattempo però, la curiosità inevitabile ma soprattutto un crescente e indomabile senso di colpa si è impossessato di Philomena, che adesso non può più aspettare e vuole tentare a tutti i costi il sospirato ricongiungimento. Sarà grazie al sostegno di Martin, un giornalista d’area laburista, che Philomena si persuaderà di poter ritrovare il figlio che la vita le ha sottratto.
Philomena è un film per molti aspetti impeccabile: un’opera di una pulizia assoluta, scritta col contagiri, calibrata e ispirata da un’encomiabile compostezza in ogni sua componente. È il film più classico e formalmente rassicurante che Frears abbia mai fatto, e la cosa sorprende fino a un certo punto chi conosce davvero il regista di Rischiose abitudini: nonostante l’anima punk di gioventù, Frears non ha mai lesinato mosse più prevedibili, in cui il suo frizzante libertinismo emergesse solo di rimando o non venisse fuori affatto. Si pensi al recente Chéri o all’acclamato The Queen, forse l’esempio massimo di questa tendenza prima di Philomena.
A dispetto di un film come Tamara Drewe, smutandato e sfrontato fin che si vuole nelle sue unghiate irriverenti a un sistema di valori borghese, quando si parla di Frears tradizionalismo non deve sempre essere una parolaccia né una categoria fuori posto, da aborrire o tantomeno per cui stranirsi. Dopotutto parliamo di un britannico e si sa, nel Regno Unito i punk sono sempre stati ad alto tasso di “conversione”, spesso pronti a edulcorarsi in forme generaliste di anarchia (senza necessariamente dover citare l’esempio anti-utopico di un cineasta a detta di chi scrive deteriore come Danny Boyle).
Il film con Judi Dench e Steve Coogan si inserisce allora nel filone più catchy e meno acido della filmografia di Frears; è un lavoro in larga parte amabile, che lì per lì può anche irritare qualcuno per la sapienza un po’ troppo smaliziata con cui assesta il classico colpo al cerchio e alla botte ma che sulla lunga distanza non manca di sedimentarsi nella memoria e di suscitare un tutt’altro che spiacevole effetto di rassicurante serenità. È vero, è un film per educande, per signore, per spettatrici occasionali della domenica pomeriggio: in nome di un cinema il più possibile confortevole silenzia ogni eccesso e si affida a un’attrice portentosa e a una brillante spalla che regge a meraviglia ogni duetto con risultati tra l’amaro e il gioviale, facendo sospirare nostalgicamente nel nome della commedia, pudica e ripulita, di una volta. Non dimentica nemmeno di smussare gli angoli controversi che da questa storia potrebbero inavvertitamente venir fuori: la brutale vena coercitiva delle istituzioni irlandesi di quegli anni per esempio non emerge mai e non avrebbe neanche ragione di farlo, in un film così.
La regia di Frears si limita a ondeggiare con grazia olimpica attraverso un flusso narrativo che si lascia puntellare senza esitazione da momenti brillanti come da autentici mini-sketch (se si pensa alla sequenza aeroportuale) e Philomena sembra così guardare al mondo con gli stessi occhi della sua protagonista, lineari, semplici e diretti quanto più possibile. Rispetto a essi compie però anche un considerevole scarto in avanti, tutt’altro che banale: fa emergere il lato negativo e controproducente della candida ignoranza e della superficialità malsana di una donna che a forza di essere leggerina si è vista passare gran parte della propria vita davanti, come se nulla fosse meritevole d’attenzione e tutto potesse limitarsi a un sovrapporsi di coincidenze che possono funzionare o meno (chi lo sa, chi può saperlo) o al bozzettismo rosa di qualche sciocco romanzo d’amore, dei quali Philomena è un’avida lettrice. Pur nella sua mielosità apparentemente senza conseguenze, Frears qualche asso dalla manica in fin dei conti lo trova comunque, ma il suo vero obiettivo resta bagnare il viso dello spettatore senza per questo indurlo alla commozione attraverso enfatiche e grossolane scorciatoie.
L’unico terreno sul quale il film rischia in parte di inciampare è quello della dicotomia cattolici-protestanti, forse l’unico mezzo passo falso di una sceneggiatura equilibrata e apprezzabile: certe battute ammiccano tanto da una parte tanto dall’altra con l’intento di strappare applausi da ambedue i lati (come quelli fragorosi che vi furono a Venezia sul “fottuti cattolici!”) e il risultato ne risente in modo non indifferente. Ancora una volta, la si può leggere come l’ennesima demistificazione a tutto campo dell’anarchico Frears, che si serve di un personaggio così naif per mettere alla berlina gli uni e gli altri senza risparmiare nessuna delle due parti. L’esito reale però in questo caso pare solo furbamente oscillatorio, giustificando quanto si diceva all’inizio sulla calcolata piaggeria di cui Philomena a tratti sembra macchiarsi.
È l’unico peccato sottolineabile, e comunque venale, di un film che del suo convenzionalismo si bea senza essere fastidiosamente stereotipico, con due personaggi scritti alla perfezione e una semplicità mai becera. Verrebbe da pensare che un film per tutti e apprezzabile da chicchessia di questa fattura non sia, specie di questi tempi, cosa da tutti. Come non lo è saper stare dalla parte dello spettatore senza intortarlo e manipolarlo ma offrendogli una storia impostata su pilastri soliti, genuina ma non per questo innocua.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2013
Regia: Stephen Frears
Sceneggiatura: Steve Coogan, Jeff Pope
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Valerio Bonelli
Musiche: Alexandre Desplat
Durata: 94'
Interpreti: Judi Dench, Steve Coogan, Neve Gachev, Charlie Murphy

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DIETRO I CANDELABRI - Requiem for a Dream

17/12/2013

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Ci sono percorsi, sorprendentemente in salita, di registi in grado di stupire proprio quando non ci si sperava più. Come quello di Steven Soderbergh, ex enfant prodige del cinema americano, baciato troppo presto dall’autorializzazione precoce (la Palma d’oro nel 1989 per Sesso, bugie & videotape, a soli ventisei anni) e da tutti i rischi che ne sono conseguiti. Autore freddo e cerebrale, capace di convincere là dove le smisurate ambizioni lasciavano il passo a un’idea di intrattenimento intelligente (Out of Sight, Ocean’s Eleven), un po’ meno in tutti gli altri casi, almeno ad opinione personale ed opinabilissima di chi scrive.
Poi c’è il Soderbergh degli ultimi anni, almeno a partire da Contagion. Quello che sembra aver subordinato la sua intera idea di cinema al servizio di un elemento intorno al quale, ora, far ruotare tutto il resto: il corpo. Il corpo fisico, in senso prettamente attoriale. Anzi, ancora meglio: il corpo della star, delle celebrità, di quei tanti volti notissimi al grande pubblico che puntualmente si sono messi al suo servizio, a volte anche solo per apparizioni di pochi minuti. Con risultati altalenanti e non sempre in grado di andare fino in fondo (il già citato Contagion, ma anche un Magic Mike, ad esempio), ma sempre e comunque portatori di un pensiero di cinema intenzionato ad andare oltre il narrato, oltre l’apparenza immediata di ciò che veniva messo in scena. Come a voler continuamente spostare il proprio sguardo altrove, senza mai arrendersi alle coordinate di quella superficie patinata e luminosa che è e rimane, inevitabilmente, il biglietto da visita del proprio stile.
Se il bellissimo (e sottovalutatissimo) Knockout era la rabbiosa dichiarazione di indipendenza di un corpo – quello di Gina Carano - vivo e perennemente in lotta, perché il combattimento era l’unico strumento di sopravvivenza all’interno di un universo astratto e immateriale, fatto di continui spostamenti geografici e di traiettorie mancate, Dietro i candelabri è davvero il canto del cigno della Bellezza. Il suo requiem. In giro si fa un gran parlare che sia l’addio al cinema di Soderbergh: ammesso che questo sia vero (ma è così interessante, poi?), non potrebbe esserci una chiusa migliore.
In questa lucidissima autopsia dello star system hollywoodiano, in cui i costumi, i candelabri, le paillettes e i lustrini inondano l’inquadratura di luce solamente per evidenziarne e smascherarne il vuoto, i corpi di Michael Douglas e Matt Damon sono i bisturi attraverso i quali squarciare il velo delle ipocrisie fatte carne; quello che ne emerge è un grandissimo racconto di amore e morte, tanto sfavillante quanto inesorabilmente destinato a una fine. Tessuti di nervi e sangue intrappolati in una villa-mausoleo, sottoposti a qualsiasi forma di dipendenza (Effetti collaterali) e malattia (Contagion), ma sempre e comunque bisognosi di amore fino all’ultimo respiro. Un melò, quindi, in piena regola. Ma a Soderbergh tutto interessa fuorché realizzare l’ennesimo biopic su un protagonista della scena americana a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta: la vita e gli amori di Liberace sono piuttosto il pretesto per mettere in scena l’ennesimo horror sulla mostruosità e sulla possessione.
Un film in cui il desiderio si intreccia con la manipolazione e dove la relazione diventa metamorfosi, come se l’unico modo per riuscire davvero ad amare ed essere amati sia trasformarsi (fisicamente) nell’altro, alla stregua di un riflesso sullo specchio. Finalmente, e lo sottolineiamo, finalmente una felice contaminazione tra l’immaginario sottilmente ambiguo del Frankenstein di James Whale e il melodramma sempre sul punto di esplodere firmato Douglas Sirk, ma anche una rivisitazione colta e raffinata dell’immortale Occhi senza volto di Georges Franju, fosse anche solo per quelle sequenze di operazioni di chirurgia plastica così straordinariamente finte. E poi un cast in stato di grazia, nel quale persino le brevi e fugaci apparizioni di Rob Lowe (quasi nei panni del mostro cattivo: siamo in un horror, ricordate?) assumono una statura gigantesca.
Una grande opera degna dei tempi in cui viviamo, un affresco sulle menzogne di un mondo in rovina; un funerale messo in scena con tanta eleganza e patinatura da non sembrare neanche tale: ma la morte è sempre lì, dietro l’angolo, a smascherare parrucche e a mostrare pallidi visi scheletrici all’approssimarsi dell’ultima ora.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Behind the Candelabra
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Richard LaGravenese
Musiche: Marvin Hamlisch
Fotografia: Peter Andrews (Steven Soderbergh)
Durata: 118’
Anno: 2013
Uscita in Italia: 5 dicembre 2013
Attori principali: Michael Douglas, Matt Damon, Dan Aykroyd, Rob Lowe, Scott Bakula, Debbie Reynolds

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LO HOBBIT - Il Sense of Wonderful di Peter Jackson

15/12/2013

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Arrivato al secondo capitolo della sua nuova trilogia incentrata su Lo Hobbit, prima incursione letteraria di J. R. R. Tolkien nella Terra di Mezzo, dopo l’epica e titanica impresa di trasporre per il grande schermo Il Signore degli Anelli, Peter Jackson dimostra nuovamente tutta la sua maestria nel suscitare quel sense of wonderful nello spettatore, sempre più smaliziato e assuefatto alle pellicole ad alto tasso di spettacolarità a causa dei continui progressi nel campo della computer grafica.
Si riparte dunque da dove si era interrotta la narrazione nel capitolo precedente, con Gandalf, Bilbo e i nani impegnati nel difficile compito di raggiungere la Montagna Solitaria per sconfiggere il temibile drago Smaug e riconquistare le inestimabili ricchezze contenute al suo interno. Il viaggio reso ancora più arduo dall’improvvisa uscita di scena di Gandalf, costretto a separarsi dal gruppo per occuparsi di un’oscura e incombente minaccia che rischia di travolgere la Terra di Mezzo. Tra ragni giganti, elfi ostili e orchi crudeli Bilbo e i nani di Thorin Scudodiquercia riescono infine ad arrivare a Pontelagolungo, cittadina a un passo dalla Montagna Solitaria, dove li attende l’astuto e mefistofelico Smaug, pronto a tutto per non farsi sottrarre il suo enorme tesoro.
Se nel primo episodio il ritmo stentava a decollare, come se il film fosse incapace di scrollarsi di dosso il pesante fardello dovuto all’inevitabile confronto con la trilogia dell’Anello, in Lo Hobbit: la desolazione di Smaug non si corre certo questo pericolo. Dopo un prologo ambientato a Brea (con l’immancabile e divertito cameo di Peter Jackson), antecedente gli eventi descritti nel primo film, dove ci viene mostrato il primo incontro tra Gandalf e Thorin alla locanda del Puledro Impennato, veniamo subito catapultati nella concitata fuga di Bilbo e dei suoi compagni di viaggio inseguiti dagli orchi guidati da Azog. 
In questo secondo episodio il ritmo è più fluido ed elevato rispetto al primo film, esattamente come era già accaduto con Le due Torri rispetto alla Compagnia dell’Anello. I toni si fanno più cupi e dark, i momenti ironici e brillanti del capitolo precedente vengono meno per lasciare spazio a una narrazione epica e frenetica costellata da numerose sequenze di combattimenti dove ritroviamo l’elfo Legolas interpretato sempre da Orlando Bloom, inserito appositamente in fase di scrittura nonostante il suo personaggio non faccia parte del romanzo alla base del film. È una delle tante libertà artistiche che gli sceneggiatori Guillermo del Toro, Philippa Boyens, Fran Walsh e lo stesso Peter Jackson si sono concessi per creare una sorta di continuità con Il Signore degli Anelli, com’era già accaduto nel prologo de Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato con la presenza di Elijah Wood nei panni di Frodo.
Legolas è anche tra i protagonisti di una delle sequenze più complesse dell’intero film, destinata a lasciare a bocca aperta gli spettatori di mezzo mondo per l’abilità tecnica e l’incredibile virtuosismo con cui è stata concepita e realizzata: ci riferiamo alla scena della fuga a rotta di collo dei nani dentro i barili lungo le rapide del fiume, con gli orchi alle calcagna e il leggendario elfo impegnato in incredibili acrobazie per riuscire a fronteggiarli. Ad affiancarlo troviamo l’elfa Tauriel impersonata da Evangeline Lilly (la Kate di Lost), personaggio mai apparso in alcuna opera di Tolkien, creato appositamente in fase di sceneggiatura per dar vita a una inutile storyline romantica con l’accenno a un improbabile triangolo interspecie che coinvolge addirittura Kili, uno dei nani della compagnia di Thorin. Un innesto abbastanza forzato per implementare le “quote rosa”, che altrimenti in pratica non sarebbero pervenute in questo secondo capitolo se si esclude la fugace presenza di Cate Blanchett nei panni di Galadriel.
In Lo Hobbit: la desolazione di Smaug assistiamo alla trasformazione, lenta ma inesorabile, di Bilbo - interpretato da un bravissimo Martin Freeman - che inizia a sentire il peso dell’anello e ad esserne al contempo impaurito e affascinato. Lo hobbit sereno e pacifico che mai si sarebbe sognato di allontanarsi dalle rassicuranti comodità del proprio focolare è solo un lontano ricordo: col proseguire del viaggio lo osserviamo acquistare una maggior intraprendenza e un coraggio non comune nell’affrontare le numerose insidie che nella parte finale del film assumono le maestose e sbalorditive fattezze di Smaug, l’ennesima, mirabolante creazione digitale della Weta. 
Assolutamente vincente la scelta di chiamare l'attore inglese Benedict Cumberbatch a prestare la sua voce, profonda, suadente e cavernosa e le sue movenze, sinuose, eleganti e minacciose alla terrificante creatura sputafuoco. Il duello a colpi d’astuzia tra Bilbo e il drago è il cuore pulsante del film, destinato a rimanere a lungo negli occhi degli spettatori, rapiti da cotanta meraviglia. Divertente notare come i due attori impegnati in questo originale e impari duello da qualche anno facciano coppia fissa sul piccolo schermo della Tv britannica nell’acclamata serie Sherlock, di cui è attesa a breve la terza stagione, dove Freeman interpreta il dottor Watson e Cumberbatch il perspicace e acuto Sherlock Holmes.
Con un finale che sadicamente ci lascia sul più bello - con un vero e proprio cliffhanger da serie Tv - dopo oltre due ore e mezza di paesaggi mozzafiato, combattimenti e scorribande nella suggestiva Terra di Mezzo Lo Hobbit: la desolazione di Smaug può dirsi pienamente riuscito nel suo intento di farci agognare la visione dell’ultimo e definitivo tassello della nuova trilogia, da cui come di consueto ci separa una logorante attesa lunga un anno.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Hobbit: The Desolation of Smaug
Anno: 2013
Uscita in Italia: 12 dicembre 2013 
Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura: Guillermo del Toro, Philippa Boyens, Fran Walsh e Peter Jackson
Fotografia: Andrew Lesnie
Musiche: Howard Shore
Durata: 161 min.
Attori: Ian McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, Benedict Cumberbatch, Evangeline Lilly

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BLUE JASMINE - Dramma dell'inadeguatezza

9/12/2013

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La vita di Jeanette è baciata dal lusso e dagli agi, con un marito ricchissimo e la possibilità di sguazzare nell’oro e nel benessere. Ma quando si scopre che il suo consorte altro non è che un adultero ingannatore e un truffaldino poco di buono, l’esistenza di Jasmine (il nuovo nome, ben più esotico, che lei ha scelto di portare), oltre a naufragare dal punto di vista familiare, precipita vorticosamente in una spirale di fragilità, tra disturbi mentali e psicofarmaci, alcol e isteria. Non verrà mai meno, però, la sua altezzosità impettita, quella delle borse Vuitton e della necessità di viaggiare in aerei di prima classe: Jasmine si ritroverà a parlare da sola, con indosso un capo Chanel ma con i capelli bagnati e gli occhi tempestati di trucco sbavato. E non potrebbe esserci immagine più eloquente di una vita così contrastata e demolita dalle contraddizioni al punto da sfociare alle soglie della schizofrenia e della dissociazione.
Con Blue Jasmine Woody Allen torna a vestire i panni del tragico, gli stessi che nella sua carriera ha qua e là indossato (soprattutto dopo i suoi maggiori successi), senza però riscontrare mai particolare plausi né di pubblico né di critica. Rispetto a film come Interiors e Settembre l’ultimo lavoro del regista newyorkese si pone però su una galassia ben diversa, su un livello che lo rende a conti fatti uno dei film migliori di tutta la sua sterminata e prolifica produzione. Niente a che vedere coi toni cupi e bergmaniani del passato: in Blue Jasmine ci si trova davanti a un Allen in cui la nevrosi e l’esagitazione appaiono necessarie come raramente lo sono state, pilastri portanti di un dramma dell’inadeguatezza e dell’instabilità che permea le strutture sociali della nuova, alta borghesia americana e le fa collassare dall’interno, ritraendola con livore spasmodico e crudeltà tagliente, con una cattiveria che stavolta si fa davvero fatica a dissimulare dietro i luoghi comuni e i tic satirici dell’ironia alleniana, che tutto dovrebbe occultare e smorzare sempre e comunque.
Forte di uno stile narrativo a incastro basato su flashback continui che ricordano lo straniamento di Un’altra donna, l’Allen di Blue Jasmine è quello dei Tennessee Williams, dei Cechov e dei Cassavetes, delle giostre prive di senso di esistenze dolorose spazzate via dalla crisi economica, della difficoltà di trovare un posto in un mondo in perenne cambiamento. Jasmine ritorna alla sua famiglia non appena tutto le crolla addosso, ma la sorella Ginger è così distante da lei, coi suoi uomini ostinatamente rozzi e a detta di Jasmine inadeguati, che poco o nulla tra loro riesce a funzionare a dovere. Ginger fa la cassiera, sta con un meccanico di nome Chili, l’unico personaggio maschile di Blue Jasmine a non essere integralmente negativo ma che pure ha scatti di gelosia che lo portano a staccare i telefoni dal muro con violenza. Ed è proprio a partire dal disegno dei suoi personaggi che Allen aggiorna la sua visione delle relazioni umane alla contemporaneità, alla crisi dei valori e delle certezze, ai mutamenti di una realtà cangiante e faticosa da inseguire.
È pertanto davvero un piacere ritrovare un Woody Allen di magnificenza talmente devastante, così febbrile e frizzante, baciato da un amaro pessimismo che non ha bisogno di nubi londinesi ma può vivere anche nella dorata, ambivalente luce pastosa e giallo-dorata di New York (e San Francisco): la perfetta cornice cromatica, luccicante e danarosa, per un film che merita di stare nell’empireo alleniano anche solo per come ragiona sui ruoli di classe, facendo dell’ansia compulsiva connessa al proprio status economico il grimaldello di una tensione che dai salotti dell’Upper East Side investe le parole e le cose, i rapporti e gli affetti, le poche gioie e i tanti dolori, i decadimenti sociali e le ambizioni di rivalsa.
Uscendo da un certo mortificante allenismo - autoriale e critico - che spesso (troppo spesso) l’ha imprigionato nella stanca e vuota ripetizione di sé, l'autore ribadisce, come se ce ne fosse bisogno, che il suo cinema ha ancora molto da dire sulla società, sul mondo, sulle forze che muovono il globo e sulla fatiscenza, fragile, generosa e commossa, dell’esistenza umana e delle sue fatue girandole. E Blue Jasmine, oltre a una sceneggiatura di ferro come Allen non ne scriveva da anni e anni, può vantare una regia di sorprendente vigore e una protagonista in grado di sbalestrare e irretire con le sue debolezze e i tremori, le sue lacrime calde e nere e lo Xanax, i suoi Martini e l'eleganza decaduta. La Jeanette/Jasmine di Cate Blanchett, novella Blanche Dubois destinata all’impazzimento, è una principessa logora e detronizzata, che si è ingannata, che ha convissuto con le sue illusioni senza vederle o volerle vedere e ora si ritrova sommersa dal peso instabile di una mistificazione che chiede il suo tributo, come sempre e senza scampo.
Jeanette/Jasmine finisce prigioniera di un monologo condotto da una delle tante gloriose panchine alleniane che in questo caso non può non essere rivolto direttamente a se stessa, schiava di un’esistenza che è deragliata, di un gomitolo di vita che è diventato un groviglio impossibile da dipanare: le cose un tempo chiare ora sono ingarbugliate, il romanticismo è diventano sinonimo di dramma, il sentimentalismo jazz di Blue Moon ha lasciato definitivamente il posto alla convulsione blu elettrico di un’anima sola e perduta, abbandonata a se stessa, tremante come una foglia. 
L’ultimo Allen è una riflessione sulla falsità degli inganni auto-procurati, che stringe il cuore in una morsa e fa malissimo. Un capolavoro di quelli veri, in cui, al di là di ogni richiamo alla tragicommedia, c’è davvero ben poco da ridere.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Blue Jasmine
Anno: 2013
Regia: Woody Allen 
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Javier Aguirresarobe
Montaggio: Alisa Lepselter
Musiche: Christopher Lennertz
Durata: 98'
Interpreti: Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin, Louis C.K., Bobby Cannavale, Peter Sarsgaard

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