ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

JIMMY’S HALL - Ribellarsi è danzare

23/12/2014

0 Comments

 
Picture
Città in rivolta, animosi dibattiti, leader trascinanti, scenari sanguinosi: sommariamente sono questi i tratti in cui è intinto nell’immaginario collettivo l’affresco delle grandi rivoluzioni della storia, così gloriose e spettacolari da relegare tra scaffali di second’ordine rivoluzioni magari più piccole e circoscritte a una comunità rurale, ma non di meno animate dall’afflato di liberazione che ha soffiato coralmente sul Novecento. È proprio attraverso una piccola storia marginalizzata dalla Storia ufficiale che Ken Loach arricchisce un’indefessa filmografia confermando la sua natura bipolare: cineasta energicamente schierato (per cui il cinema resta pur sempre un mezzo funzionale a uno scopo polemico-pragmatico), eppure autore abilissimo nel connotare ambienti e personaggi con attendibilità ed equilibrio.
L’onestà su cui si gioca il valore di una recensione ci impone di ammettere lo stato d’animo con cui si è entrati in sala: una diffidenza non troppo rigida, sufficientemente disposta a ripensamenti da scongiurare l’eventualità di sorprese troppo clamorose (stordente per il critico). Si sospettava di veder sciorinata la zolfa retorica a lungo rimasticata, un racconto tirato su fra citazioni e umori nostalgici, la fiaba seriosa di un’antica solidarietà bucolico-comunista. Ma mentre già si argomentava solennemente la stroncatura, inizia un altro film.
Certamente Loach non fa a meno della tesi; in Jimmy's Hall la chiarezza è una necessità da cui non è esente nessun elemento della storia, dall’inquadratura descrittiva più semplice ai personaggi, e per fare chiarezza occorre schierare oppressi e oppressori confinandoli in opposte regioni di pensiero. Eppure a riscattare tutto intervengono prontamente l’ironia garbata e un sano distacco della regia dagli eventi, espedienti che da soli concorrono a suscitare nello spettatore non schierato sconcerto di fronte alle non poche prevaricazioni che i rivoltosi, ma fragilissimi, eroi di Loach subiscono, e rabbia, perché quello che Loach ci chiede non è tanto interrogare la storia nelle sue colpe e nelle possibilità negate alle sue vittime, ma riflettere sulle fondamenta umane di una rivolta, ragioni trasversali ai tempi e ai luoghi: l’amore per le proprie radici, la necessità della conoscenza, la ricerca della solidarietà.
Lontano anni luce dall’ambizione di raccontare ex cathedra la storia (ma altrettanto lontano dall’ambizione di reinventarla, a cui ci ha viziati fin troppo bene l’ultimo Tarantino), Loach filma con lo sguardo piantato nei confini della campagna irlandese, iniziando con un ritorno e finendo con un sofferto allontanamento. In mezzo, l’avventura di Jimmy Gralton (Barry Ward), esiliato in America nel 1921 perché, durante la guerra civile irlandese (che contrappose indipendentisti radicali e repubblicani favorevoli all’unione con la Gran Bretagna), aveva osato metter su una modesta sala da ballo, luogo di festa e condivisione, rendez-vous per i giovani della comunità dove volenterosi maestri insegnavano letteratura, musica, arte e naturalmente danza di gruppo. La Chiesa, dal suo alto scranno censorio, sola detentrice del potere di preporre usi e costumi di un popolo, tacciò Gralton di comunismo sovversivo provvedendo in fretta al suo esilio.
Dieci anni dopo, Gralton torna dall’America. La terra promessa, di cui ci viene raccontata come un monito la ricca stagione di lusso e speculazione, preludio al crollo del ‘29, è un luogo lontano, smarrito in sbiaditi materiali d’archivio (come quelli con cui si apre il film). Jimmy se ne porta dietro il simbolo tecnologico più progredito (il grammofono) con 78 giri di jazz. Spinto dalle pressioni delle nuove leve della comunità, ricostruisce la leggendaria sala, riportando vecchi e nuovi amici sulle tavole da ballo. Ma il parroco Sheridan (Jim Norton) medita di assumere il controllo sulla sala oppure di annientarla, conducendo una battaglia prima personale poi più estesa e violenta contro le barbare influenze di musica e costumi stranieri.
Saggiamente Loach affida al parroco il ruolo di antagonista sfumato, spregiudicato ma pensieroso, tremendo simbolo della resistenza del vecchio mondo oscurantista, ma anche uomo indeciso e capace di impreviste uscite autoironiche. Jimmy è fin troppo rigido, come uno schema alla lavagna: eroico, quindi d’azione, non di pensiero. È nelle velate incertezze di tono, nei bivi tra silenzi e lunghi dibattiti che il film guadagna i suoi momenti più riusciti, piuttosto che quando si affida a espedienti più semplici: uno su tutti il montaggio parallelo che contrappone le danze scomposte e vitali nella sala di Jimmy all’ambiente asettico e rigidamente bipartito della chiesa, dove Sheridan condanna Gralton e elenca i nomi dei partecipanti alla sua festa come da una lista di dannati.
Meglio il lento ballo sotto il pallore lunare tra Jimmy e l’amata (e perduta) Oonagh (Simone Kirby), nella sala vuota e con la musica sognata e poi dissolta, come dissolto è infine il sogno libertario, troppo breve e forte da far uscire il sangue dal naso, come cantava il piccolo indiano di Fiume Sand Creek. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Jimmy’s Hall
Anno: 2014
Durata: 109’
Regia: Ken Loach
Interpreti: Barry Ward, Simone Kirby, Jim Norton, Andrew Scott, Francis Magee, Aisling Franciosi
Sceneggiatura: Paul Laverty
Musiche: George Fenton
Uscita italiana: 18 dicembre 2014

0 Comments

ADIEU AU LANGAGE - Lo sguardo oltre il visibile

19/12/2014

0 Comments

 
Picture
“La parola prima delle parole, nello smembramento del corpo in Antonin Artaud, è lacerazione ossessiva e inconsolabile rimpianto d’unità originaria. L’automatismo della parodia sincera nel teatro senza spettacolo della macchina attoriale è regressione festosa al deserto delle forme, al di qua e al di là del prima e dopo della parola, è disumano rifiuto d’esprimere alcunché; antiumanistico e antiartistico, è frantumazione del linguaggio e della Storia del catasto simbolico; cieco solletico dell’inorganico, cristallizzata materia refrattaria ai capricci della forgia, insensibilmente velata da una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento” (Carmelo Bene, Opere).

Tous ceux qui manquent d'imagination se réfugient dans la réalité.

"Godard deve morire nell’immagine affinché Godard rinasca al cinema". (1)

Addio al linguaggio per dare spazio all’immagine, un’immagine palpitante e sanguinante, che si offre allo sguardo inondata di luce e di colore, deformata, sovraesposta, irreale e surreale, ma allo stesso tempo reale e concreta.
Jean-Luc Godard torna nelle sale con Adieu au Langage, sua ultima opera, premio della giuria alla 67ª edizione del Festival del Cinema di Cannes. La sinossi del film, rilasciata dal regista poco prima della presentazione festivaliera, narra di una storia ordinaria: "L’idea è semplice, una donna sposata e un uomo libero si incontrano. Si amano, litigano; piovono i colpi. Un cane vaga tra città e campagna. Le stagioni passano. L'uomo e la donna si ritrovano. Il cane si ritrova tra loro. L'altro è nell'uno. L'uno è nell'altro. E sono tre persone. L'ex marito fa esplodere tutto. Un secondo film comincia. Uguale al primo. Eppure diverso. Dalla specie umana si passa alla metafora. Finirà con l'abbaiare di un cane. E con le urla di un neonato".
Le note di “Caccia alle streghe (La violenza)”, canto sessantottino, di Alfredo Bandelli, introducono lo spettatore all’ultima rivoluzione godardiana, una rivoluzione culturale che forse è la summa, o il punto d’arrivo, del suo percorso cinematografico-culturale. Il Maestro della Nouvelle Vague porta avanti il discorso sull’immagine già affrontato in Historie(s) du Cinéma (1989) e con i successivi Éloge de l'amour (2001) e Film Socialisme (2010), con i quali Adieu au Langage condivide in parte la tavolozza pittorica rubata a Emil Nolde e anche a opere come Mare al crepuscolo o Lake Lucerne, del 1930. Lo schermo subisce la sublimazione pittorica dell’immagine, una tela su cui acquerelli e tempere, ad ampie pennellate, conducono lo spettatore in un mondo surreale e visionario, in un altrove irreale. Jean-Luc Godard impreziosisce la sua opera con una maniacale cura estetica per l’immagine, adottando un registro visivo che è ipnosi per gli occhi e al quale ha abituato il suo più fedelissimo spettatore: “l’immagine cinematografica raccoglie l’essenziale delle altre arti, ne è l’erede, è quasi il modo d’impiego delle altre immagini che converte in potenza quel che era soltanto possibilità (2).”

1) Raymond Bellour, Fra le immagini, Bruno Mondadori, 2007.
2) Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, pag. 175.

Lo schermo è allo stesso tempo gioia e rivoluzione, come direbbero gli Area, una guerra tra le immagini che si sovrappongono, in lotta tra loro, creando nuovi spazi tra una sovrapposizione e l’altra, in cui l’uno non esiste mai; tra gli interspazi vivono molteplici forme e si annidano i fantasmi di Derrida. Sempre in quegli interspazi lo sguardo è libero dai limiti dell’immagine, va oltre, un oltre che supera i limiti della prigione visiva, muovendosi in una zona d’ombra illuminata dal visto e dal non visto, usando “la luce, come giovinezza dell’oscurità”. La sovrapposizione delle immagini libera lo sguardo verso nuove visioni, frammenti di vita, ma soprattutto verso una realtà mai uguale a se stessa, lasciando percepire ciò che vive oltre il confine ultimo del vedere.
Godard rompe i confini della visione filmica: lo sguardo appartiene a un solo punto di vista e per sua natura è mutevole da soggetto a soggetto, ma il regista, nella messa in scena, cerca di affrancarsi dal vincolo di parzialità dell’occhio, e di rendere l’infinita molteplicità del singolo istante, liberandosi dalla prigionia dell’immagine, perché, come il regista sottolinea in Adieu au Langage, “Kamera in russo vuol dire prigione”.
Un uomo, una donna, un cane e il mondo, corpi nudi che si muovono in ambienti ristretti, in inquadrature ancora più strette, a volte in close up che avvolgono l’intimità quotidiana della coppia di amanti, quasi a custodire e tutelare i loro segreti. La m.d.p. di Godard indugia su quei corpi nudi, li scruta da così vicino che sembra quasi volerne penetrare l’anima, alla ricerca di emozioni e sentimenti, oltre la pelle, vicino al sentire; ma gli amanti godardiani sono incapaci di comunicare, tra loro e con il resto del mondo.
Una fotografia caratterizzata da colori caldi con tonalità che virano sul seppia avvolge gli ambienti interni in cui si muovono i due; il punto di rottura è sullo sfondo, rigorosamente alle loro spalle, rappresentato da una televisione che trasmette Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. Hyde), di Rouben Mamoulian (1931), con Miriam Hopkins, che li osserva dallo schermo e Le nevi del Kilimangiaro (The Snows of Kilimanjaro), di Henry King (1952); i due amanti rivolgono il loro sguardo altrove, indifferenti alle immagini che scorrono, che conducono una loro vita, anch’esse in lotta con la realtà.

Picture
Godard, in Adieu Au Langage, mette in scena una guerra, un conflitto tra immagini; l’impossibilità di comunicare, la morte del linguaggio, non possono essere narrate che da immagini frammentarie. Il regista “ricorre alla scomposizione dell’immagine perché la mette in atto come tale nella continuità della rappresentazione, ferita in se stessa dall’impossibilità dei corpi a riunirsi” (3). Il contrasto tra il linguaggio narrativo, la parola e il linguaggio visivo è ormai inevitabile ed è arrivato a un punto di non ritorno, “tutti avranno bisogno di un traduttore, per capire le parole che ci escono dalla bocca”. Ma quando si è coppia, “dopo quel legame di sguardi”, non si è più in due, ci si fonde, il pensiero si annulla per scivolare l’uno nell’altra, si perde la libertà, anche nello sguardo.

3) Raymond Bellour, Fra le immagini, Bruno Mondadori, Milano - Torino, 2007.

L’incomunicabilità tra uomo e donna si perde nei gesti del quotidiano: l’una parla di eguaglianza e l’altro di cacca, anche se, come sottolinea l’uomo alla donna “è lì, nella merda, che siamo tutti uguali”. La m.d.p. regala allo spettatore una visione più ampia, da un campo stretto si passa a un campo largo, dagli interni soffocanti degli amanti l’immagine torna a respirare: attraverso lo sguardo puro e disinteressato di un cane, Roxy Mieville, si riesce a essere realmente liberi, e lo schermo è inondato da colori lisergici.
È un Godard afflitto e nichilista, perché “l’esperienza interiore è ormai proibita dalla società e dallo spettacolo”; preferisce rifugiarsi nello sguardo del suo cane, a suo modo innocente e disincantato, in quanto “non c’è nudità nella natura, un animale non è nudo perché è nudo”. Roxy corre, si sposta tra la gente, si incanta a guardare la vita frenetica della città, il passaggio dei treni, ma anche le acque placide del lago o gli alberi agitati dal vento. Il regista si affida alle parole di Riilke: “ciò che c’è fuori lo sappiamo solo dallo sguardo dell’animale”. Vagabondo, senza legami, senza limiti, l’animale sogna, si muove per città e campagne; il suo sguardo è lo sguardo dello spettatore, o forse è lo sguardo stesso del regista; osserva la natura incontaminata, il suo logos è messo a nudo, un linguaggio che è parola e non metafora. È un linguaggio in cui i verbi sono composti dagli elementi naturali, poveri e ricchi al contempo: il vento, l’acqua e la foresta, termine che il popolo Apache usava per indicare il mondo, il tutto.
Il film si contorce su se stesso, usando una trama narrativa corposa, attraverso una costruzione visiva frammentaria, ora alla ricerca di ciò che è Natura, ora di ciò che è Metafora, nell’amara constatazione dell’impoverimento del linguaggio e dell’impossibilità di comunicare. “Fa qualcosa perché io possa parlare” ripete, implorando, la donna all’uomo, senza mai ricevere risposta, quasi che le sue parole fossero mute; infatti rimangono inascoltate. È la solitudine, a suo modo impossibile, ma l’unica via per essere liberi, poiché “solo gli esseri liberi possono essere estranei gli uni agli altri”. La bellezza è lo splendore della verità, del vero, non della sua imitazione, secondo Platone e secondo Godard, fedele alla lezione di Bazin, “il cinema è realtà”. “Il mondo imbecille delle immagini preso come nel vischio in miriadi di retine non completerà mai l’immagine che ci si è potuti fare di lui. La poesia dunque che può sprigionarsi da tutto questo non è che una poesia eventuale, la poesia di ciò che potrebbe essere, e non è dal cinema che bisogna attendersi” (4).

4) Antonin Artaud, La vecchia precoce del cinema, in A propos du cinéma. Scritti di cinema, Firenze, Liberoscambio, 1981, p 59.

Il regista francese con questa sua opera ha dato prova di essere in grado di creare un nuovo modello di cinema, attraverso la sperimentazione dell’immagine filmica, avvalendosi di un linguaggio cinematografico contemporaneo, grazie all’uso di un 3D del tutto innovativo, inscenando una vertigine visiva che scivola tra corpi deformati e immagini che stregano gli occhi con giochi visivi di sovrapposizione. Godard da sempre realizza i suoi film con una fluidità estrema, anche quando la materia filmica risulta essere più oscura, ma il suo continuo bisogno di innovazione ha attraversato il cinema rinnovandolo, e la sua personalità si avverte in ogni singolo fotogramma.
È così che la sua più recente lirica, Adieu au Langage, si offre agli occhi dello spettatore, attraverso stratificazioni visive in cui l'immagine è violata, deflagrata, appare spessa e corposa, si moltiplica in sovrimpressioni, è se stessa e il suo doppio, una e diversa allo stesso tempo. L'occhio subisce il fascino di un linguaggio estetico e narrativo impreziosito da sperimentazioni, sospensioni del tempo e silenzi, tutto è presente e assente. Immagini destrutturate e deformate che si protendono verso lo spettatore, corpi che si lasciano accarezzare nella loro intimità.
Un flusso di immagini che è puro lirismo, un canto d'amore che strega l'occhio con un incantesimo visivo che commuove e intenerisce. Godard regala poesia, si lascia amare, come un amante anelato oltre il tempo e lo spazio, con una passione che non smette mai di pulsare. 

"Non dipingere né quel che si vede, poiché non si vede nulla, né quel che non si vede, perché si deve dipingere solo quel che si vede, ma dipingere che non si vede..." (Marcel Proust su Claude Monet in Jean Santeuil).

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Adieu au Langage
Anno: 2014
Regia: Jean-Luc Godard
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Fotografia: Fabrice Aragno
Musiche: Phill Zagajewski
Durata: 70’
Uscita in Italia: 20 novembre 2014 
Interpreti principali: Héloise Godet, Kamel Abdeli, Richard Chevallier, Zoé Bruneau. 


0 Comments

LO HOBBIT - La battaglia delle cinque armate

18/12/2014

0 Comments

 
Picture
Siamo giunti al capitolo conclusivo della trilogia incentrata su Lo Hobbit tratta dall’omonimo romanzo di J. R. R. Tolkien, prima incursione letteraria del celebre scrittore inglese nell’immaginaria Terra di Mezzo, inizialmente pensata come una fiaba per i suoi bambini. 
A portarla sul grande schermo non poteva che essere Peter Jackson, anche se in un primo momento sembrava che dovesse dirigerla Guillermo del Toro, coinvolto poi nella stesura dello script insieme a Philippa Boyens, Fran Walsh e lo stesso regista neozelandese. Del resto chi avrebbe potuto cimentarsi in questa rischiosissima impresa se non colui che aveva incantato le platee internazionali ai tempi della sua ciclopica impresa di dar vita in maniera realistica e credibile al mondo della Terra di Mezzo descritto da Tolkien ne Il Signore degli Anelli?
La narrazione riprende esattamente laddove si era interrotta ne Lo Hobbit - La desolazione di Smaug, con il drago - minaccioso e infuriato più che mai - in volo verso Pontelagolungo per seminare fuoco, distruzione e morte. Sul suo cammino trova il coraggioso Bard che alla fine riesce a penetrare l’unico punto vulnerabile della sua durissima scorza con una letale freccia nera. Nel frattempo Thorin, riappropriatosi degli enormi tesori custoditi all’interno della Montagna Solitaria, si mostra sempre più avido e insensibile alle richieste dello stesso Bard, giunto alle soglie di Erebor per reclamare una parte delle ricchezze che permettano alla sua gente di ricostruire ciò che Smaug ha incendiato e devastato. Ben presto però a reclamare una parte del tesoro giungono anche gli elfi di Thranduil e i nani guidati da Dain, cugino di Thorin. Pronti a darsi battaglia gli uni contro gli altri dovranno invece vedersela con un’altra armata, la più oscura e temibile di tutte, guidata dallo spietato orco Azog, che minaccia di travolgere e annientare tutti gli abitanti della Terra di Mezzo.
Spiace doverlo ammettere, ma in questa sorta di esalogia tratta dai romanzi di Tolkien, realizzata da Peter Jackson nell’arco di quasi tre lustri, Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate è l’episodio che convince meno, non riuscendo ad aggiungere alcunché all’universo della Terra di Mezzo che abbiamo imparato a conoscere e amare in questi anni. A latitare stavolta è proprio quel senso di meraviglia sapientemente evocato e suscitato dal cineasta neozelandese nelle sue precedenti incursioni nel mondo immaginifico creato dallo scrittore inglese quasi ottant’anni fa. 
Ancora una volta Jackson ripropone lo stesso, identico, schema applicato a Il Signore degli Anelli, incentrando l’ultimo atto dello Hobbit su una colossale battaglia che dovrebbe competere in termini di epicità con il leggendario assedio alle porte di Minas Tirith messo in scena in modo magistrale e indimenticabile nel film Il ritorno del Re, ultimo capitolo della precedente trilogia. Purtroppo la lunga ed estenuante battaglia non raggiunge minimamente il pathos e la forza visiva che rendevano epico e memorabile il terzo e ultimo capitolo della passata trilogia, risultando tutt'al più uno sbiadito e logoro déjà vu.
Jackson fa i salti mortali per cercare di non sfigurare al cospetto della sua precedente creatura filmica, ma alla fine non vi riesce; e in fondo, come avrebbe potuto? Se accostiamo le due opere letterarie, che costituiscono l’ossatura delle rispettive saghe cinematografiche, ci accorgiamo subito che Lo Hobbit non poteva gareggiare sullo stesso campo di battaglia de Il Signore degli Anelli, romanzo fantasy di ben altra caratura e voluminosità. Alla luce di tutto ciò si conferma infine quanto mai forzata e dettata esclusivamente da logiche commerciali la scelta di suddividere Lo Hobbit, un romanzo di poco più di trecento pagine, in tre capitoli quando ne sarebbero bastati due (come del resto era stato stabilito in un primo momento).
Chi ha letto il romanzo forse ricorderà che i momenti più riusciti e importanti sono riconducibili all’arrivo dei nani a casa Baggins, all’incredibile gara a suon d’indovinelli tra Gollum e Bilbo, con successivo ritrovamento dell’Unico Anello da parte di quest’ultimo - presenti nel primo film - e a tutta la parte incentrata su Smaug che costituisce il cuore pulsante del secondo episodio, a conti fatti il migliore dei tre. Era dunque arduo, per non dire quasi impossibile, sfornare un ultimo capitolo più spettacolare e coinvolgente dei precedenti.
Si salvano alcune sequenze, come l’incipit in medias res che ci catapulta subito nel cuore dell’azione, con il disperato e impari scontro tra il crudele e terrificante Smaug e Bard, uno dei migliori personaggi della nuova trilogia, ben interpretato da Luke Evans che avrebbe meritato un’uscita di scena meno affrettata (e chissà che la sua parte non venga ampliata nella consueta e immancabile versione estesa del film). Da apprezzare anche la fedeltà del regista alle pagine del libro di Tolkien che descrivono la sorte toccata ad alcuni dei personaggi principali, mentre continua a stonare la presenza dell’elfa Tauriel, impersonata da una Evangeline Lilly non proprio a suo agio nella parte, mai apparsa in alcuna opera del romanziere inglese e creata appositamente in fase di sceneggiatura per dar vita a una forzata sottotrama romantica e implementare le quote rosa. Un po’ sacrificata invece la parte di Bilbo, ben interpretato dal lanciatissimo Martin Freeman, a vantaggio di Thorin, che divenuto Re sotto la Montagna appare sempre più inquieto e in preda a una sorta di maleficio causato dalla bramosia di ricchezze.
Nell’epilogo Peter Jackson si preoccupa principalmente di gettare un ponte con gli accadimenti successivi, già portati sullo schermo nella trilogia dell’Anello, per cercare di creare un legame indissolubile tra le due saghe, in un’operazione che ricorda vagamente, seppur in contesti e scenari diversi, quanto fatto da George Lucas nella seconda trilogia di Star Wars, che come nel caso dello Hobbit costituisce a tutti gli effetti un prequel dei primi tre film. In entrambi i casi si può affermare che il ritorno sul luogo del delitto non è stato certo indolore, anche se ha fruttato lauti incassi al botteghino.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Hobbit: The Battle of the Five Armies
Anno: 2014
Uscita in Italia: 17 dicembre 2014
Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura: Guillermo del Toro, Philippa Boyens, Fran Walsh e Peter Jackson
Fotografia: Andrew Lesnie
Musiche: Howard Shore
Durata: 144'
Attori principali: Martin Freeman, Ian McKellen, Richard Armitage, Evangeline Lilly, Luke Evans, Benedict Cumberbatch

0 Comments

GONE GIRL (L'amore bugiardo) - Anatomia di un matrimonio

18/12/2014

0 Comments

 
Picture
Amy Elliott-Dunne (Rosamund Pike) è una donna famosa, bellissima e ammirata. Nick (Ben Affleck) è un professore universitario, così affascinante da avere conquistato in una sera la reginetta della festa, per portarla naturalmente all’altare in poco tempo. È quasi una favola, questo ritratto della coppia perfetta: lei con i capelli perfettamente ondulati e l’outfit giusto in tutte le occasioni; lui con quella faccia tronfia e compiaciuta, nell’amorevole ombra della moglie.
Lo schema si rompe quando lei scompare, e il caso richiama l’avida attenzione di tutti i media d’America. Cosa è accaduto alla sposina perfetta, bionda, bianca, brillante e benestante? Chi è coinvolto in questo giallo? I personaggi sospetti sbucano dalle linee grigie del passato, affollando il racconto, e l’intreccio si fa sempre più contorto, perverso, addirittura inaccettabile. Impossibile e ingiusto riassumere una storia come questa senza scivolare in qualche rivelazione di troppo. E se nel film ci si chiede cosa sia successo alla ragazza, la domanda più intrigante su cui si interroga Gone Girl sembra essere: che ne è stato dell’archetipo della moglie?
David Fincher ci ha abituati a cambiare registro continuamente, a portare il suo cinema sempre avanti, intercettando lo spesso indefinibile comune sentire. In termini puramente cinematografici, i suoi film hanno un’impronta ben chiara, si fanno riconoscere. In termini di contenuti, le sue opere più importanti si sono imposte nell’immaginario filmico, culturale e anche collettivo per aver saputo cogliere le impercettibili sfumature della società. È accaduto con Seven, vero e proprio capostipite del cinema di genere del XXI° secolo, con Fight Club e poi con The Social Network.
Gone Girl arriva in un momento particolare. Siamo invasi da casi di cronaca nera che ci ricordano, più o meno da lontano, il plot del film. La luce mediatica astutamente ci nutre, spettatori e vittime dell’ossessione per l’eterno binomio amore/morte. Un po’ come accaduto a suo tempo con Attrazione fatale, Gone Girl si interroga sulla disfunzione dei rapporti di coppia, declinando la storia d’amore (?) fino a disturbanti estremi. È come una partita a scacchi con due giocatori e pedine, forse inconsapevoli del proprio ruolo.
Il giocatore Rosamunde Pike carica su di sé l’intero film. Eccezionalmente bella e glaciale quanto basta per risultare inafferrabile, sublime manipolatrice, è la carta vincente di Gone Girl. Certo, è difficile confonderla con i personaggi da lei interpretati in precedenza: nella sua Amy non c’è nulla della Bond Girl da tappezzeria o della Jane Bennett tutta romanticherie e sospiri in Orgoglio e pregiudizio. Amy Dunne è la vedova nera, e, d’altra parte, non ci si può aspettare nient’altro da uno come David Fincher, che, da Alien 3 a Millennium ci ha sempre presentato un prototipo di donna forte, determinata, per nulla incline a farsi sottomettere. Amy Dunne è quasi una regina dell’oscurità, una principessa Disney che, punta dall’arcolaio, si risveglia d’un tratto solo per vendicarsi. La Pike è grandiosa, e poco importa se la sua controparte, l’eterno monocorde Ben Affleck, afferri la corda dell’ambiguità solo in poche, rare scene. Il film non sembra essere mai stato pensato per un uomo; è tagliato, con straordinaria e inquietante precisione chirurgica, per un’attrice, e Rosamunde Pike fagocita letteralmente dialoghi, immagini, parole, ambienti e suggestioni. Tutto ciò con cui si relaziona.
Gone Girl, o l’anatomia di un matrimonio. Fincher gioca con lo spettatore, ma più di tutto lo inganna, rovesciando continuamente le prospettive, barando, depistando e come per magia mantenendo il tutto incredibilmente coerente, lineare, perfettamente logico.
L’intrigo vero è legato all’idea di “gone” così ambiguamente richiamata nel titolo originale (con buona pace dei formidabili distributori italiani). Amy la scomparsa, la fotografia sulla busta del latte, il nome attorno al quale si consuma un’indagine impossibile, l’evocazione di ciò che, forse, nemmeno esiste. Lei è tutto, ovunque, senza esserci. Gone. Persa, andata, sparita. Ma cosa, veramente? Cosa è da considerarsi perso?
Gone Girl è un film in cui gli attori sembrano portare sullo schermo personaggi dalla doppia faccia, cioè dalla doppia identità, quella assegnata e quella costruita, o quella reale, quella inconscia, che nessuno - in superficie - pare voler accettare. La società, la famiglia, i media, i partner, ci affibbiano un’immagine mai rispondente al vero. E anche Amy e Nick si mostrano per come li vogliamo, per come ci aspettiamo che siano, salvo poi rivelare la propria natura e deluderci, spiazzarci, addirittura tradirci. Amy e Nick non tradiscono però se stessi, o ciò che rappresentano rispettivamente l’uno per l’altra. E questo è il nodo del film e il tema principale di un intrigo umano più che narrativo, quasi senza soluzione.
Nella relazione squilibrata tra la mantide religiosa e il traditore seriale, i comportamenti sconvolgenti dei due definiscono l’esistenza stessa della coppia. È la patologia del rapporto amoroso violento in sé, che richiede la tensione psicologica, lo stress mentale dell’abbandono, il terrore dell’altro e l’attrazione fisica e brutale per sopravvivere. Il re e la regina di Fantasilandia sono solo mostri che albergano nel castello, virtù e dannazione del matrimonio moderno.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Gone Girl
Regia: David Fincher
Attori: Ben Affleck, Rosamunde Pike, Neil Patrick Harris, Tyler Perry, Kim Dickens
Sceneggiatura: Gillian Flynn, dal suo romanzo
Durata: 149'
Anno: 2014
Montaggio: Kirk Baxter, Angus Wall
Colonna sonora: Trent Reznor, Atticus Ross
Uscita italiana: 18 dicembre 2014

0 Comments

NEVE - Crocevia di una coppia

15/12/2014

0 Comments

 
Picture
A distanza di quattro anni dal bellissimo Gorbaciof, con Toni Servillo, Stefano Incerti torna nelle sale italiane con Neve, film presentato al Courmayeur Noir Festival 2013; un thriller atipico e marginale, che bada poco all'azione e punta tutto sui silenzi e le suggestive atmosfere che traspaiono dalle bianchissime montagne abruzzesi, circoscrivendo lo spazio entro cui si muovono i personaggi, in viaggio verso una meta che si delinea gradualmente nel corso del film. 
Un uomo, Donato, percorre una strada solitaria in direzione ignota, fin quando, fermatosi sul bordo di una strada, vede una donna di colore, Nora, scalciata fuori da una macchina che riparte in fretta, lasciando la ragazza sul ciglio della via. Tra i due, superato l'imbarazzo iniziale, si instaura un rapporto sempre più profondo che pur avviandosi con lentezza lascia scoprire la realtà intima dei personaggi, e il senso delle loro azioni. Donato, infermiere in un penitenziario, ricostruisce le tappe per arrivare a ottenere il denaro proveniente da una rapina, mentre Nora tenta di sfuggire alla violenza del compagno, ma è costantemente attratta dall'uomo che nel frattempo è in cerca di lei. 
In Neve, tutto è ripreso con estrema delicatezza e discrezione, alla quale si aggiunge un forte senso di oppressione e solitudine insito nella realtà circostante, che si riflette negli sguardi fugaci tra l'uomo e la ragazza. Quelle che all'inizio sembrano essere due storie parallele, si mostrano intrecciate fra loro quando scopriamo che il compagno di lei, malavitoso napoletano, è in cerca anch'egli dei soldi della rapina avvenuta tempo prima. Ma Neve procede oltre la ricerca materiale di un bene, proseguendo verso lo smascheramento dei personaggi, portando alla luce con un procedimento ragionato e graduale tutte le lacerazioni e le esperienze del passato, le quali determinano e incidono sul modo con cui essi affrontano gli ostacoli della vita. 
È evidente come il regista dedichi particolare importanza ai paesaggi circostanti, rendendoli al tempo stesso luoghi da scoprire ed esplorare ma anche inospitali e pericolosi. L'operazione più significante è comunque quella che ruota intorno alla caratterizzazione dei personaggi, un lavoro mirato con l'obiettivo di raggiungere il momento in cui essi si rivelano per quello che sono veramente. 
Donato è un uomo qualunque, proveniente da un realtà difficile e marginale (in linea con il cinema di Incerti); ha l'aria di essere un cattivo, compie delle scelte discutibili che non permettono una facile identificazione tra lui e lo spettatore, fin quando non scopriamo il suo terribile segreto; ma anche in quel caso tutto lo spessore del personaggio risiede proprio in questa sua anima danneggiata. A prova di ciò, abbiamo la splendida interpretazione di Roberto De Francesco (attore che si forma con Toni Servillo, lavorando poi in seguito con Mario Martone), il quale nei momenti più significativi del film si cala nella parte con un naturalezza tipica del grande attore di teatro. Nora (Esther Elisha) è invece una dark lady poco convincente, intrappolata in un malsano rapporto di possessione/sfruttamento con il suo compagno; nonostante questo riesce a trovare un modo per riscattarsi, ma è sempre combattuta, e le scelte che compie risultano indefinite. 
Sull'autore napoletano, Ettore Scola ha detto: “È il regista dell'attesa, con lui la tensione cresce in un gesto, in uno sguardo, in un segno”. Forse proprio questa diffusa attesa che pervade Neve è un limite al film stesso, in particolar modo nel finale aperto con cui si conclude. Ma forse l'autore, volutamente o meno, ci mette di fronte a una scelta, lasciando allo spettatore il compito di credere o meno a ciò che vede.

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Neve
Anno: 2013
Durata: 90'
Regia: Stefano Incerti
Sceneggiatura: Patrick Fogli, Stefano Incerti.
Fotografia: Daria D'Antonio, Pasquale Mari.
Musiche: Francesco Galano.
Attori principali: Roberto De Francesco, Esther Elisha, Massimiliano Gallo.

0 Comments

TEMPI MODERNI - Il cinema al lavoro

10/12/2014

0 Comments

 
Immagine
Tempi moderni è il film di Charlie Chaplin probabilmente più noto. Quello che chiunque riconosce al volo per la celeberrima sequenza della catena di montaggio, per intenderci, ma anche la quintessenza purissima del cinema del geniale attore e regista britannico. Al suo interno coesistono infatti i veri pilastri portanti dell’arte del Monello: la gag fisica, la commozione e l’impegno sociale, tre aspetti armonizzati alla perfezione con serissima leggerezza, com’era d’abitudine per il cinema chapliniano. Un cinema sempre al lavoro, nel senso più alto, nobile e sfaccettato del termine, che pensa divertendo, che traveste in opera buffa ma non troppo le grandi tematiche del Novecento, preferendo tuttavia sempre la metafora alla farsa.
La Cineteca di Bologna, che su Chaplin è alle prese con un lavoro di recupero di portata decennale, ha restaurato il capolavoro del 1936 che torna in sala a partire dall’8 Dicembre, impreziosito da una nuova partitura musicale realizzata da Chaplin stesso. Un vero evento, visto che fino a questo momento la famiglia non aveva dato il via libera per la sovrapposizione di tale incisione sul vecchio tema. Al di là di tale nuova veste sonora, però, i motivi per andare a vedere in sala Tempi moderni sono innumerevoli, e non solo per i cinefili di bocca buona che torneranno a deliziarsi con una pietra miliare della settima arte di tutti i tempi.
Quello di Chaplin è infatti un film che parla proprio di tempo e di modernità come meglio non si potrebbe: due concetti universali e validi per tutte le epoche in quanto inarrestabili nel loro flusso continuo, che sono plasticamente presenti nel titolo e che l’opera affronta direttamente e da svariate prospettive. Perché sono due idee assolutamente limitrofe, lo scorrere del tempo – e la sua diversa percezione nel presente rispetto al passato – e l’approssimarsi della modernità così come siamo abituati a conoscerla e a pensarla. Un mondo che scopre una nuova idea di tempo è un mondo che corre più avanti rispetto alla sua attuale condizione, che svela un volto inedito di se stesso. E quale mezzo meglio del cinema, col suo dinamismo sempre allerta, per immortalare tale passaggio?
È il tempo, in particolare, a reclamare un suo statuto e una sua centralità, ed è il nodo cui tutto viene ricondotto. La celebre gag della fabbrica non esisterebbe senza un lavoro consapevole sull’accelerazione delle immagini, che costringe tanto l’operaio alla subalternità totale rispetto alla macchina e agli obblighi d’efficienza che essa impone quanto il cinema ad adeguarsi agli sviluppi della realtà. Ma anche il nuovo, avveniristico aggeggio con cui il padrone nutre freneticamente Charlot, congegnato per non interrompere il flusso di lavoro neanche durante la pausa pranzo, va in questa direzione. La velocità è adesso uno strumento di controllo, un terreno su cui esercitare una dittatura del capitale fino a questo momento inattuabile, per lo meno non in questi termini, che permea la volontà dei sottoposti oltre ogni limite: Charlot, finito dentro gli ingranaggi della macchina, continua ad avvitare, e anche se pare risucchiato dentro un fiabesco carillon la realtà dei fatti è un’altra, ben più fosca. Mentre il cibo, dal canto suo, è sempre stato per Chaplin un territorio comico oltre che un elemento semplice ed efficace per parlare di umanità e condizione sociale (si pensi a La febbre dell’oro).
Tempi moderni, come si diceva, è nondimeno un film che parla pure di modernità (sarà una tautologia, ma è bene ribadirlo), e lo fa (anche) perché sa di cogliere alcuni passaggi fondamentali per la storia del cinema, ai quali non può dunque sottrarsi in alcun modo. Il sonoro era già stato sdoganato (Il cantante del jazz, 1927), ma Chaplin appartiene a un’altra epoca, per cui si limita a sonorizzare il suo film e a parlare in una singola occasione e con un goffo grammelot linguistico. Il futuro passa anche da qui, da questi snodi all’apparenza irrilevanti ma che invece sono indispensabili, perché catturano transazioni storiche nel loro divenire, ce le fanno scorgere non mostrandocene il punto d’arrivo ma rivelandocele direttamente mentre avvengono, in uno stato di sospesa problematicità. 
Dopo Tempi moderni, a proposti di passaggi di consegne, Chaplin dirà addio al suo Charlot, aprendosi al futuro, guardando a un domani che va al di là della propaganda filocomunista che all’epoca il regista veniva accusato di veicolare col suo film, soprattutto nella Germania nazista, e che si rivolge piuttosto all’avvenire dell’umanità tutta (analogamente alla conclusione de Il grande dittatore, di quattro anni successivo, e al suo filantropismo senza frontiere). Il finale di Tempi moderni, parlando di addii, è emblematico, lucido, perfetto: il Vagabondo deve salutare per sempre gli spettatori, perché con la fine del muto per lui non c’è più posto. S’incammina allora verso l’orizzonte mano nella mano con la Monella sua amata, illuminando il mondo di un ottimismo che si irradia come un sole abbagliante, nonostante tutto. Nel suo incantevole splendore poetico, un pezzo di storia del cinema che non può non apparirci il testamento ante litteram di un genio. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema
   

Scheda tecnica

Anno: 1936
Regia: Charlie Chaplin
Sceneggiatura: Charlie Chaplin
Attori: Emma Stone, Colin Firth, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater, Jacki Weaver, Eileen Atkins
Fotografia: Roland Totheroh, Ira Morgan
Montaggio: Charlie Chaplin
Durata: 87’
Uscita italiana: 08 dicembre 2014

0 Comments

MAGIC IN THE MOONLIGHT - Disillusioni alleniane

8/12/2014

0 Comments

 
Picture
«Lui ha un classico disturbo nevrotico della personalità: brillanti genitori che non andavano d’accordo, ossessionato dalla mortalità, non crede in niente, trova che la vita non abbia alcun significato. Insomma è un perfetto depresso che sublima ogni cosa nella sua arte. Un grande artista che ha scelto di fare l’illusionista: scelta interessante se quello che uno vuole è fuggire dalla realtà, ma come Freud lui non si farà mai e poi mai sedurre da pensieri infantili solo perché più confortanti. Davvero un uomo infelice. Mi piace molto».
Questa è la descrizione con cui uno dei personaggi descrive Stanley Crawford (Colin Firth), illustre illusionista che viene ingaggiato e invitato da un suo vecchio amico a scoprire e smascherare Sophie (Emma Stone), possibile medium che, per mezzo della sua bellezza, riesce a sovrastare tutto e tutti. Nascondendosi inizialmente dietro un velo di sarcasmo, Stanley dichiara sin dal primo momento e senza rancore ciò che pensa della ragazza e della sua attività, ostinato a smascherarla. 
Il Gran Tour mondiale del regista, attore e sceneggiatore statunitense continua, portandolo questa volta fra la Costa Azzurra e la Provenza, con una cornice rurale situata alla fine degli anni ’20, presentando la bella società ancora spensierata e pronta a godersi la vita al meglio con questioni di cuore o di arguto pettegolezzo. Tornando a parlare ancora una volta di sé per mezzo del personaggio interpretato da Colin Firth, Woody Allen realizza un film dedicato al bisogno umano di illusioni, includendo nel novero di queste anche l'amore. 
Il tema dell’illusionismo ha sempre affascinato Allen, tanto che lo ha riproposto in svariati modi, a partire da La rosa purpurea del Cairo, senza dimenticare però che l’unico superpotere di cui si abbia una reale certezza brandisce una falce. Verità e finzione, leggende e trucchi si amalgamano in difesa delle illusioni. Un omaggio a una commedia di altri tempi, che il suo istrionico autore colora della misantropia che da sempre lo rappresenta. Chi infatti conosce Woody Allen può ben notare che la sua genialità consiste ormai non più nel contenuto, che si basa sempre sulle tematiche a lui più care (famiglia, psicanalisi, anti-eroismo, amore e morte), le quali anche se ripetitive vengono trattate in maniera acuta e singolare non risultando mai vecchie e superate, quanto più nella loro forma, nel modo in cui vengono proposte allo spettatore visivamente e concettualmente. 
Dunque, con la sua fotografia bagnata di sole, musiche jazz, stile registico inconfondibile, in Magic in the Moonlight non trova davvero posto nulla di nuovo: la famiglia c’è, nel desiderio di poterne costruire una propria seguendo il raziocinio della situazione, ma anche nel legame con la zia saldo e ferreo più che con la madre; la psicanalisi anche, citata immancabilmente dalla bella Sophie; Stanley Crawford, poi, non è esattamente il ritratto dell’eroe classico, ma un uomo spinto dalle sue radicate convinzioni, condannato a una vita di pessimismo e misantropia, impiegata a idolatrare Nietzsche e Hobbes limitando le interazioni con il resto del mondo, e con la mancata rassegnazione della mediocrità che lo circonda; convinto che l’amore a prima vista, come la magia, non esiste, Stanley dovrà presto ricredersi arrendendosi davanti alle irrazionali ragioni dei sentimenti che muovono le nostre azioni. La morte, infine, si manifesta prima come una condizione mentale del protagonista, poi come un'essenza che fa sentire la propria presenza grazie al personaggio di Emma Stone, che professa l’esistenza di un mondo ultraterreno, salvo però essere stroncata dalla scoperta della inganno e dall’accettazione della realtà. 
Questa ennesima passeggiata in campagna - tra Scoop e Una commedia sexy in una notte di mezza estate - voleva evidentemente restare leggera, vagamente romantica, come l'ambientazione francese, rivierasca e provenzale, richiedeva. Temi belli e dipinti con gran mano, ma quel che non aiuta sempre può essere il ritmo mal cadenzato. Sceneggiatura e dialoghi ben scritti, recitati da attori con talento da vendere: oltre Colin Firth ed Emma Stone ci sono Jacki Weaver, Marcia Gay Harden, Eileen Atkins. 
Superficiale? Sicuramente. In fondo questa “leggerezza ricercata” contraddice lo stile verboso e analitico del solito furbetto dietro la macchina da presa. Tuttavia, per quanto possa deludere le altissime aspettative, un film di Woody Allen è sempre un prodotto valido, che ha qualcosa da dire e da insegnare. Non sono i “bei vecchi tempi”, ma è come ritrovare un vecchio amico. Allen lo sa e sfrutta la situazione, sapendo che ormai può essere rassicurante più che folgorante. E questo fa rabbia.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2014
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Attori: Emma Stone, Colin Firth, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater, Jacki Weaver, Eileen Atkins
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Alisa Lepselter
Durata: 98'
Uscita italiana: 04 dicembre 2014

0 Comments

THE ROVER - Le rovine dell'umanità

4/12/2014

0 Comments

 
Picture
Quattro anni dopo l’ottimo esordio con Animal Kingdom, pluripremiato crime-drama pervaso da un realismo secco e brutale, David Michôd torna alla regia con The Rover. Scritto insieme all’attore Joel Edgerton ( tra i protagonisti della pellicola precedente), il film è ambientato dieci anni dopo un ipotetico collasso economico in un’Australia vittima della desertificazione sociale; un racconto post apocalittico che ricorda Interceptor di George Miller nelle atmosfere, ma se ne discosta nell’estetica della spettacolarizzazione della violenza, preferendo uno sguardo più intimo rivolto all’analisi introspettiva dei personaggi. Il lavoro di Michôd diventa così un road-movie esistenziale sviluppato attraverso una natura ostile e selvaggia, che fa da sfondo a uno sparuto gruppo di personaggi che si trascinano, indifferenti, verso la fine del mondo.
Il “vagabondo” del titolo è Guy Pearce, solitario e silenzioso, in un paesaggio vuoto come l’anima di chi lo attraversa, dall’incedere lento, incurante di quel poco di mondo accanto a lui; fino a che tre criminali, in fuga da un colpo finito male, gli rubano l’automobile. È l’inizio di una caccia in cui viene trascinato anche Rey (Robert Pattinson), fratello di uno dei criminali, dato per morto e lasciato indietro.
La trama è semplice, lineare. Il ritmo, pacato, rifiuta l’eccesso estetico, e alle sparatorie o agli inseguimenti frenetici preferisce personaggi complessi, indagati da una macchina da presa lenta, torbida, spesso ferma sui volti o sullo sguardo dei protagonisti. Una narrazione alleggerita  favorisce l’intensità espressiva e focalizza lo sguardo su atteggiamenti indecifrabili, testimonianze di una realtà allo sbando. Un protagonista senza nome e le terre selvagge delineano un’atmosfera da western crepuscolare, suggestiva e violenta. Buone le performance degli attori principali: Guy Pearce intenso, inquietante, un antieroe perseguitato da un profondo senso di colpa e bloccato in un limbo in attesa di catarsi; Pattinson in veste inedita, lontano da ruoli glamour, alle prese con un personaggio complesso, spalla di un rapporto disfunzionale che cresce durante tutto il film.
The Rover sfrutta la cornice post apocalittica per una profonda riflessione sulla natura umana, scegliendo una comunicazione per immagini, senza tante didascalie, dove l’intensità è data dai personaggi, divenuti abitanti primordiali di un outback deserto e violento, specchio desolato di un sistema socio-economico imploso su se stesso.
Michôd abbandona il degrado urbano di Melbourne per catapultarci nel polveroso panorama australiano, terra ricca di materie prime e perciò vittima di una moderna corsa all’oro in un mondo dove lo sviluppo tecnologico e industriale  sembrano  essere senza futuro. La realtà diventa lo spunto per un’ estremizzazione: un far west senza futuro. Il risultato è un road movie dall’impronta stilistica marcata, nonché un appello a un‘umanità forse non ancora sepolta.

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica

Titolo originale : The Rover 
Anno : 2014
Regia : David Michôd
Soggetto : Joel Edgerton, David Michôd
Fotografia : Natasha Braier
Montaggio : Peter Sciberras
Durata : 102’
Interpreti principali : Guy Pearce, Robert Pattinson, Scott McNairy, Gillian Jones.

0 Comments
    Immagine
    Immagine
    Immagine
    ULTIME RECENSIONI PUBBLICATE

    Roverdatter
    Holy Boom
    Demain et tous les autres jours
    Nos Batailles
    The Guilty
    ​Les Gardiennes
    ​
    LE NOSTRE
     PAGINE UFFICIALI
    Immagine
    Immagine


    ​ARCHIVIO RECENSIONI FILM AL CINEMA

    Aprile 2019
    Aprile 2017
    Marzo 2017
    Gennaio 2017
    Dicembre 2016
    Novembre 2016
    Settembre 2016
    Giugno 2016
    Maggio 2016
    Aprile 2016
    Marzo 2016
    Febbraio 2016
    Gennaio 2016
    Dicembre 2015
    Novembre 2015
    Ottobre 2015
    Settembre 2015
    Agosto 2015
    Luglio 2015
    Giugno 2015
    Maggio 2015
    Aprile 2015
    Marzo 2015
    Febbraio 2015
    Gennaio 2015
    Dicembre 2014
    Novembre 2014
    Ottobre 2014
    Settembre 2014
    Agosto 2014
    Luglio 2014
    Giugno 2014
    Maggio 2014
    Aprile 2014
    Marzo 2014
    Febbraio 2014
    Gennaio 2014
    Dicembre 2013
    Novembre 2013
    Ottobre 2013
    Settembre 2013
    Agosto 2013
    Luglio 2013
    Giugno 2013
    Maggio 2013
    Aprile 2013

    Feed RSS

Powered by Create your own unique website with customizable templates.