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NYMPHOMANIAC: VOL. II - Cine-Cilicio

24/4/2014

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Nymphomaniac vol.2 si apre in maniera ancor più scoppiettante di come l’avevamo lasciato. E come già nella prima parte del racconto, il godimento per chi guarda è più intellettuale che carnale, più intellettivo che fisico. Il buon Seligman, il dotto ebreo che puntella con i suoi coltissimi riferimenti la narrazione della sessuomane Joe, si lancia in una perfetta comparazione tra Chiesa Occidentale e Chiesa Orientale, tra visione punitiva della fede come dolore da un lato e gioiosa proiezione della sofferenza dall’altro. Ed è ovvio che Lars von Trier si senta parte della prima delle due opposte scuole di pensiero ma vagheggi, in una forma utopica impossibile da materializzare, la seconda.
Dell’ovest del mondo al danese interessa anche ciò che per lui è l’unico motore fondante dell’umanità e dei rapporti che essa intrattiene, come fa dire prontamente alla sua protagonista: l’ipocrisia, il massimo bersaglio del suo disprezzo. Lars, per mezzo dell’interposizione vicaria della sua martire erotomane, punta così il dito. Contro i suoi detrattori, contro coloro che non lo amano, contro tutto e tutti. E la grande novità è che stavolta il suo odio rancoroso sembra, per lo meno sotto il profilo artistico, più sincero che in passato. Non pretestuoso ma veicolato attraverso gli occhi fondi e neri, la bocca e la vagina di Joe (a suo modo, un occhio sul mondo, forse il più importante): fessure che si aprono e si chiudono su un universo conoscitivo proibito e luttuoso da svelare e scoprire, strumenti sensibili ora silenziosi ora parlanti, ora chiusi in loro stessi ora pronti al confronto con l’altro.
Come per Joe, il miglior modo per capire von Trier è considerare il suo un disperato tentativo di riabilitazione personale e privata attraverso il racconto di sé, una prigione lenitiva entro cui rinchiudersi come una bestia moribonda ma non sconfitta. Il sesso e la religione saranno anche due concetti interessanti, ma Lars, come Seligman, non sarà mai inginocchiato davanti a nessuno dei due (a riprova di come il regista si sia riversato sorprendentemente in entrambi i suoi due personaggi principali): piuttosto li userà come territori da calpestare e fare a pezzi per i propri scopi terapeutici, senza timore di restituirne un’immagine torva e interlocutoria.
Il vol.2 di Nymphomaniac è un film radicale oltre ogni limite, vontrieriano in modo molto più classico del precedente capitolo. Un film che vuole essere uno schiaffo sul volto, una scudisciata violenta sulla pelle, un martello sulle mani. A differenza però di quanto avveniva spesso in precedenza, e soprattutto rispetto a un’opera ancora oggi inaccettabile come Le onde del destino, qui il pasoliniano piacere nell’essere scandalizzati non è però vuota degradazione o mostruoso, ricattatorio vilipendio dello spettatore e dei suoi sentimenti. È invece una catarsi necessaria pur essendo misera, consapevole a priori del fatto che non ci sarà liberazione e quindi oltremodo libera e sfrontata.
Il vol. 2 non fa sconti, è un boccone difficile da ingoiare, è l’agonia sofferente di un corpo in cancrena, devastato, come il fisico della protagonista, da un morbo che è passione e maledizione, goduria e somma dannazione. Non è un film meno bello del primo ma di sicuro è più ruvido e coercitivo: un altro teorema a mo’ di via crucis sadomasochista in cui però, più che l’intarsio delle citazioni erudite, che pure non mancano, conta la violenza sistematica voluta e subita da chi è emarginato, l’olio di ricino di un’elegante provocazione autoriale, la macchina da presa usata come fosse il cilicio.
Il pianto di Joe, prostrata “come un albero deformato sulla collina”, è la definitiva resa di un cinema sicuramente manipolatorio che riscopriamo finalmente nella totalità del suo umanesimo sui generis, di cui quelle lacrime sono la prova tangibile. Certo, il finale può far discutere. Ma va preso come l’ennesima dichiarazione di guerra di un autore non in grado di deporre l’ascia del suo pessimismo – l’apertura parziale di Melancholia è dunque subito rimessa al suo posto – e che preferisce abbattersi con implacabile crudeltà sulle fragili debolezze delle sue creature (e in particolare su una di esse, che s’abbandonerà per un attimo alla negazione di sé). Un sortilegio che cala sui personaggi come una mannaia, cui si associa, come se non bastasse, un’ironia tragica e beffarda, che azzera nel ridicolo il vuoto del proprio senso.
Anche nel suo film più umano, più esplicativo, von Trier non rinuncia al suo tratto distintivo, riversandocelo addosso nel finale in forma se possibile mille volte più risibile del solito, come a cancellare consciamente tutti gli spiragli di luce che tutto quanto visto fino a quel momento aveva lasciato filtrare a più riprese. I suoi personaggi, ancora una volta, von Trier li abrade e li sfregia, desacralizzandoli e desacralizzandosi. In ciò, si ritrova la coerenza di uno sguardo di irrimediabile cupezza, avvezzo alla risata nera, alla perversione comica. E Nymphomaniac si conferma un film così eterodiretto e vorace di tutto ciò che non sia cinema, come scrivevamo a proposito del vol.1, da lasciarsi influenzare di buon grado – si potrebbe dire letteralmente – da tutto quanto si esprima in altre forme d’arte. In questo caso, è il verso di una canzone di Jimi Hendrix, a partire dal quale non è difficile immaginare che von Trier abbia pensato tutto il film: “Hey Joe, where you goin’ with that gun in your hand?”.
Se la visione del regista rimane tanto moralista quanto nichilista, di Nymphomaniac non si dimenticano tante cose, tutte lucenti: su tutte, la luminosità di quel tramonto che ritorna in chiusura, candido suo malgrado in un macrocosmo pieno di zone d’ombra, e il chiarore illuminista e forbito delle digressioni di Seligman, capace di illuminare anche gli angoli più bui di questa tragedia erotica dell’irrazionale in veste non di rado farsesca.
È paradossale, ad ogni modo, che un film così osceno ricorra nel finale, proprio quando tutto si eclissa nei modi che lo spettatore scoprirà, al voto di castità più ancestrale che il cinema sia in grado di offrire (altro che Dogma 95!): lo schermo al nero, il fuori campo del teatro greco. Von Trier, da artista polimorfo e perverso come un bambino freudiano, si permette anche quest’ultima irritante contraddizione, costruita apposta per suscitare spiazzamento e ribrezzo, nasi arricciati e bocche storte in espressioni di disgusto. Ma stavolta, data la pienezza del viaggio intrapreso, quel tutto (e il contrario) di tutto vale addirittura la pena concederglielo.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema

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Scheda tecnica

Titolo originale: Nymphomaniac
Anno: 2013 
Durata: 117’ (versione autorizzata ma non approvata dal regista)
Regia: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Manuel Alberto Claro
Musiche: Kristian Eidnes Andersen
Uscita in Italia: 24 aprile 2014
Attori: Charlotte Gainsbourg, Stacy Martin, Stellan Skarsgård, Christian Slater, Shia LaBeouf, Uma Thurman, Willem Dafoe, Udo Kier, Jamie Bell, Jean-Marc Barr.

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ENOUGH SAID (Non dico altro) - Donne a confronto

23/4/2014

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Donne a confronto, in conflitto, in contrapposizione. Donne che si studiano, ammirano, cercano, che si parlano addosso con un costante fluire di parole dirette dal cuore alla voce. Donne che popolano l’universo femminile di Nicole Holofcener, che amano e vogliono essere amate, che sopravvivono barcamenandosi a cavallo dei fatidici “anta”, nella giungla della crisi professionale e personale. Donne. E uomini. Spalla perfetta di questo universo in rosa che desidera accogliere il maschile al proprio interno. Uomini che ruotano attorno alle donne, come se non potessero fare a meno di loro, nella più semplice e più complessa delle attrazioni. È il mistero indecifrabile delle relazioni umane.
Tutto questo è Enough Said (Non dico altro), incentrato sulle peripezie di Eva (Julia Louis-Dreyfus), madre sola con una figlia adolescente, un lavoro precario da massaggiatrice e una sola amica fidata, Sarah (Toni Collette). Due incontri del tutto casuali - ma anche provvidenziali - danno però a Eva la possibilità di ricominciare a credere in se stessa e nell’ormai abbandonato sentimento d’amore. Marianne (Catherine Keener), una poetessa molto presa dal proprio mondo intellettuale, entra nella sua vita prima come cliente, poi come confidente; nel frattempo Albert (James Gandolfini), che di Marianne è l’ex-marito, intraprende con Eva una dolce, toccante relazione. Accade che Marianne, finalmente libera di parlare a qualcuno, riversi sulla nuova amica tutte le frustrazioni del matrimonio fallito, rivelando ogni piccolo difetto del povero ex. Il quale, ora, viene osservato da Eva attraverso le lenti deluse e ingrigite di Marianne.
La paura colora l’altro di crepe e imperfezioni. Solo Eva sa la verità sulla rete di relazioni tra i personaggi. Eva, prima donna, consapevolmente al centro della storia, colei che tiene i fili di tutto e di tutti, fino a rischiare di strozzarsi. Solo lei potrà determinare il successo o il fallimento di questa sua nuova vita ancora in divenire. Vincerà la paura o il coraggio? Quanto sottile è il confine con la menzogna, quanto simile a una bugia è il senso del tradimento.
Enough Said è una commedia romantica, ma più di tutto è una commedia delicata e sincera sulla rinascita emozionale degli adulti, genitori al bivio di una maturità mai accettata, non più puri ma solo abbattuti dalla vita e per questo più fragili quando devono decidere se affidarsi nuovamente a qualcuno.
Nicole Holofcener è una regista cui piace mantenere il proprio cinema fuori dal mainstream. Certo, come spesso accade ad autori non prolifici e non da blockbuster, l'autrice non ha mancato di lavorare per la televisione, dirigendo alcuni episodi di telefilm di successo (Una mamma per amica, Six Feet Under, Parks & Recreation). Per il grande schermo, però, ha sempre riservato tutta la creatività autoriale, l’impronta che sin da Parlando & sparlando (1995) ha definito le caratteristiche tipiche (per non dire archetipali) della sua interessante filmografia. Dopo il tiepido Friends with Money e il più riuscito Please Give, il suo ultimo film, Enough said (il primo prodotto da una major, la Fox Searchlight), sarebbe forse caduto nel dimenticatoio, una pellicola proiettata in qualche festival e anni dopo distribuita a pochi, sparuti cinema d’essai, se un evento drammatico non l’avesse portata all’attenzione di pubblico e critica.
L’improvvisa morte del protagonista, James Gandolfini (l’iconico Tony Soprano della serie tv), prima dell’uscita del film, ha prima significato un ritardo nella distribuzione, poi risvegliato un inaspettato interesse verso la pellicola, cioè verso il suo interprete principale, appena scomparso. E se anche Gandolfini divide la scena con Julia Louis-Dreyfus e Catherine Keener (attrice feticcio della Holofcener), è a lui che si rivolge lo sguardo, è nella sua direzione che si dirige ogni emozione. L’impatto emotivo è inizialmente forte. Il grande caratterista non c’è più, eppure possiamo ammirarlo. Egli è immortale per noi.
Attenzione, però. Gandolfini non tocca la sfera emotiva solo per la sua prematura scomparsa, ma perché lui è davvero la presenza migliore del film. Con una recitazione misurata e sotto le righe, riesce a imporsi pur restando piacevolmente sullo sfondo, reagendo più che agendo alle dinamiche tra i personaggi, tra gli attori: tutto finisce con il ruotare attorno a lui, ignaro oggetto d’amore-odio nel curioso triangolo del sentimento e della delusione. Merito anche di una equilibrata, astuta e ben orchestrata sceneggiatura, tutta giocata su equivoci, paure, specchi.
La brillante Julia Louis-Dreyfus di fatto non ha mai smesso di interpretare la Elaine Banes di Seinfeld, e poco aggiunge a Eva in questa evoluzione del personaggio che l’ha resa celebre. È sempre James Gandolfini, con la sua ironia e quel velo di malinconia che ne permea ogni sguardo, gesto o parola, a dare a Enough Said la sfumatura delle perle cinematografiche. Un commiato dolceamaro che dice tutto, e chiude il cerchio.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Enough Said
Regia: Nicole Holofcener
Interpreti: Julie Louis-Dreyfus, Catherine Keener, James Gandolfini, Toni Collette
Sceneggiatura: Nicole Holofcener
Fotografia: Xavier Pérez Grobet
Musiche: Marcelo Zarvos
Durata: 93 min.
Uscita italiana: 01/05/2014

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GRAND BUDAPEST HOTEL - Cinema portagioie 

10/4/2014

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Wes Anderson è uno dei cineasti contemporanei maggiormente capaci di creare una fidelizzazione, sia in positivo che in negativo: chi lo ama continua a farlo imperterrito, così come ad ogni suo nuovo film il regista de Le avventure acquatiche di Steve Zissou non si sottrae dal fornire ai suoi detrattori spunti consistenti per proseguire a disprezzarlo cordialmente.
Il suo ultimo Grand Budapest Hotel, Gran Premio della Giuria allo scorso Festival di Berlino, naturalmente non fa eccezione. È infatti un film che si staglia nella carriera di Anderson come la somma algebrica e quintessenziale del suo cinema fanciullo e zuccheroso, tutto geometrie e quadretti, immagini levigate e frame redatti con cura millimetrica. 
L’albergo, se ci si pensa bene, era un approdo inevitabile per uno come lui (già vagheggiato nel corto Hotel Chevalier che apriva Il treno per il Darjeeling). Non solo in quanto massimo luogo d’elezione per un regista arredatore, ma anche perché si tratta di uno spazio fortemente legato all’idea della ripartizione e della suddivisione, delle stanze in una hall ma anche del movimento umano circoscritto al loro interno: in esso a ciascuno viene assegnata una collocazione ben precisa che non può essere scardinata, in virtù di un numero e una chiave (d’accesso) corrispondente.
Proprio come nel cinema di Anderson, in cui ogni personaggio esegue se stesso e la funzione matematica che l’autore texano gli ha costruito addosso. Con libertà minuscole di mutamento rispetto a quel modello e ai metodi d’ingresso al mondo interiore delle proprie creature che il regista replica puntualmente di film in film, con minime variazioni sul tema. Per non parlare dei suoi movimenti di macchina classici, che qui ci sono tutti come sempre (le inquadrature simmetriche, i carrelli laterali e in avanti) e che contribuiscono ancor di più a dare la sensazione, nel suo cinema, di una griglia schematica. Eppure nel cinema o per meglio dire nella galassia di Wes Anderson non ci si sente mai costretti, ma sempre spassionatamente liberi e leggeri come i personaggi stralunati e basiti che lo abitano, anime vive in un mondo inventato nel quale il dolore entra solo di soppiatto, lasciando perciò doppiamente irretiti e spiazzati, dolcemente feriti dal sentore nitido di un’innocenza rubata.
Grand Budapest Hotel in tale circuito si va ovviamente a inscrivere, segnando però anche non pochi scarti di novità nella poetica andersoniana. Partiamo dall’assunto di base: una ragazza si trova a leggere un libro in cui l’autore racconta il ricordo di un incontro a due occorso alcuni anni prima, nel quale un anziano uomo narra a sua volta a un ragazzo ben più giovane la storia della sua vita indissolubilmente legata a un hotel e al mitico concierge che fu suo protettore, mentore e infine amico, il leggendario Gustave H: un Ralph Fiennes inedito, guascone e seduttore impenitente di signore non più giovanissime ma molto ricche.
Tra dipinti trafugati, amori che sbocciano, lotte per un’eredità contesa e personaggi dall’aspetto talvolta aguzzo e inquietante, ecco dipanarsi questo play within’ the play in cui l’atto del narrare si fa intreccio dedalico e costruzione a scatole cinesi, in un meccanismo strutturato al suo interno come una torta multistrato. La vocazione mitteleuropea di Anderson, texano trapiantato qui in un’Europa della quale è figlio illegittimo ma osservatore trasognato, omaggia non solo la svagatezza frizzante di Lubitsch e Wilder ma anche l’intimità calorosa dei testi di uno dei più grandi biografi della storia della letteratura, Stefan Zweig, che per l’appunto era austriaco pure lui. In altre parole, dal punto di vista cinematografico, il nucleo fondante dell’Europa emigrata che rese grande il cinema americano (e lo stesso Zweig fu naturalizzato britannico).
Di quell’universo lì, riversato nella farlocca Repubblica di Zubrowka, Anderson tesse l’elegia struggente: un’ode rigorosamente spiantata e priva di radici come può esserlo uno come lui rispetto a quel mondo e a come di fatto sono, ora e sempre e indipendentemente da tutto, i suoi personaggi. Il suo Grand Budapest Hotel è un’arca depositaria dei sogni di una Vecchia Europa sospesa tra Est e Ovest, un cinema che ancora una volta riscopre se stesso nella dimensione del cofanetto pieno di tesori cromatici e affettivi: un vero e proprio cinema portagioie, ostinatamente giocoso e ironico ma tinto per l’occasione di un’oscurità insolita, in cui la digressione romanzesca, la malinconia e il senso di soffuso disfacimento per via dell’incombenza di una Guerra Mondiale alle porte slabbrano l’emisfero-Anderson e i suoi luminosi vezzi stilistici in una favola più nera della norma.
Non è casuale, dunque, se la percezione della realtà in questo contesto è ancora più strozzata del solito, se i dialoghi appaiono ancor più strangolati rispetto ai parametri classici delle sceneggiature di Anderson, che per la prima volta sceneggia da solo, e il confine del disegno e del cartoon viene estremizzato oltre ogni lecito limite: Grand Budapest Hotel è quasi una stop motion imperniata su una parata alimentare di attori in carne e ossa, sulla quale le ombre si addensano lunghissime e la realtà si trasfigura nella sua variante bidimensionale quasi per proteggere se stessa, per sopravvivere e per edulcorarsi, per resistere all’orrore dei conflitti e delle separazioni. 
Un clima che contribuisce a rendere il cinema andersoniano, dopo la love story adolescenziale Moonrise Kingdom, definitivamente adulto, perfino inaspettatamente violento e stilizzato: qui ci sono quadri con accoppiamenti lesbici, cadaveri e dita mozzate in malo modo, killer, carcerati pelati e varie altre crude amenità che affollano “questo mattatoio un tempo chiamato umanità”. La stasi è prossima (“Perché ci fermiamo ancora in un campo d’orzo?”), la guerra unisce da Oriente a Occidente, dall’Africa al Vecchio Continente: Zero (che è egiziano) e Gustave si ritroveranno uniti dalla medesima condizione di fuggiaschi dal passato comune, esuli per necessità e costituzione, inevitabilmente fratelli chiamati a dormire fianco a fianco in un vagone.
Privatosi della sua figura più ricorrente, il padre, in Grand Budapest Hotel Anderson non manca però di riflettere sul concetto di eredità non solo materiale: un ultimo, estremo lascito in virtù del quale la salvezza e la custodia dei luoghi fisici della memoria sono affidate al tramandarsi della parola scritta in forma di narrazione, nonché a un terminale residuo di sensibilità in grado di instaurare una marca di consanguineità tra gli individui. L’Hotel sarà anche diventato un presidio bellico, ma nel mondo c’è ancora un libro da aprire e da sfogliare e un parente da guadagnare.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson 
Musiche: Alexandre Desplat
Fotografia: Robert Yeoman
Montaggio: Barney Pilling
Anno: 2014
Durata: 100'
Attori: Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Tony Revolori, Léa Seydoux, Tilda Swinton, Bill Murray, Jude Law

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NYMPHOMANIAC: VOL. I - Un teorema disperato

2/4/2014

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Il prologo del Vol.1 di Nymphomaniac ha in sé la chiave di molte cose. Al di là dell’uso comunque impressionante dei Rammstein, della costruzione labirintica delle inquadrature, del suo essere virato rigorosamente al nero. Quel prologo, sopra ogni cosa, desidera sfuggire ai corpi il più possibile. La Joe di Charlotte Gainsbourg, distesa a terra e priva di sensi, la scorgiamo solo a margine di un minuto e passa di buio.
Dopo quest’emersione da un’oscurità uterina, nel momento in cui la sagoma del suo soccorritore Seligman le si avvicina, ecco che la macchina da presa torna a deviare sugli edifici e sulle tubature, in una specie di slancio asincrono rispetto al centro dell’azione. Non è un caso. Perché il nuovo film di Lars von Trier, che arriva in sala anche in Italia portandosi appresso un codazzo spropositato di polemiche, furbastre campagne marketing e tanto ciarpame, un porno non lo è e non lo vuole essere; non essendo ossessionato dai corpi in quanto tali, è un film pornografico in un modo tutto suo, aulico e non catalogabile.
Non stiamo parlando, di fatto, dell’apatia del clic a profusione alla ricerca di un orgasmo di cartapesta. Proprio no. Per cui, se si cerca quel tipo di cosa, inutile bussare alla porta di Nymphomaniac. Però, esattamente come nel porno, ci sono delle immagini e dei corpi che non dialogano tra loro. Divisi da una natura e da una funzione diverse: le immagini sono qui e ora, i corpi no, simulacri di qualcos’altro da qualche altra parte, deputati al nostro desiderio. Se in un qualsiasi video su Youporn il corpo sta dunque fisicamente dentro quell’immagine ma è altro da sé, proiezione di una fantasia in cui identificarsi assumendo il corpo di un altro (vale a dire di un vicario), nel film di von Trier le immagini servono a (provare a) spiegare il senso di quei corpi fluttuanti e sospesi a mezz’aria, piuttosto che accoglierli al loro interno.
La frattura, però, anche se in forma decisamente diversa, persiste in entrambi i casi. Le immagini di von Trier i corpi li ospitano sì, come un porno può ospitare il proprio attore, ma se ne tengono a debita distanza, altere e lontane rispetto all’indecifrabilità di quel mistero. È attraverso questo processo che Nymphomaniac scarta la dimensione dell’alienazione pornografica classica per raggiungere una sua personale forma di bellezza, decaduta, non ammiccante e non consolatoria, ma disperata. Disperata come solo un teorema dimostrato può esserlo. Perché nel momento in cui fai quadrare tutti i conti, lo abbandoni contemporaneamente all’abbagliante futilità della sua perfezione.
Il film di von Trier cavalca proprio quest’ultima utopia: la volontà di redigere una “bibbia romantica della natura”, nella quale le controversie psichiche del sesso e della sessualità femminile, due rompicapi sommi e ripiegati su se stessi per il danese, possano essere spiegati con Fibonacci, Bach, il ricordo di nobili esempi letterari. È una velleità impossibile a priori e dunque rivelatrice di una struggente fragilità di fondo: in questa tensione verso la decifrazione dell’irrazionalità si innesca una sincerità perfino insperata, per uno come von Trier, che da sempre ci ha abituato, nel bene e nel male, a sgambetti smaliziati, a ritrovarci spiazzati ma anche infastiditi dinanzi alle sue creazioni. Nymphomaniac è, di conseguenza, un film eterodiretto rispetto alla forma linguistica che adotta.
La provocazione più grande, in questo caso, è per il regista de Le Onde del Destino il non aver fatto il cinema col cinema. Il suo, a pensarci bene, è un film impunemente, impudicamente e forse anche meravigliosamente anti-cinematografico. Cosa che fa del chiacchierato Lars un iconoclasta eversivo ancora oggi, anche se ormai privo di gioia dissacrante, se non nelle sue apparizioni pubbliche. È un libro da sfogliare il suo, più che un film da vedere. Allo zoccolo granitico della cinefilia dura e pura questo può dar fastidio (e chi scrive non intende tirarsi fuori dalla mischia, anzi), ma è anche vero che il cinema in questo caso esce dalla porta e rientra dalla finestra. E torna in gioco in modo inaspettato nell’onnicomprensività della sua portata di forma d’espressione totale. Nella natura dicotomica di arte debole ma fortissima, capace di abbracciare l’assolutezza panica degli ecosistemi e degli umani, divini tormenti.
In Nymphomaniac, Lars pare un bimbo che tanto non capirà mai le cose (né tantomeno le donne), e che allora si diverte a giocare intellettualmente con la materia, a plasmarla col morbo melancolico della sua immaginazione depressiva. Von Trier è in questo film un astronauta fallito che il pianeta donna non l’ha trovato, e che quindi si consola arrabattandosi con le illustrazioni scientifiche, empiriche e naturalistiche, lenitive del dolore solo se non fossero accostate all’insensatezza caotica delle pulsioni come invece provvede a fare lui.
Gli inserti del coltissimo Seligman, che è ebreo (una licenza che solo uno come von Trier poteva concedersi, dopo ciò che è successo a Cannes due anni fa), tutti didascalie e sovrimpressioni, sono la scommessa oscena e borderline di uno che col cinema vuole giocare a carte scoperte, interrogando e interrogandosi. Senza più misticismo e rimando di senso all’interno delle immagini, che sono nude, ottuse e meccaniche come l’erotismo della protagonista. Senza, allo stesso tempo, dimensioni successive rispetto a quella immanente, quasi a suggellare un definitivo approccio al marxismo. 
Eppure, in fin dei conti, si tratta di immagini disponibili ad aprirsi su mondi ulteriori, spalancandosi alla geometria, alla bellezza dell’armonia, alla sinfonia della matematica. Von Trier la sua protagonista (o quell’insetto che ella è) non la ama e non la disprezza, ma preferisce, da umanista degradato, ambiguo e nichilista qual è, non schiacciarla. Piuttosto (tentare di) capirla, alla larga da qualsiasi pretestuosa accusa di misoginia rivolta nei suoi confronti. Ci prova con quanto di più luminoso e oggi (spesso) impotente esista: la cultura. A tutto ciò, che in parte è provocazione e in parte stringente necessità di un artista che non ha paura di denudarsi, tocca starci. Per evitare, se si vuole - ma non è certo obbligatorio - che tutte queste premesse crollino in un solo colpo. Occorre accogliere, come la protagonista, tutto dentro di sé. 
La scelta, meno male, non è solo tra il sesso e l’amore, ma è molto più grande, tutta giocata tra l'accontentarsi di essere animali in gabbia che aspettano di morire e la pretesa di richiedere al tramonto colori più forti.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema

Altri articoli di riferimento: Nymphomaniac Vol. II - Cine-Cilicio

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Scheda tecnica

Titolo originale: Nymphomaniac
Anno: 2013
Uscita in Italia: 3 aprile 2014 
Durata della versione italiana: 110’ (autorizzata ma non approvata dal regista)
Regia: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Manuel Alberto Claro 
 Musiche: Kristian Eidnes Andersen
Attori: Charlotte Gainsbourg, Stacy Martin, Stellan Skarsgård, Christian Slater, Shia LaBeouf, Uma Thurman

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