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BLING RING - Il vuoto che abbaglia

29/9/2013

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Sofia Coppola è da sempre una regista affascinata dal vuoto, sia esso umano ed esistenziale, sociale ed emotivo. Si può dire che il suo cinema viva sospeso su quest’abisso, in una condizione di impalpabile indeterminazione: la prigionia borghese della giovani ragazze Lisbon, un limbo depressivo in cui le emozioni sembrano regredite nella totale anestesia dei sentimenti; i non-luoghi rappresentati dagli Hotel di Lost in translation e Somewhere (l’Hyatt di Tokyo e il losangelino Chateau Marmont); l’opulenza luccicante ma castrante della Versailles di Marie Antoinette, reggia di perversa e abbagliante apparenza che incenerisce le speranze della sovrana di Francia e di fatto ne sopprime ogni sogno di giovinezza.
Una scia sulla quale Bling Ring va a collocarsi di gran carriera, senza compromettere di un millimetro l’inamovibile tracciato che la poetica della regista ha negli anni intrapreso. La Coppola ricorre a una regia totalmente impersonale, lontana dalle lentezze insistite e dalle pose arty di Somewhere: montaggio frenetico, ritmi elevatissimi e il magnetismo animale dei gioielli e delle collane, delle scarpe firmate e dei capi di moda extralusso. Figure che in avvio irrompono nel nero pece di un esterno notte sulle note pop e formicolanti della Crown on the ground delle Sleigh Bells, con quei groove graffianti che immergono subito il film nel liquido amniotico della demitizzazione, della denuncia del lato oscuro del pop e delle sue forme più minacciose.
È la giusta veste formale e contenutistica per personaggi totalmente inetti e insopportabili, che nulla sanno fare e ancor meno sembrano avere da dire, cercando conferma delle loro personalità assenti solo ed esclusivamente nell’appropriazione degli averi delle star e nelle irruzioni in ville lussuose di proprietà dei vip da loro adorati. Automi dalle emozioni plastificate, ripresi da telecamere di sicurezza che ne restituiscono la dimensione irreale filtrandola e facendone un documento sociale di una freddezza inaudita.
Nicki, Sam, Mark, Chloe e Rebecca e la loro laida, stomachevole superficialità per un’ora di film sono raccontati dalla Coppola senza apparente sforzo, con un stile mimetico che sembra nascondersi dietro i diamanti e i profili Facebook, gli scatti instagram e gli smartphone, la velocità delle condivisioni e tutto il campionario di inutilità contemporanea di questi wanna be cool e ladruncoli. Le riprese a circuito chiuso sono parte integrante di una totale adesione alla storia da una prospettiva ben più che seminascosta: in una scena si ricorre addirittura ad un alienante campo luogo di una dimora (un momento da applausi, calibrato e sorvegliatissimo) e altrove i suoni vengono spesso messi a tacere, creando un acquario pneumatico a dir poco opprimente. Si vedano, a questo proposito, le sequenze delle feste e dei vestiti in serie à la Marie Antoinette, della cocaina e dei ralenti (su tutti quello strombazzato, ad alto tasso erotico, di Emma Watson). La Coppola è ancora una volta magistrale, questa volta nel riversarci addosso una montagna di disgusto e asfissia anche se col minimo sforzo, con un piano di regia plagiato dalle scorciatoie dell’estetica Mtv e da esse subissato, tra autoreferenziali camei (Kirsten Dunst) e rapporti d’amicizia dalle dinamiche demenziali, fatti di colpe rinfacciate e bellocci autocompiaciuti.
Peccato però che questa sorprendente tenuta, impassibile rispetto a tutto e tutti e fissa sul proprio obiettivo, collassi nell’ultima mezz’ora in modo francamente un po’ inspiegabile. Dopo che Mark vede una delle sue compari allontanarsi oltre l’auto in cui si trova con in mano una valigia (una scena che sa di svolta), il distacco tra lo sguardo di Sofia e i suoi personaggi si acuisce oltre ogni limite, allontanandosi dall’anonimato e dalla fermezza per palesare una rabbia velenosa per la gretta stupidità di questa gioventù bruciata 2.0, che sembra indispettire Sofia più di qualsiasi altra cosa. L’invettiva del pamphlet fa precipitare l’operazione e compromette inevitabilmente l’irreprensibilità dello sguardo della Coppola, annebbiato da un giudizio moralistico che non può non mettere in discussione la lucidità complessiva. Fosse stato uguale dall’inizio alla fine, Bling Ring sarebbe stato un grande film. Ma così sembra solo un’occasione malamente sprecata.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2013
Durata: 87'
Regia: Sofia Coppola
Sceneggiatura: Sofia Coppola
Fotografia: Harris Savides, Christopher Blauvelt 
Montaggio: Sarah Flack 
Costumi: Stacey Battat
Scenografia: Anne Ross
Attori: Katie Chang, Israel Broussard, Emma Watson, Claire Julien, Taissa Farmiga, Leslie Mann
Uscita italiana: 26 settembre 2013

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THE GRANDMASTER - Le dimensioni della storia

28/9/2013

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“Kung-fu, due caratteri: l’orizzontale e il verticale”. Con queste parole si apre The Grandmaster, il ritorno dietro la macchina da presa di Wong Kar-wai a cinque anni di distanza dall’esordio americano di My Blueberry Nights, incompresa e bellissima esportazione di uno stile e di uno sguardo in terra straniera, ma ugualmente universale. 
Kung-fu, quindi, per ritornare in patria affrontando il genere cinese tradizionale per antonomasia: il film di arti marziali, il wuxiapian. E Wong lo fa raccontando la vita di uno dei personaggi più celebri del suo tempo, il maestro Yip Man, vera e propria istituzione nell’insegnamento del Wing Chun, nonché primo insegnante a tramandare liberamente questa disciplina (tra i suoi allievi, come noto, ci fu anche il giovanissimo Bruce Lee). Lontano da quella rivisitazione puramente estetica del genere messa in atto da Zhang Yimou con Hero e La foresta dei pugnali volanti, e proseguendo invece nel personalissimo percorso di mappatura dell’Uomo e dell’impossibilità dei sentimenti, qui smarriti e dilatati nel gigantismo della Storia in maniera non meno struggente che nel melò In the Mood for Love.
L’orizzontale e il verticale. È attraverso queste coordinate che Wong dipana lo svolgimento del suo film, trasfigurando il concetto stesso di kung-fu in motore narrativo in grado di attraversare le epoche e i decenni, gli uomini e le gesta, la vita e la morte. Spostamenti geografici e fisici (dalle province del Nord a quelle del Sud), combattimenti in verticale, movimenti in orizzontale, attraversati da oggetti (il treno) e gocce di pioggia, come a costituire un grande e invisibile reticolo per tentare di raccontare, imbrigliare, cristallizzare quello che invece non si può arrestare: il Tempo, la Vita, la Storia.
The Grandmaster è un film che corre, instancabilmente: dopo un preludio di quiete e tranquillità (ciò che Yip definisce appunto la primavera della vita), le vicende raccontate crescono a dismisura, e con loro i protagonisti, nel tentativo di venire a patti con l’incedere frenetico degli eventi. Un cinema in costante fibrillazione, nel quale si fa sempre più difficile orientarsi all’interno di uno svolgimento che è costantemente un passo avanti a noi, perché la vita fugge, e le immagini sembrano quasi non riuscire a stargli dietro. È facile perdersi, e ancor più facile è rifiutare questo smarrimento: bisogna invece accettarlo fino in fondo, abbracciarlo e utilizzarlo per cercare di comprendere quanto grande sia il disegno generale che porta con sé.
Ecco, The Grandmaster è un cinema che pensa in grande, orgogliosamente. Ancora. In termini di set, di spazi, di tempi. Un film nel quale la Storia procede la sua avanzata a passi di gigante, fagocitando uomini e donne, numeri e date, cose ed eventi; come nel capolavoro Everlasting Regret di Stanley Kwan, dei corpi rimane soltanto una didascalia ad illustrarne il destino, perché tutto corre, e non si fa in tempo a memorizzare un ricordo che esso è già svanito nelle ceneri del tempo. Ashes of Time, appunto. The Grandmaster è grande perché anche la vita lo è, ma mai quanto vorremmo: è grande perché ha il coraggio delle lacrime e dei sentimenti, e perché guarda esplicitamente a quel cinema che nessuno ha più il coraggio di fare. E poco importa se alcuni storceranno il naso davanti alle citazioni esplicite di C’era una volta in America nell’ultima mezzora, con tanto di riproposizione del Deborah’s Theme di Ennio Morricone; poco importa anche se molti punteranno il dito contro l’incompiutezza dell’operazione, palesemente vittima di un montaggio giocoforza castrante nei confronti del girato originario: il film di Wong sopravvive anche a questo, riuscendo a palesare un’enormità di sguardo che non si lascia sopraffare da alcun taglio o riduzione, tanta è la sua imponenza.
In questo cinemascope infinito in cui è possibile distinguere e contare ogni singola goccia di pioggia che cade, l’unica possibilità che l’Uomo ha di sopravvivere al Tempo è accettandone la circolarità: per un maestro che rifiuta di tramandare la propria arte, ce n’è un altro che al contrario accetta di farlo. Le arti marziali possono essere alte, ma mai quanto il cielo. L’orizzontale e il verticale, le dimensioni della Storia. Il corpo e il combattimento come scrittura nel tessuto del Tempo, e l’Uomo come inchiostro destinato inesorabilmente a scomparire. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica   

Titolo originale: Yut doi jung si
Anno: 2013
Regia: Wong Kar-wai
Sceneggiatura: Wong Kar-wai, Zou Jingzhi, Xu Haofeng
Fotografia: Philippe Le Sourd
Musiche: Nathaniel Méchaly, Shigeru Umebayashi
Durata: 133’
Interpreti principali: Tony Leung, Zhang Ziyi, Cung Le, Chang Chen, Julian Cheung, Zhao Benshan

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RUSH - I cavalieri della morte

25/9/2013

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Di nuovo la gloriosa e solida penna di Peter Morgan, ancora la dicotomia tra due personaggi dalla rivalità magnetica: Ron Howard ci riprende per mano da dove ci aveva (davvero) lasciati, a quel Frost/Nixon – Il duello che del cinema del regista americano era il miglior biglietto da visita immaginabile, compendio perfetto di scrittura cristallina e concretezza psicologica. Rush è allora un grande ritorno proprio nella dimensione in cui recupera quasi integralmente tali pregi applicandoli al racconto romanzato del rapporto controverso e spigoloso tra due dei più indimenticabili piloti di Formula 1 di tutti i tempi: Niki Lauda e James Hunt, uguali e diversi come tutti i nemici più acerrimi, metodico e sgradevole il primo, sregolato, guascone, playboy e piacente l’altro.
L’austriaco impersonato da un sorprendente Daniel Brühl e l’inglese sono due cavalieri della morte abituati a convivere col rischio capitale e inorgogliti da questa condizione transitoria, che si fa rabbia interiorizzata nel caso di Lauda e istinto a vomitare platealmente prima delle gare per Hunt. Pur nelle differenze abissali che li contraddistinguono, Rush sta addosso alla fisicità dei suoi protagonisti con una messa in scena frenetica e adrenalinica che riduce al minimo sindacale la ricostruzione dei Gran Premi e degli abitacoli delle monoposto per aprirsi all’indagine dei caratteri, delle dinamiche emotive, delle vite che sfrecciano via su circuiti diametralmente opposti e che pure hanno per carburante la stessa divorante ubris. Non solo un motore agonistico, ma soprattutto una ragione di vita, un motivazione ideologica tignosa che si fa visione del mondo estrema e contrastata, priva di concessioni ed equilibri.
La fame dei due campioni è la stessa della regia ben ritmata e vigorosa di Howard, che ricerca lo slancio scopico dell’occhio che si dilata sotto il casco, la forza solitaria e respingente di un Lauda abituatosi a convivere con l’ustione di una mostruosità che si fa specchio di un'intera galassia interiore invasa da ragnatele, astio, ambizione cieca e quasi anaffettiva (il rapporto con la moglie Marlene è tratteggiato con grande tatto, in compenso).
Certo, non manca neanche quel briciolo di retorica un po’ preconfezionata in fondo congenita e magari perdonabile al genere, con le frasi a effetto e le scorciatoie di sicuro impatto che sopraggiungono puntuali. Un margine di prevedibilità perfino inevitabile per un film sportivo trattato con questa passione da Howard, cineasta magari non raffinatissimo ma che ben conosce le potenzialità degli attrezzi migliori della sua cassetta. Il regista di A beautiful mind lavora sulla concretezza della metafora, allontanandosi in modo di sicuro salutare da una tematizzazione troppo problematica (il divario tra una Formula Uno in cui il pilota si autofinanzia a quella subito successiva in cui egli ha disperatamente bisogno di sponsor è solo accennato, per esempio).
Ne deriva un film d’ottima fattura che è il degno parto della mente pragmatica e integralmente visual dell’ultimo grande cineasta classico americano. Classico nella misura in cui riesce in modo organico e naturale ad ammantare l’intera materia dei suoi racconti di una dimensione mitica che emana un respiro arioso, di una sovrabbondanza enfatica che sa di consapevole e coerente manipolazione dell’immaginario. Molto più che un bottegaio di fiducia degli studios capace di esaudire i desideri dei produttori senza frapporvi nessun vezzo autoriale stantio, così bravo a lavorare sugli archetipi (termine da intendere qui in senso classico, fordiano per l’appunto) da prendere in mano un argomento del quale fino a prima di girare non poteva considerarsi un esperto e cavarne fuori un film efficace e appassionato ancor prima che appassionante. Perfino coreografato con colori un po’ svuotati per simulare un effetto retrò e nostalgico anni ’70, un impianto estetico da far poi esplodere premendo sull’acceleratore di un montaggio modernista e da visibilio. Antico e moderno, tra la luce pastosa e ambrata della fotografia e una velocità quasi videoludica, con i due aspetti che spesso e volentieri si ritrovano a coabitare nella stessa inquadratura.
Ron Howard, quando è in forma (e in questo caso pare proprio di sì) riesce insomma ad amalgamare come nessun altro i contrasti diluendoli in un’affascinante polifonia, la stessa di una versione originale che fa leva su più lingue e risulta pertanto imprescindibile per godere appieno dell’interpretazione ispirata di tutti gli attori (lo stesso Favino, che è un ottimo Clay Regazzoni, ridoppiato in italiano da se stesso è a dir poco inascoltabile). 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema  


Scheda tecnica

Anno: 2013
Durata: 123 min
Regia: Ron Howard
Sceneggiatura: Peter Morgan
Fotografia: Anthony Dod Mantle 
Montaggio: Mike Hill, Daniel P. Hanley
Musiche: Hans Zimmer
Scenografia: Mark Digby 
Attori: Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino
Uscita italiana: 19 settembre 2013

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MOOD INDIGO - La giostra del perduto amore

14/9/2013

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Autore da sempre controverso, Michel Gondry si presta ogni volta a discussioni di non semplice risoluzione, per la sua insistenza a voler portare sullo schermo un cinema perennemente fuori dagli schemi, che fa della creatività un punto di forza e talvolta anche un limite.
Negli anni Gondry ci ha regalato un debutto coinvolgente come Human Nature, un capolavoro sublime come Eternal Sunshine of the Spotless Mind (rifiuto categorico a utilizzare il delinquenziale titolo italico), un vivo successo come L'arte del sogno, e un fallimento hollywoodiano come The Green Hornet. Nel mezzo videoclip, cortometraggi, brevi incursioni televisive e un buon esempio di docufiction come The We and the I, rimasto inedito ai più.
Per il suo ritorno in terra di Francia l'autore di Versailles ha raccolto l'ennesima sfida di un percorso artistico mai scontato, lanciandosi nella temibile impresa di dare vita e immagini alle pagine di L'ècume des jours, straordinario romanzo pubblicato nel 1947 da Boris Vian, non molto conosciuto in Italia ma considerato Oltralpe come uno dei massimi esempi di letteratura del Novecento, tanto da essere analizzato e insegnato sui banchi di scuola. Già oggetto di due precedenti trasposizioni cinematografiche, una nel 1968 per la regia di Charles Belmont e l'altra nel 2001 per mano di Go Riju, il libro di Vian si avvale di una complessità stilistica, formale e lessicale che ne trascina ogni significazione sino ai limiti del filmabile, talvolta oltre; va dunque dato atto a Gondry di aver tentato un'impresa non lontana dalle paludi dell'impossibile, ostacolo superato (in parte) con l'inesausta ricerca espressiva da sempre in prima linea nel cinema del transalpino.
La schiuma dei giorni racconta la storia d'amore tra il ricco viveur parigino Colin e la dolce Chloé, un viaggio nelle ragioni profonde del cuore accompagnato dal respiro dell'imminente tragedia, pronta a bussare alle porte della felicità nel momento in cui una ninfea si insinua nel polmone di lei, crescendo al suo interno sino a consumarne la forza vitale. Per tentare di regalare al cinema almeno la parziale sostanza dell'impressionante ricchezza linguistica contenuta nel romanzo, Gondry dà fondo a tutte le invenzioni tecniche di cui può disporre, tuffandosi in un guazzabuglio estetico in cui commedia romantica, dramma, ironia, speranza, lacrime e sangue corrono a braccetto con una messinscena dominata da movimenti accelerati, scene d'animazione in stop motion, montaggio schizofrenico, inquadrature oblunghe, idee imprevedibili e assurdità assortite. 
È come se Gondry volesse succhiare la linfa offerta dalle infinite possibilità teoriche e pratiche del cinema, costringendo lo spettatore a salire sulle funi di una giostra al contempo soffocante e accecante, ubriaca e squadrata, anarchica e crudele; una sarabanda affamata di tempi e colori, che si nutre del cinema stesso sino a divorarne le basi per renderlo strumento malleabile e ribaltabile sino allo stordimento.
Per questi motivi, è scontato asserire come Mood Indigo possa incontrare con eguale facilità attrazione e repulsione, entusiasmo e rifiuto, cosa che infatti sta puntualmente accadendo; siamo infatti di fronte a un'opera limite, nella quale il muro che separa genialità, manierismo, poesia e paraculaggine crolla fino a trasformarsi in cenere da calpestare senza ritegno. 
A conti fatti, se si esce indenni dall'orgia visiva dei primi venti minuti, Gondry dimostra ancora una volta come dia il meglio di sé proprio quando butta via il manuale delle follie e si dedica anima e corpo alla leggenda eterna dell'amore; lì, nella profondità delle vie del sentimento, anche la sua schiuma dei giorni diventa candida e morbida, e ritroviamo tracce profumate di quel solenne umanesimo espresso nel sopracitato e meraviglioso Eternal Sunshine. In quel territorio ovattato la culla degli affetti esplode, portando i suoi attori a volare sopra i tetti di Parigi, in una delle scene più belle del film, per poi appassire in un istante come i fiori che Chloé deve portare sul petto per combattere la malvagia ninfea, negli anfratti avvizziti di una casa sempre più piccola, brutta e tetra, simbolo in perenne mutamento di ciò che gli occhi non sanno più celare.
Mood Indigo pare scriversi da solo, con una mano e mille mani, in quella caotica catena di montaggio che fa da corollario alla messinscena, prigione da cui non si può fuggire. Il film di Gondry è una cascata di sollecitazioni, un fiume in piena debordante, in cui nuotano con tutte le loro forze per restare a galla i protagonisti della vicenda: un bravo ma sempre troppo gigione Romain Duris, di nuovo nei cinema italiani a poca distanza da Populaire (Tutti pazzi per Rose), e una sempre più bella e matura Audrey Tautou, ancora una volta convincente dopo le emozioni trattenute offerte in Thérèse Desqueyorux di Miller. Tra di loro, nella quadruplice veste di cuoco, autista, amico e avvocato, un irrefrenabile Omar Sy, bravo a rimettersi in gioco in un ruolo non di primissimo piano dopo il trionfo di Intouchables (Quasi Amici). 
Giusto citare, infine, anche le brevi apparizioni di Vincent Rottiers, recensito sulle nostre pagine per Je suis heurex que ma mère soit vivante e ormai onnipresente nella contemporaneità del cinema francese, e di Natacha Régnier, ancora affascinante anche senza più essere la ragazzina scapestrata di Les Amants Criminels; entrambi, ovviamente, alle prese con ruoli in cui il gusto (macabro?) per il surreale si impone su tutto. Una legge intoccabile, che domina ogni anfratto di Mood Indigo sino all'ultimo petalo di rosa.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: L'Écume des jours
Anno: 2013
Durata: 125 min
Regia: Michel Gondry
Sceneggiatura: Luc Bossi (dal romanzo di Boris Vian)
Fotografia: Christophe Beaucarne
Montaggio: Marie-Charlotte Moreau
Musiche: Étienne Charry
Scenografia: Stéphane Rosenbaum
Attori: Romain Duris, Audrey Tautou, Gad Elmaleh, Omar Sy, Aïssa Maïga
Uscita italiana: 12 settembre 2013

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