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INFINITELY POLAR BEAR (Teneramente folle) - Fotografie di un padre

23/6/2015

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Infinitely Polar Bear debutta nel mercato italiano inserendosi nella lunga lista di titoli riadattati nella nostra lingua che probabilmente non hanno nulla a che vedere con il reale spirito dell’opera (o furbamente ne presentano il lato più zuccherino). Ennesima produzione in tono minore qui spacciata per commedia facilmente omogeneizzabile, il "Teneramente folle" di cui si parla, in lizza al Sundance del 2014 e distribuito nelle (più piccole) sale italiane dopo il passaggio allo scorso Torino Film Festival, ha certamente molto di tenero e (non poi troppo) di folle, ma un’essenza molto più densa di quella che il brutto titolo lascerebbe presagire (dimenticandosi, al solito, di lavorare sull’interessante gioco di parole dell’originale).
Maya Forbes ha alle spalle una quindicina di anni di attività come sceneggiatrice a Hollywood per lavori dispari e certamente lontani dall’atmosfera indie (The Rocker, Monsters vs. Aliens), ma la mano artigiana si evince facilmente, perché la storia si dipana con l’attenta naturalezza di chi sa che i personaggi hanno bisogno di evolversi e che non sempre lo devono fare in modalità esasperata; eppure, in questa vicenda dichiaratamente autobiografica che prende scena nella Boston del 1978, si intravede lo spessore di un potenziale dramma, dove però tutto permane in bilico tra apparato comico e sottotesto tragico, lasciando essenzialmente sole licenze al primo.

Cam Stuart è un uomo che è costretto ad allontanarsi dalla famiglia per curare le proprie patologie mentali in un centro di riabilitazione, lasciando la moglie Maggie e le figlie Amelia e Faith in una situazione economica rovinosa. Nonostante la consapevolezza del suo deficit, e con una buona dose di ingenuità, egli si fa carico della loro educazione, mentre la madre è a New York per il conseguimento di un master che potrebbe salvarli dal lastrico. La storia è quella dell’intimità familiare che deve far fronte a mancanza di denaro e di stabilità, ma ancor più quella di un padre estremamente affettuoso (e proporzionalmente caotico) che troverà il modo per condurre un’esistenza semi-responsabile e intessere mirabilmente – e imperfettamente, come ogni genitore - i propri rapporti con le figlie.
È l’exemplum dell’arte come forma terapeutica, il film della Forbes, perché questo breve e asciutto lavoro non è altro che un atto d’amore, celebrazione e ringraziamento per un padre (il suo) affetto da disturbi bipolari e maniaco-depressivi, vero centro nevralgico del film, un polo scisso in due che richiama a sé una moglie (che non può viverci assieme, ma che non riesce a farne a meno) e le due figlie (che lo bacchettano e idolatrano in egual misura, e con il bellissimo passaggio di testimone tra regista e figlia, Imogene Wolodarsky, che come uno specchio biologico riflette l’occhio infantile della madre, interpretando la Forbes da bambina). E come nelle rielaborazioni nostalgiche della memoria che distorce il passato, esautorandolo dei downs e rafforzandone gli ups, la Forbes distilla in maniera concisa, senza sbavature di sviluppo, una vivida fotografia della propria storia personale, scegliendo di fare di una famiglia disfunzionale e di un padre a briglie sciolte un inno alla vita, piuttosto che una abusata formula commovente in riferimento al binomio umano/malattia.
In effetti, di tematiche affrontate ve ne sono molteplici (e tutte severamente dolciastre e non stucchevoli): le relazioni interpersonali, il rapporto genitori/figli, la speranza per un futuro migliore che è movente dello studio e dell’applicarsi materno, la mancanza di denaro tale da costringere Cam Stuart (Mark Ruffalo) a comprare una macchina usata con un buco tra i sedili posteriori, la necessità del lavoro come trampolino per l’iscrizione delle figlie a una scuola privata; così i micro testi si sovraffollano in questa modesta opera d’esordio, senza che questi vadano a strutturarsi in una scala gerarchica o fungere da scivolo per un dissotterramento su versanti psicologici o introspettivi. 
Tutt’altro: Infinitely Polar Bear è un film in contro luce, garbatamente saturo di colori e intiepidito dagli inserti simil – home movies, talvolta fin troppo indolore, che ha il sempre lodevole pregio di non imbattersi in spinte ambiziose o in tentennamenti formali, ove la tristezza di un padre incatenato ai propri mostri personali funge sempre da valvola per un eruttabile sorriso, e mai per una risata sguaiata, o ancor meno per l’infilarsi di un sottile pietismo. “A walk down the memory lane”, si direbbe, con la Forbes che quasi teme di dilatarsi, di sbavare – anche l’isolato uso del ralenti in una breve sequenza pare inutile orpello e, tuttavia, frutto di una mano timorosa – nel processo di trasposizione delle sue vicende private, con non poche concessioni alla freakness.

Zoe Saldana (Avatar, The Terminal) è, certo, perfetto esempio di forza femminile e di risoluta indipendenza in circostanze disperate, ma il vero “miracolo” del film, e ci piace sottolinearlo, forza motrice, istrionico accentratore, è Mark Ruffalo, che tutta la carriera ha improntato a metà tra superproduzioni e cinema indie, spesso e ingiustamente relegato a ruoli secondari (seppur apprezzabilissimi), sempre nella parte, sempre mobile. Qui si converge in lui l’attenzione totale dell’occhio e dell’interesse spettatoriale, tra l’impercettibile microespressività e un’innegabile propensione al comico: impegnato a sventrare biciclette, ricostruire macchine con teglie da forno, tessere gonne a balze, cucinare frittelle e allo stesso tempo scolarsi lattine di birra, fumare come un dannato, scapestrato nel portare a termine indenne una giornata di lavoro casalingo e di educatore paterno. Fautore della freakness, dunque, a lasciare le figlie sole nel cuore della notte e ad ammorbare vicine di casa per un’insolita insistenza e operosità, Ruffalo splende, e splende soprattutto in quell’ultimo primo piano autunnale, di sguardo assorto nella contemplazione orgogliosa e triste di poter (e dover) lasciare camminare le proprie figlie verso un pomeriggio – che è già futuro, è già abbandono – senza la sua compagnia.
Il film della Forbes vede nella radicalizzazione della semplicità (della forma e dei contenuti) il suo pregio e al contempo il suo difetto: la riduzione a minimi termini premia la ricezione, la scorrevolezza, la comunicazione di un messaggio limpido e talvolta stilizzato, ma sollecita anche una certa questione, quella per cui, sicuramente, c’è molto di più di (e in) questo film: di potenziale e di possibile.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Infinitely Polar Bear
Regia: Maya Forbes
Sceneggiatura: Maya Forbes
Attori: Mark Ruffalo, Zoe Saldana, Imogene Wolodarsky, Ashley Aufderheide
Anno: 2014
Durata: 88'
Fotografia: Bobby Bukowski
Musica: Theodore Shapiro
Uscita italiana: 18 giugno 2015

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THE TRIBE - Il linguaggio del cinema

1/6/2015

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Senza la scelta controversa (ma felice) di usare esclusivamente il linguaggio dei segni al posto di voci e sottotitoli, il film ucraino The Tribe, di Miroslav Slaboshpitsky, non avrebbe probabilmente ottenuto l’attenzione e il successo che invece sta segnando il suo passaggio dai festival internazionali alla distribuzione mondiale, anche negli Stati Uniti.
The Tribe ha una storia lineare e semplice, nella sua drammaticità. Un giovane entra in una scuola per sordomuti. La comunità, apparentemente organizzata e tranquilla, cela una realtà sconvolgente, fatta di ordinarie violenze, sfruttamento e atti di bullismo perpetrati ai più deboli, alle ragazze, a chi non può difendersi, ai ‘diversi’ dentro quella diversità che lì si fa norma. Una scuola-carcere, un lager in mano a giovani aguzzini. Slaboshpitsky segue letteralmente (senza mai invadere il campo e la scena) le molte, tristi storie che si intrecciano sul filo della narrazione. Sullo sfondo si consuma l’angoscia silenziosa dello spettatore nell’osservare impotente, come dalla platea di un teatro, gli insopportabili accadimenti che si verificano sempre e ovunque: nelle aule e nei dormitori, nei giardini abbandonati e decadenti, per le strade notturne abitate da creature mute, agili e feroci, proprio come un branco.

Dal punto di vista dei contenuti, The Tribe non dimostra grande originalità. Il racconto di violenze e soprusi, in un ambiente che dovrebbe essere protetto per gli adolescenti ma che è invece solo un contenitore di orrori, un luogo senza legge, alienato e alienante, non è una novità; si può dire che l’autore non si sforzi tanto di cercare soluzioni quanto invece di turbare mostrando, e mostrando tutto. La descrizione della microsocietà interna alla scuola ha una sua naturale efficacia e, in generale, Slaboshpitsky compie scelte stilistiche coerenti; tuttavia, questa inquietante costanza nell’esibizione della nudità come dell'ostentazione cruda della violenza, quasi senza climax, priva la storia stessa di pathos, rendendo anche la percezione del male come una inevitabile abitudine.

Ciò che invece affascina in The Tribe è la composizione. Il film, infatti, rinuncia a utilizzare uno degli elementi classici del cinema: le voci. Il mondo-gabbia dei sordomuti è così portato allo spettatore. Il film osserva la storia dalla nostra prospettiva e riempie la scena di “rumori necessari”, cioè di quegli stimoli acustici indispensabili per non alienarsi, ma restare invece connessi con l’ambiente circostante. Con l’ambiente del film. Il regista si divide tra la camera anecoica e la costruzione del paesaggio sonoro, concepito come un vero e proprio design. I corpi degli attori, giovani non professionisti e veramente sordomuti, riempiono con naturalezza uno spazio scenico allestito solo per loro. I corpi parlano e definiscono sempre, costantemente, la loro esistenza: un percorso segnato per lo spettatore dai suoni delle mani che sbattono e schioccano, i passi sul terreno, e poi la pelle, la carne nuda che agisce e subisce contro altra carne. La narrazione di The Tribe è costruita attraverso un impianto visivo molto semplice ed esplicito, in cui gli oggetti e il paesaggio sono immediatamente riconoscibili e identificabili, e tramite una complessa ricerca di rumori e sonorità.
La macchina da presa segue lo svolgersi della vicenda con distanza e distacco, mettendo gli spettatori nella condizione di diventare osservatori esterni del mondo dei sordomuti e, di più, di una parte di realtà isolata e disturbante, totalmente isolata dalla società esterna; una realtà intangibile che si crea e si autodistrugge, e che noi da fuori possiamo solo guardare.
I dialoghi sono affidati al linguaggio dei segni (nel codice ucraino, pertanto comprensibile solo a certa parte della popolazione mondiale, nemmeno a tutti i sordomuti): gesti e parole da intercettare, espressioni del viso e del corpo da comprendere. È un lavoro complesso, quello che deve svolgere lo spettatore di The Tribe. Attenzione, però: l’assunto (errato) di base nell’approcciarsi alla pellicola è quello di considerarla priva di linguaggio. Il linguaggio invece c’è: è il cinema. Semmai a mancare è la lingua parlata, quella delle voci e delle parole dette, riequilibrate benché non sostituite dalle immagini, dalle suggestioni, dalle percezioni, dai sensi.

Siamo lontani anni luce dalla lezione sentimentale di Figli di un dio minore, con l’improbabile insegnante William Hurt che offriva la propria voce ai pensieri della giovane sordomuta Marlee Matlin. Nessun favore viene fatto allo spettatore pigro e convinto della propria superiorità da ‘normodotato’. The Tribe mette in discussione il senso di dominanza e assolutezza in cui tutti noi viviamo. Ci insegna che tutto è relativo, ma anche che tutto è assoluto nello spazio cinematografico. E ci dà un senso di spaesamento e inadeguatezza per il fatto di non riuscire a entrare davvero nella comunicazione del film e con il film. Del film, perché dobbiamo attivarci per cercare di intuire, comprendere il linguaggio dei segni; con il film, perché il rapporto con lo spettatore è messo in discussione dal momento in cui l’autore priva la sua opera dei sottotitoli, mezzo universale per far arrivare il messaggio a chiunque.
The Tribe segna quindi un cerchio attorno alla storia, e al tempo stesso ci dice che la comprensione è un nostro problema. Esattamente come è un problema dei sordomuti essere nel mondo di chi parla e sente.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Miroslav Slaboshpitsky
Sceneggiatura: Miroslav Slaboshpitsky
Interpreti: Grigoriy Fesenko, Yana Novikova, Rosa Babiy
Fotografia, montaggio: Valentyn Vasyanovych
Anno: 2014
Durata: 122'
Uscita italiana: 28/05/2015

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