ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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IL CIELO PUÒ ATTENDERE - L’amaro sorriso di Gene

25/5/2016

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​​L’ho amata in Femmina Folle, la ritengo la sua prova recitativa più maestosa. L’ho conosciuta con il Castello di Dragonwyck quando ero bambina e l’ho cercata fra i film, come un esploratore discreto che sbircia attraverso le fronde degli alberi per catturare i movimenti di un magnifico uccellino.
Gene Tierney è un’attrice “per pochi”, suo malgrado. Con i chiarissimi occhi a mandorla sempre pronti a scivolare verso l’inverno, gli zigomi alti e la figura esile appare sullo schermo come una dea silenziosa. Non fa rumore. Quando parlo di attrici del passato basta citare alcuni nomi per vedere entusiasmo sul viso del mio interlocutore: Bette Davis, Rita Hayworth, Katharine Hepburn, le indimenticabili. E poi faccio un goffo tentativo, dico “Mi piace molto anche Gene Tierney” e dall’altra parte vedo spesso uno scomodo punto interrogativo.

​Chi è Gene Tierney?

Il cielo può attendere di Ernst Lubitsch è il primo lavoro in Technicolor del regista, uno splendido abuso di colore che di colpo inonda le gonne e gli occhi, le tende e le camere da letto. Un'opera sofisticata che sfugge un po’ alle sembianze di commedia romantica esplosiva alle quali Lubitsch ci ha educati, recuperata da Lab 80 nell’intento di raccontare la Tierney in quattro titoli restaurati, da oggi disponibili in sala: oltre a Heaven Can Wait anche Il fantasma e la signora Muir di Mankiewicz, Vertigine di Preminger e Femmina folle di Sthal. Una bellissima iniziativa, che rappresenta il rilancio della distribuzione dei classici per Lab 80 film; una rassegna deliziosa come il sorriso ultraterreno della grande attrice che in pochi ricordano; una missione coraggiosa che porta ai nostri occhi questo cielo in attesa, con i suoi colori fiammeggianti.
​
Il racconto ha inizio niente meno che all’inferno, elegante palazzo dove il “direttore” riceve uno dei nuovi “candidati all’ingresso”. Si tratta di Henry Van Cleve (un irresistibile Don Ameche), settantenne dalle battute di spirito taglienti, con una vita da impenitente Casanova sulle spalle. Quando il diavolo gli chiede perché mai si sia presentato al suo cospetto, Van Cleve si rimbocca le maniche e ci guida attraverso un lungo flashback alla ricerca di quel “motivo valido per meritarsi l’inferno”. 
Coccolati dall’atmosfera surreale e spiritosa, seguiamo la narrazione delle gesta di Van Cleve sin dalla culla: potremmo quasi definirlo un atipico e allegro barone di Münchhausen, che giunto alla fine dei suoi giorni sente il bisogno di alleggerire la coscienza di certi antichi pesi. Bambino terribile, giovane scapestrato, giocatore d’azzardo, pecora nera della famiglia (dove si distingue un impagabile Charles Coburn nel ruolo del nonno) e celebre Dongiovanni, l’unica occasione che gli si presenta per rimettere la testa a posto è l’incontro con Martha Strable. 
Quest’ultima è la promessa sposa del cugino, ma per Van Cleve non sarà arduo spingerla fra le proprie braccia. A impersonare la timida sposina arrivata dal Kansas c’è proprio la Tierney e su di lei ci fermiamo un istante. Per sospirare, per catturare con gli occhi i preziosi colori del suo piumaggio. Nella scena del ricevimento prima delle nozze la Tierney indossa un vaporoso abito celeste che oggi abbiamo la possibilità di vedere nitido in ogni dettaglio grazie al restauro. L’attrice ingaggia una gara di freschezza con il fiore rosa tenue che tiene fra i capelli: ogni primo piano fa arrestare i battiti per la bellezza pura e splendente di quel viso, la luminosità dei capelli sapientemente acconciati, i bagliori glaciali degli occhi dal taglio quasi orientale. 
Quel fiore accomodato fra le ciocche non fa che esaltare l’incredibile fascino del viso di Martha. Uno starnuto della giovane sposina diviene l’occasione per restare sola con Van Cleve; ha inizio così quella che a tutti gli effetti ci sembrerà una storia d’amore, pur lasciando in noi una sottile, perenne amarezza. 
Questa commedia di schermaglie amorose e fughe passionali, di battute caustiche e siparietti gustosi, è un’accurata immersione in cui si scrutano fondali più vasti. La morte ha quasi un posto d’onore, nel film; la fiutiamo onnipresente nelle scene per quanto i colori e le risate vorrebbero convincerci del contrario. Fa tenerezza l’imperdonabile Van Cleve con le sue scappatelle, eppure è Martha la portatrice di un messaggio più profondo. Sta a questa Gene Tierney, alle prese con una delle sue più impegnative prove cinematografiche, riassumere l’amore e le sue tempeste, la rassegnazione e la pazienza. Non soltanto commedia, perciò, ma racconto intimo di un amore difficile.
Raccogliamo con cura questi frammenti della Diva Fragile che Lab 80 oggi ci regala. Perché non esiste una sola risposta alla domanda “Chi è Gene Tierney?”.
È stata un’attrice elegante, fresca come un fiore eppure perseguitata da sventure e periodi depressivi sfociati in terapie di elettroshock; è stata un sorriso con la notte sul fondo; è stata una voce troppo sottile ingrossata con il fumo di sigarette nella speranza di sembrare più fatale.
Per chi l’ha amata come me è stata la misteriosa Laura di Preminger, la perfida e disumana Ellen di Stahl, la dolcissima e agguerrita Lucy di Mankiewicz, presenza delicata in una casa dei fantasmi. E la Martha Strable che ama irragionevolmente un Henry Van Cleve, la donna che attende in quel cielo che può attendere e che finalmente torna al cinema.

Maria Silvia Avanzato

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Heaven Can Wait
Anno: 1943
Durata: 112'
Regia: Ernst Lubitsch
Soggetto: dal lavoro teatrale Birthday di Leslie Bush-Fekete
Sceneggiatura: Samson Raphaelson
Fotografia: Edward Cronjager
Musiche: Alfred Newman
Attori: Gene Tierney, Don Ameche, Charles Coburn, Louis Calhern, Spring Byington

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LOUDER THAN BOMBS – Segreti di famiglia

25/5/2016

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Per nulla intimidita dalla trasferta statunitense e dalla possibilità di lavorare con un cast internazionale, la “splendida” coppia Trier/Vogt realizza un’opera filmica dall’incedere plumbeo e sognante, forse lontana dal frastuono suggerito dal titolo. Louder Than Bombs (Segreti di famiglia per la distribuzione italiana) è infatti un omaggio all’album compilation dei The Smiths uscito negli USA in un un periodo in cui il gruppo inglese doveva e voleva imporsi in un nuovo mercato (citazione portafortuna, quindi).
Joachim Trier, esponente di spicco del cinema norvegese che già avevamo affrontato grazie al suo splendido Oslo, 31 agosto, riesce a sviluppare la propria poetica senza perdere ciò che lo caratterizza e le persone che attorno a lui hanno contribuito a dargli forma: Eskil Vogt (regista di Blind) alla sceneggiatura, Ola Fløttum alle musiche, Olivier Bugge Coutté al montaggio e Jakob Ihre alla fotografia formano una squadra che funziona e che sa condividere un obiettivo comune.
Nel caso specifico di Louder Than Bombs Trier matura ulteriormente la propria ideologia – elemento che, come vedremo, procede pari passo ad una felice evoluzione della prassi filmica – riuscendo ad affrontare, o ritornare, alla problematica insita nell’istituzione famiglia. Se il cuore di Reprise era la lotta generazionale che i due protagonisti dovevano affrontare per la propria affermazione, quello di Oslo, 31 agosto consisteva nella dissipazione e nello spreco di cui Philip, certamente depresso, era protagonista. Ma l’assenza dell’istituzione famiglia si faceva greve durante entrambi i film del regista norvegese, soprattutto considerato il finale di Oslo, in cui Philip, interpretato dal bravissimo Daniel Andersen Lie, ritornava alla casa di famiglia, tristemente vuota, con lo scopo di porre fine alla propria vita nel luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
Louder Than Bombs narra la vicenda di un padre (Gabriel Byrne) e dei due figli Jonah (Jesse Eisenberg) e Conrad (Devin Druid) che, a tre anni dalla morte della moglie e madre Isabelle Reed (Isabelle Huppert), sono costretti a rimettere in discussione la sofferenza legata alla sua dipartita. Complice di questo processo sarà l’inaugurazione di una mostra e la pubblicazione di un articolo sulla carriera di Isabelle come fotografa di guerra. Il ritorno a casa di Jonah permetterà a Gene di riflettere sul proprio rapporto con i figli e con la perdita della moglie, ma tutti e tre faticheranno disperatamente a conciliare i sentimenti che, allo stesso tempo, li separano e li uniscono alla donna di cui hanno ricordi così differenti.
Presentato alla scorsa edizione del festival di Cannes senza troppi clamori e ricevuto in maniera contrastante dalla critica internazionale, l’ultima fatica di Joachim Trier è un'opera di difficile assimilazione, che allo stesso tempo si accosta e si distanzia dalle opere precedenti. La tipica giustapposizione delle sequenze – affine alla scrittura e alla riduzione in capitoli, sicuramente dovuta alla sceneggiatura di Vogt –, l’indugiare sui primi piani, lunghi ed anzi lunghissimi e i buchi testuali sono tutti presenti; ciò che distanzia Louder Than Bombs dalle opere precedenti è invece la perfetta unione tra necessità poetiche e possibilità filmiche. 
Il dramma familiare e la divergenza di giudizio (e ricordo) riguardo la morte di Isabelle sono il veicolo perfetto per mettere in scena un determinato e riuscito work in progress tutto incentrato sulla lenta e, appunto, progressiva costruzione e delineazione di un giudizio condiviso ed intelligibile su Isabelle.
Gene, ex attore, ha rinunciato alla propria carriera di attore per il bene del nucleo familiare e per permettere alla moglie di continuare con la propria professione; Jonah, il primogenito, è un brillante studioso che dopo essersi laureato a pieni voti è in procinto di iniziare la carriera di insegnamento; Conrad è il figlio introverso, colui che si nasconde nei giochi online, tra le cuffie che lo isolano dal mondo e nella scrittura di tutto ciò che gli accade. Tutti e tre hanno quindi percepito ed esperito Isabelle e la sua morte in maniera diversa. Trier prova a scandagliare quelle differenze tramite i frequentissimi flashback che si alternano al reale e al quotidiano creando un piano “altro” in bilico tra veglia e sogno, tra quotidiano e ricordo. 
Il cineasta danese, ma norvegese d’adozione, compie un gesto forte e deciso verso la ricerca di un’unità metalinguistica che passa attraverso le fratture del testo e la frantumazione dello sguardo. Trier, mettendo in dubbio il proprio, filma il lavorio delle memorie e dei sentimenti per trovare una prospettiva comune, operazione che implica la partecipazione non solo dello spettatore ma anche degli attori, del regista e dello sceneggiatore. 
Louder Than Bombs rappresenta una progressione nella carriera di Joachim Trier, e non certo un passo falso come si potrebbe ipotizzare dalla freddezza con cui è stato accolto alla sua presentazione a Cannes. Accettando le implicazioni che l’atto del filmare e del work in progress (come domande aperte sul testo) hanno sulla poetica autoriale e viceversa, Trier si afferma come autore coraggioso che non si vuole ripetere e che realizza – anche all’interno di un progetto internazionale che domanda necessari ritorni economici – un’opera a tratti intangibile, i cui “profondi” primi piani e i lunghi silenzi sono realmente più rumorosi di una bomba che esplode.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Louder Than Bombs
Anno: 2015
Regia: Joachim Trier
Sceneggiatura: Eskil Vogt
Fotografia: Jakob Ihre
Musica: Ola Fløttum
Durata: 109’
Attori principali: Gabriel Byrne, Jesse Eisenberg, Isabelle Huppert
Uscita italiana: 23 giugno 2016

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LA PAZZA GIOIA - In cerca d'amore e libertà

19/5/2016

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A Villa Biondi, comunità terapeutica immersa nel verde per donne con disturbi mentali, fa il suo ingresso Donatella. La nuova arrivata, una giovane donna fragile e silenziosa a cui anni addietro è stato tolto l’affidamento del figlio, attira subito l’attenzione di Beatrice, sedicente contessa dalla parlantina inarrestabile, particolarmente insofferente alle regole della piccola comunità. Tra le due, nonostante siano lontanissime per indole ed estrazione sociale, si sviluppa un legame che si tramuterà in amicizia nel corso di una fuga strampalata e rocambolesca, alla disperata ricerca di una gioia davvero difficile da trovare nel mondo che le circonda. 
​
Inizia in modo leggero e brioso La pazza gioia, il nuovo film di Paolo Virzì presentato in questi giorni a Cannes – alla Quinzaine des Réalisateurs – dove è stato accolto da applausi a scena aperta e da una sincera commozione. Nella prima parte si ride a più riprese nell’assistere alla fuga on the road di Donatella e Beatrice, novelle Thelma e Louise in viaggio lungo le strade della Toscana alla ricerca di una felicità da tempo negata ad entrambe. 
La verve comica di Valeria Bruni Tedeschi, istrionica come non mai nei panni di Beatrice, emerge con una forza e un'irruenza davvero contagiose. Il suo personaggio, bizzarro, senza mezze misure e dotato di una loquacità esasperante, è un fiume in piena che travolge tutto e tutti. Sempre colorita nelle sue esternazioni e nei suoi sfoghi, Beatrice possiede una follia contagiosa e irrefrenabile. È lei la “matta vera”, come dice tra sé e sé Donatella, basita e sorpresa dalle mille trovate della compagna di fuga. 
Nella seconda parte la leggerezza e l’ironia si vanno attenuando e irrompe il passato, doloroso e travagliato, di Donatella, ragazza madre a cui è stato sottratto un figlio di pochi mesi dai servizi sociali, malinconica e troppo fragile per il mondo che la circonda. Sul lungomare di Viareggio, al crepuscolo, ha luogo una delle scene più belle e intense del cinema italiano degli ultimi anni. È Micaela Ramazzotti, nei panni di Donatella, a sorprenderci, incantare e commuovere fino alle lacrime – che da qui in avanti scenderanno copiose e abbondanti sino al termine della visione – col suo racconto in prima persona di anni difficili e crudeli, passati ai margini di un mondo che le ha tolto il suo unico scampolo di felicità. 
Donatella è una giovane donna come tante, non certo folle ma dall’indole triste e malinconica. Ha il cuore spezzato, è confusa, non ha speranze o progetti per il futuro, le resta un unico obiettivo e un solo desiderio: poter rivedere il suo bimbo che da qualche anno è stato affidato a una nuova famiglia. Il suo racconto, accompagnato da flashback lancinanti e dolorosissimi, spezza il cuore e toglie il fiato, costringendoci ad assistere al resto del film quasi in apnea. È qui che emerge con forza il grande umanesimo e la profonda sensibilità di un autore come Paolo Virzì, capace di regalarci l’ennesimo gioiello e di aggiungere un nuovo, importante, tassello ad una filmografia altrettanto importante e preziosa, che raramente ha conosciuto passi falsi. 
Scritto dal regista livornese con la complicità di Francesca Archibugi, La pazza gioia riesce ad alternare comicità e commozione e a emozionare con la storia di due solitudini che s’incontrano e che cercano di spronarsi e farsi forza a vicenda. Semplicemente splendide Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, ben dirette dall'autore, da sempre un maestro nel tirare fuori il meglio dai suoi interpreti. Sono le protagoniste assolute di un altro ritratto al femminile, in questo caso doppio, tratteggiato dal cineasta toscano, che dimostra di possedere una sensibilità di sguardo fuori dal comune e di essere uno dei pochi registi contemporanei di casa nostra  in grado di portare avanti, rielaborandola e aggiornandola, la lezione dei grandi autori della commedia all’italiana. Il suo cinema, sempre in bilico tra risate e lacrime, gioia e dolore, ironia e malinconia, ha saputo catturare i mutamenti della nostra società nel corso degli ultimi vent’anni. Uno sguardo sempre curioso, partecipe, empatico e rispettoso dei personaggi che porta in scena e attraverso i quali ci racconta il nostro paese. 
Si arriva ai titoli di coda appagati ma al contempo provati, felici e tristi insieme, con una sola certezza: d’ora in avanti sarà impossibile non iniziare a piangere sulle note di Senza Fine, l’indimenticabile canzone di Gino Paoli che ricorre più volte nel corso del film. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica
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Titolo originale: La pazza gioia
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Paolo Virzì e Francesca Archibugi
Fotografia: Vladan Radovic
Anno: 2016
Durata: 118’
Interpreti principali: Micaela Ramazzotti, Valeria Bruni Tedeschi, Valentina Carnelutti

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AL DI LÀ DELLE MONTAGNE - Passaggi di tempo

5/5/2016

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A scandire il placido ma turbolento scorrere transitorio del tempo – per Jia Zhang-Ke quanto mai impermutabile e circolare – Al di là delle montagne, ultima opera composita del cineasta cinese, è percorsa, da lembo a lembo, come fossero eccedenze di un tremore silente, dal leitmotiv dell’energia, e delle sue geologiche e/o artificiali manifestazioni: scoppi e zampilli che dal terreno si fanno fuochi d’artificio, bombe esplose tra le lastre ghiacciate, aerei a bassa quota la cui unica traversata è sullo schermo un moto calante, che li vede incendiarsi. Segni di un procedere esistenziale non estraneo a mutamenti.
Si schiuma ben evidente la dedizione amorosa per una patria scossa da inarrestabili passaggi epocali, in una visione storicista che la politica apparentemente non sfiora, ma che preferisce farsi antropologica e il più possibile appiccicata al reale.
​Strutturato in tre diapositive temporali che spaziano dalla più recente prospettiva di fine millennio a un futuro globalizzato e intercedendo per il presente, Jia suggella le molteplici voci nel verbo della cultura popolare, surrogata così in tre giovani della città di Fenyang, esemplari nella loro estrazione quasi casuale nonché concreti protagonisti della nazione: Tao, Liangzi e Zhang, uniti prima da vicende sentimentali e poi familiari. Ognuno di loro è sovrastato da entità socio-economiche che annullano da una parte prospettive lavorative e individualità, mentre falliranno nello strapparli drasticamente a loro stessi e alla loro identità etnica e geografica. 
​
L’impostazione melodrammatica e minimalista che permea le storie intercettate e solo a tratti incrociate di questi individui fa dei raccordi relazionali sommessi quadri, diluendo l’impatto sentimentale degli snodi narrativi, mentre si rinforza l’idea che siano i paesaggi sterminati, talvolta aridi, nevosi, e le costruzioni secolari a rappresentare lo scheletro imprescindibile in una ipotetica riduzione all’osso dell’opera. Questo perché ultimi baluardi di chi c’è stato e di chi, sfogliando i mutamenti personali come specchio dei destini generali, patisce le intemperie del mondo. 
A resistere alla corrosione globalizzante di un capitalismo vincolante, non scelta obbligata ma seducente, c’è Tao, vera madrina e musa della narrazione, che in sé incarna e metaforizza lo spirito di un paese che dopo il crollo delle ideologie cede il passo alle correnti atlantiche non perdendo se stessa. Tao scolpisce il modello di narrazione tripartito anche quando non c’è, miniaturizzandosi e tirando le fila delle vicende, anche attraverso l’abnegazione consanguinea e il prestito all’amico (e antico contendente) Liangzi, ammalatosi a causa delle aspirazioni nocive delle cave di carbone. 
Liangzi non è altro che il fratello povero che la Cina ha prodotto e che in patria rimarrà a subirne le spese. Il figlio di Tao, invece, crescerà nella metropoli e si vedrà traghettato dal padre Zhang (corpo plasmante del capitalismo globale, che ribattezzerà l’erede in “Dollar” e sé stesso con un nome anglofono) verso la terra australiana, dimentico della propria lingua natale e persino del nome della madre. 
Non sarebbe sbagliato intravederne un discorso critico che dall’estetica cinematografica muove verso le incidenze di un libero mercato avido e arido (in un affastellamento di questioni da sempre care al regista e più volte soggette alla scure censoria), ma ciò che s’affaccia tra le pieghe dei fotogrammi sfuocati e distorti, allucinazioni visive che deformano la limpidità delle immagini e fanno da contraltare lirico, è una profondità di veduta che contrasta l’omologazione degli usi e delle genti e auspica la “glocalizzazione”, mentre celebra e ricorda i residui di una cultura atavica non del tutto destinata a perire. 
Non a caso sarà un brano melodico cantonese di successo e la fattura casalinga dei ravioli a ricorrere strenuamente per la sua intera durata, mentre Jia rinsalda la compattezza di una riflessività di concezione acuta e in grado di farsi urlante e sorda insieme, anche attraverso soluzioni formali a rischio di castrazione, riuscendo però a farne fluido per nulla posticcio. Così l’incastellatura nei 4:3 del 1999 e il suo ricalcare le tonalità cromatiche della pellicola passa all’ampliamento del formato 1:85, che apre un presente scosso dalle migrazioni e dalle modernizzazioni (di cui certo Zhang, compagno e poi ex-marito di Tao, rappresenta la speculazione più intransigente), fino al cinemascope di un futuro che può darsi mediante null’altro che il Cinema  - e nel suo formato da sempre più ambizioso. 
Ma Al di là delle montagne, in tutta la sua qualità terrestre e astratta al contempo, nel suo saper ridurre e amplificare nell’uomo sorti e microevoluzioni universali, è segnato, fin dalle battute d’inizio, dal sentore greve di un occhio che non sa darsi se non nostalgico, che non rinuncia alle proprie tracce di decadenza. Scie, però, fautrici di alterazioni perenni delle quali fare un motivo di speranza ulteriore anche per chi rimarrà tra le lande isolate e lontane, più o meno toccato dalla ricchezza, solo ma resiliente. 
Qui sta tutta la duplicità combaciante degli opposti, nella coscienza artistica che il cinema possa essere fotografia di una condizione assoluta di cui prendere atto, come Tao, fiduciosamente. E se a Ovest bisogna andare, ad aprire e a chiudere l’inno dei Pet Shop Boys, sarà il caso di farlo danzando. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica
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Titolo originale: Shan he gu ren 
Anno: 2015
Regia: Jia Zhang-Ke
Sceneggiatura: Jia Zhang-Ke
Attori:  Tao Zhao, Yi Zhang, Jing Dong Liang
Fotografia: Nelson Lik-wai Yu
Musiche: Yoshihiro Hanno
Durata: 131’
Uscita italiana: 5 maggio 2016

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SOLE ALTO - Il senso della Storia

2/5/2016

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“Io credo che Sole alto non sia un semplice prodotto d'intrattenimento, come qualcuno vorrebbe, ma uno strumento per mettere in discussione il presente”.

​Che l'intento di Dalibor Matanić fosse quello di realizzare un'opera coraggiosa e provocatoria, rifiutando a monte ogni possibile forma di racconto enfatica, lo si intuisce poco dopo l'inizio del film. E sebbene il regista croato – testimone diretto dell'intolleranza – catturi tutta l'inquietudine dietro quell'unico sparo che dà inizio alla guerra nell'ex Jugoslavia, è piuttosto la riflessione sui suoi effetti devastanti che fa muovere le immagini. 
Presentato a Cannes 2015 nella sezione Un Certain Regard, dove ha vinto il Premio della Giuria, Sole alto indaga l'amore fra un ragazzo croato e una ragazza serba, attraverso tre differenti storie che si sviluppano nell'arco di tre decenni consecutivi: il 1991, il 2001, il 2011. Cambiano le coppie, sempre giovani e affamate di futuro, ma non gli interpreti. Restano soprattutto i luoghi, gli stessi villaggi, gli stessi orizzonti emotivi fuori dal tempo, le cui sponde s'incontrano lì dove a far da barriera vi sono le apparenze contenute in quella parola – tanto condivisa quanto avvelenata – chiamata “identità”. 
​
Ivan e Jelena si amano, stanno per lasciare i paesi in cui vivono per trasferirsi a Zagabria, ma ben presto l'esplodere dell'odio interetnico si frappone fra loro distruggendo ogni progetto. Il primo episodio di Sole alto è forse quello più significativo: il sole, appunto, splende ancora altissimo illuminando il pacifico microcosmo dei due ragazzi, portato fatalmente a collidere con la società accecata dal nascente conflitto. La speranza da un lato, la sofferenza dall'altro, due forze vibranti e costantemente in lotta; uno scontro quasi archetipico che perdura per tutto il film. 
È indubbio che il lavoro di Matanić debba molto alle impeccabili e struggenti interpretazioni di Goran Marković e Tihana Lazović, quest'ultima selezionata come Shooting Star dalla Berlinale 2016. I due attori, così come l'autore, hanno (ri)vissuto sulla pelle la decadente realtà che scorre sullo schermo, la triste e cupa verità di come nessun cessate il fuoco riesca a mettere davvero fine alle ostilità. 
Si giunge, inevitabilmente, a fare i conti con l'odierno momento storico, profondamente ferito e dominato dall'incertezza in cui, seppur affannosamente, grazie ai più alti valori umani arriva a palesarsi una concreta ipotesi d'amore. Va detto, però, che nonostante la struttura cronologica e lineare l'opera svela la sua natura ciclica, in un continuo andirivieni tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere. In tal senso Sole alto è una pellicola stratificata e pensata nei minimi dettagli, in particolare quelli visivi che sottolineano a più riprese la bellezza e le storture del paesaggio/personaggio, in cui si riverberano i moti dell'anima dei protagonisti. 
Matanić vorrebbe, e noi tutti spettatori con lui, una civiltà capace di mettere da parte il razzismo, l'islamofobia e in generale le derive politico-sociali che tendono a dividere l'umanità in due; vale a dire “noi”, di cui dobbiamo occuparci, e gli “altri”, del cui destino poco importa. Sole alto ci ricorda che è necessario che la luce ritorni allo zenit (citando il titolo originale, Zvizdan), nel punto più alto, da cui irradiare un mondo che, come il film, si alimenta di contrasti e simmetrie.

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica
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Titolo originale: Zvizdan
Anno: 2015
Regia: Dalibor Matanić 
Sceneggiatura: Dalibor Matanić 
Fotografia: Marko Brdar
Musica: Alen Sinkauz, Nenad Sinkauz
Durata: 123'
Attori: Tihana Lazović, Goran Marković Nives Ivanković, Trpimir Jurkić, Stipe Radoja, Slavko Sobin

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