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LA CANZONE PERDUTA - La musica della memoria

24/3/2016

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​Kurdistan, 1993. Un insegnante racconta una storia alla sua classe di studenti. Bambini. L’insegnante dimostra una grande passione mentre coinvolge il pubblico di piccoli auditori nella performance della fiaba. La scuola è costruita sul niente. Deserto, e nemmeno un albero a offrire un po’ di ombra. La scuola è un edificio fatiscente, una sola aula. Una macchina si avvicina. Un commando di uomini scende, entra nell’aula. Porta via il maestro con la forza. Trascinato via. Scomparso.
Istanbul, oggi. Nigar (Zübeyde Ronahi) e Ali (Feyyaz Duman), madre e figlio, cercano di vivere al meglio una vita da rifugiati curdi nella capitale turca, nel quartiere di Tarbalasi. Il quartiere curdo. Mentre Ali si barcamena come può, affrontando con coraggio e positività un presente non soddisfacente ma dignitoso, Nigar è bloccata in una realtà che non riconosce. Vuole tornare al suo villaggio. Vuole tornare alla vecchia vita. Rivuole indietro il suo paese, il suo popolo, le abitudini, i costumi, il tempo, lo spazio dell’esistenza culturale e storica che ora le è negata. È la dimensione angusta e grigia dell’esule, dell’emigrato per necessità, per fuga, per sopravvivenza. 
​
La donna non si lamenta, ma non parla. Ripete gli stessi lentissimi gesti, un rituale cui aggrapparsi. Pulisce e contempla il ritratto del marito. Scomparso a suo tempo. Portato via. La memoria giace nella vita di Nigar. Tutto ruota attorno al ricordo di un’antica canzone. Introvabile. Smarrita, come il passato di un’etnia.
«Voi giovani di che vi ricordate?» chiede Nigar. Nessuna memoria per le giovani generazioni. Nessun ricordo. Nulla da conservare.
Se il passato sembra essere stato cancellato, se il ricordo pare non esistere più se non in poche fotografie sbiadite attaccate al muro, una nuova epoca fagocita la storia. Cellulari. Musica rock. Tutto appare come il frutto di una evoluzione, di una colonizzazione, si potrebbe dire, che si disfa del passato per assorbire il presente. Pazienza allora se il futuro è fatto di nuovi suoni, nuove lingue, abiti, strade e una nuova architettura per la città. Hotel ovunque. Turismo. 
Non resta che adattarsi, infine. Solo Nigar è l’ultimo anello della memoria, personale e collettiva. Un’anima dolente in certa della sua identità. Nigar che soffre di insonnia, non mangia, si annoia, che ascolta disperatamente tutta la musica possibile solo per ritrovare la sonorità e le parole perdute. Nigar che fugge via, determinata a ritornare ai luoghi che le appartengono e a cui appartiene. Una donna persa come una profuga senza meta, con il ritratto del marito sottobraccio; un’anziana sradicata da tutto e da tutti, in viaggio tra strade senza destinazione. La ricerca di Ali è una ricerca nella memoria, in quella stessa memoria sulla cui consistenza la madre si interroga continuamente. Ali cerca di tenere insieme la radice familiare e il futuro. La sua compagna è incinta. Ma lui vuole avere il bambino oppure no? Vuole ricordare? Vuole ritrovare la comunicazione con la madre? È pronto a portare con sé l’eredità paterna?
​
Il poeta e regista Erol Mintaş, classe 1983, al suo primo lungometraggio, racconta una storia commovente e drammatica, come il destino che lega i protagonisti alla storia del proprio popolo. La canzone perduta non sembra volersi distinguere come un film apertamente politico, nel senso che la questione curda non viene direttamente affrontata, eppure lo è: per quell’ombra sottile che come una lama taglia le vite dei protagonisti, divisi tra la pena per l’abbandono della terra d’origine e l’incapacità di accettare un futuro senza ricordi; per il ritratto delicato e tragico di un’etnia che si riflette nel particolare delle esistenze di Nigar e Ali; per l’emozionante descrizione della relazione madre-figlio, sviluppata sui gesti, le tradizioni, le abitudini, i silenzi, la lingua. 
Il binario linguistico tra turco e curdo, lungo il quale si snoda l’intera narrazione, è solo uno dei tanti aspetti affascinanti del film, distribuito in Italia grazie all'ottimo lavoro di Lab 80. Una musica che nessuno sembra ricordare. Una lingua che si sta esaurendo, parlata solo tra le mura di casa. Parole smarrite, mai pronunciate, che solo ad ascoltarle muovono la corda del rimpianto, del desiderio di ricongiungersi alla propria terra, agli affetti, all’idea di quello che è stato. 
Nessuno abita più gli antichi luoghi del Kurdistan. Ma resta la memoria, correndo sull’eredità di una struggente canzone.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema

Ulteriori informazioni sul film ed elenco delle sale a questo link. 


Scheda tecnica

​Titolo originale: Song of My Mother
Regista: Erol Mintaş
Interpreti: Zübeyde Ronahi, Feyyaz Duman, Nesrin Cavadzade
Anno: 2014
Durata: 98'
Fotografia: George Chiper-Lillemark
Uscita in Italia: 24 marzo 2016

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AVE, CESARE! - La fabbrica dei Coen

11/3/2016

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​Nello stanzino buio la moviola è in funzione. L'infaticabile C.C. Calhoun (Frances McDormand) procede spedita nel giuntare frammenti di un dramma da salotto. Al suo fianco Eddie Mannix (Josh Brolin), assorto a guardare il pre-montato che scorre sul piccolo schermino, con l'aria soddisfatta di chi ha davanti a sé un prodotto di certo non a regola d'arte, ma funzionale al suo scopo. Finché non sopraggiunge l'imprevisto, in perfetto stile coeniano, quando il foulard della donna s'incastra nel nastro rischiando di strozzarla. 
È senz'altro una delle sequenze più brillanti e divertenti di Ave, Cesare!, tutta giocata su sguardi, dettagli e ritmo, sul rispecchiamento tra ambiente ripreso e modo di riprendere. Ma è anche un singolare duetto che vede da un lato il capo di produzione, il fixer della Capitol Pictures, alle prese con l'ennesimo problema da risolvere, e dall'altro l'ultimo e determinante anello della filiera cinematografica. A colmare la distanza c'è appunto il film nel film, un ritaglio dal più ampio orizzonte di generi della Hollywood anni '50, ricostruita dai fratelli Coen nel loro ultimo lavoro.
La mitologia, pertanto, è anzitutto la fabbrica dei sogni a cui sono approdati i due registi nel corso degli anni, fino a essere completamente integrati dal sistema, preso di mira in passato con tono irriverente e sofisticato, ed esplorato adesso con un approccio piuttosto libero e più scanzonato. 
Ave, Cesare! immerge lo spettatore nella Golden Age del cinema americano, una visione onnicomprensiva delle dinamiche che scandivano il costante flusso di lavoro, dentro e fuori dal set. Il punto di vista è quello del tormentato Mannix, pronto a intervenire ogni qualvolta una star va a ficcarsi in qualche scandalo, a tenere a bada i continui capricci di attori, registi e giornalisti. Hobie Doyle (Alden Ehrenreich), celebre cowboy di B-western, ritrovatosi di colpo a recitare in quel dramma sopracitato, incarna in modo impeccabile gli stilemi dei personaggi nati dalla penna dei due autori.“Would That It Were So Simple”, battuta che il pedante Laurence Lorenz (Ralph Fiennes) gli fa ripetere fino allo sfinimento, diventa infatti il mantra attraverso cui l'eccesso mostra la verosimiglianza con la realtà descritta. Mannix controlla costantemente l'orologio, dimenandosi affinché la complessa macchina cinema produca sugli schermi la magia, l'incanto di storie che nutrono i diari intimi del pubblico. Ci sono le acrobazie acquatiche di DeeAnna Moran (Scarlett Johansson), le briose coreografie del cantante ballerino Burt Gurney (Channing Tatum), e le due columnist gemelle, interpretate da Tilda Swinton, sempre a caccia di possibili scoop. 
Su tutti, però, svetta Baird Whitlock, rapito da un misterioso gruppo di sceneggiatori e personificato da George Clooney – qui più gigione che mai – nei panni di un generale romano protagonista in un film su Gesù. Figura che non vediamo mai eppure presente sotto forma di ideale, a cui ci si appella in cerca di una verità tutta da decodificare.  
Joel ed Ethan Coen sbirciano, catturano con occhio sedotto la pazzia contagiosa dell'industria di quegli anni, offrendone una prospettiva corale delle sue forme espressive e, soprattutto, mettendosi al riparo da facili nostalgismi. Ave, Cesare!, strutturato intorno alla commedia, avvicenda nel tempo brani di puro noir, western e musical, un connubio di fronte al quale è impossibile non lasciarsi trasportare. Tuttavia, nel suo essere dichiaratamente leggera e vincolata a uno schema preciso, l'opera pare reprimere quel “tocco alla Coen”, quell'impulso il più delle volte assorbito nei movimenti di camera, che lasciano un'impronta autoriale sempre ben visibile. E, come lo scialle di C.C, tale mancanza rischia di sgranare la qualità della pellicola, finendo col modellare un sogno in cui ci si libra a bassa quota. 

Vincenzo Verderame  

Sezione di riferimento: Film al cinema


​Scheda tecnica

Titolo originale: Hail, Caesar!
Anno: 2016
Regia: Joel Coen, Ethan Coen
Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen
Fotografia: Roger Deakins
Musica: Carter Burwell
Durata: 106'
​Uscita italiana: 10 marzo 2016
Attori: Josh Brolin, George Clooney, Ralph Fiennes, Jonah Hill, Scarlett Johansson, Frances McDormand, Tilda Swinton

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