ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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TIMBUKTU - Ritorno alla leggenda

27/2/2015

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Terra mitica dal passato glorioso, città delle sabbie, miraggio gentile e dorato alla stregua di un El Dorado africano: si sente ancora l’eco di Timbuktu, leggenda che affonda le sue radici nel sogno di un altro mondo. Il film di Abderrahmane Sissako, premiato con sette César e candidato all'Oscar, racconta l’insediamento nella porta del Sahara di un gruppo di jihadisti arrivati dalla Libia, e la non-vita di persone costrette a sopportare privazioni di ogni tipo. Le donne sono obbligate a portare calze e guanti, non è permesso fumare, non è permessa la musica, non è permesso il gioco del calcio. In sostanza non si può fare nulla; ogni vera o presunta trasgressione è immediatamente punita con la prigionia, le frustrate e spesso anche la morte.
Cinema morale prima di tutto, che in giorni di stress mediatico e terrorismi d'informazione ha il grande pregio di saper tornare semplicemente - essenzialmente - all'uomo. 
Contro ogni facile retorica, contro ogni spettacolarizzazione perversa dell'immagine, contro ogni fascinazione-ostentazione ideologica della violenza, Timbuktu si apre sulla corsa di una gazzella e torna al momento che precede lo sparo. In quella sospensione, in quella rottura, in quel medesimo frangente Sissako intercetta il momento stesso dell'irruzione, dell'insediamento dell'Altro all'interno di un mondo che conserva il sapore del mito. 
La morte interrompe bruscamente la leggenda. Eppure il gesto filmico di Sissako, dove estetica e morale sono la stessa cosa, è sempre quello del passo indietro, del ritorno al cinema e al suo respiro, allo sguardo languido del singolo che precede oscenità e nefandezze di ogni tipo. 
È sempre più interessante l'istante sacro che anticipa la detonazione, perché sa bloccare il tempo, indagare le pulsioni, identificare traiettorie e discrepanze del reale. Il film vive di questi momenti bloccati nel tempo, in grado di scovare bellezze ancestrali perfino tra le macerie e i detriti dell'umanità, anche grazie a simbolismi di ottimale efficacia (la partita senza pallone), squarci fotografici di notevole qualità e personaggi che sanno esprimere una straordinaria forza anche senza bisogno di parole (la moglie del pastore). 
Timbuktu è un esempio prezioso e rigorosissimo di un cinema volto a intercettare l'applicazione continua, pedissequa, terribile del Mito, che si reitera sempre, come una maledizione. E quando poi riflette sull'elaborazione dell'immagine di un video jihadista, innesca immediatamente i meccanismi della finzione e dei ruoli, in un training che riporta tutto, inevitabilmente, alla simulazione, alla recitazione, all'attore 2.0. 
Ancora una volta, immagini, grazia e condanna del mondo.

Samuele Sestieri

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Le chagrin des oiseaux
Anno: 2014
Durata: 97'
Regia: Abderrahmane Sissako
Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako, Kessen Tall
Fotografia: Sofian El Fani
Montaggio: Nadia Ben Rachid
Musiche: Amin Bouhafa
Attori: Ibrahim Ahmed, Abel Jafri, Hichem Yacoubi, Toulou Kiki, Kettly Noël
Uscita italiana: 12 febbraio 2015

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DANCING WITH MARIA - Armonia atonica

26/2/2015

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«Il corpo trasforma ciò che ascolta in un movimento unico». Maria Fux racchiude in questa frase la sua anima e il suo lavoro, fondato sul principio secondo cui la danza è suggerita non dalla melodia ma dal proprio ritmo interiore, battito cardiaco, respirazione: è questa la vera forza che ci spinge a danzare e che lo rende possibile a tutti. «Quando danziamo – spiega la Fux sul suo sito – lo facciamo per esprimere non solo la bellezza, ma anche la paura, la rabbia, l’angoscia, il dolore: ognuno di noi ha questi sentimenti dentro di sé che stanno lottando per uscire con la stessa intensità con cui noi resistiamo per impedirglielo. Più della parola, la danza ci consente di riconciliarci con noi stessi». 
Mostrare ciò che si verifica con una musica molto semplice e ripetitiva, perché dipende da noi far sì che l’uguale sia contemporaneamente differente: questo è anche il compito del regista friulano Ivan Gergolet (classe 1977), il quale ha cercato di raccontare nel suo lungometraggio gli aspetti più interessanti del lavoro di Maria Fux. Il suo metodo porta dei grandi cambiamenti nella vita delle persone, certamente non grandi innovazioni che stravolgono la società, ma piccole prese di coscienza che trasformano invece gli individui. La sua danza-terapia è famosa in tutto il mondo: da lei si recano persone da ogni dove per apprendere quello che ha vissuto sul palcoscenico e che l’ha portata a essere una delle Maestre di danza più amate e conosciute. Questo percorso artistico ha avuto inizio nel 1942 con la visione di una foglia staccatasi dal ramo e finita a scontrarsi con l’albero librandosi nell’aria circostante, mossa dal solo vento e senza il bisogno di una musica per poter danzare. È così che vuole esprimersi Maria: come una foglia che non è stata sconfitta.

Gergolet parla dell’incontro con la danzatrice argentina: «È avvenuto grazie a mia moglie, che dopo aver conosciuto il suo metodo in Italia, mi aveva chiesto di accompagnarla a Buenos Aires per conoscere la Fux e partecipare a un suo seminario. Lì avevo potuto filmare, per tenerceli come ricordo, alcuni momenti delle lezioni e Maria mi aveva anche concesso un’intervista. L’esperienza mi aveva molto colpito, così ho montato il materiale e l’ho fatto vedere a Igor Princip della Transmedia (la stessa compagnia che ha prodotto Zoran, il mio nipote scemo, la commedia vincitrice della Settimana della critica 2013) che mi ha incoraggiato subito a tornare in Argentina per farne un film».

Così il regista, con la sua macchina da presa, si insinua nelle lezioni e ci immerge nelle atmosfere intime della sala-prove in cui l’ormai novantenne Maestra argentina accoglie aspiranti danzatori di qualsiasi condizione sociale (argentini e stranieri, uomini e donne con malattie fisiche e mentali), integrandoli tutti in quella dimensione sovrasensibile. Nel suo studio qualunque siano la tua storia, i tuoi sogni, le tue speranze, hai la possibilità di essere più libero, iniziando un percorso con lei. Maria non ha bisogno di sapere il nome dei propri allievi, cosa fanno nella vita o cosa non fanno: li conosce attraverso i loro movimenti, attraverso il modo che hanno di muoversi nello spazio.
Gergolet descrive l’attività e la vita di Maria Fux allontanandosi, apparentemente, dalla protagonista principale, rendendo veri protagonisti gli allievi e l’effetto che la danza insegnata dalla loro Maestra, con sofisticata ironia e leziosità, ha sulle loro vite. Per far ciò ricorre a una regia statica, ferma, quasi immobile. A muoversi non è il racconto di una vita, ma le braccia, le gambe, i corpi di Maria Fux e dei suoi apprendisti che osserva compiaciuta. 
Dancing with Maria, unico film italiano in concorso alla Settimana della Critica a Venezia, la sezione indipendente riservata alle opere prime, non è un biopic, ma una riflessione su come la danza può cambiare la vita delle persone. Maria l’ha trasformata a tanti, ma deve riportare tutti gli insegnamenti al suo vecchio corpo con cui è ora in conflitto. Il rapporto con i propri limiti, che rappresenta la chiave del suo metodo, è ora anche l’occasione di trovare per se stessa la forza che ha trasmesso ai suoi allievi, una forza intima e misteriosa che mostra la bellezza insita in ogni uomo e capace di far danzare anche un corpo di 93 anni.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Ivan Gergolet
Attori: Maria Fux
Fotografia: David Rubio, Ivan Gergolet
Montaggio: Natalie Cristiani
Produzione: Transmedia
Distribuzione: EXIT media
Durata: 72'
Anno: 2014

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UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA - I vivi non vivi

23/2/2015

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Fine della proiezione. Mentre a luci diffuse scorrono i titoli di coda, un’attempata spettatrice incrocia gli sguardi smarriti di due ragazzi sprofondati dall’altra parte della sala. “Vi è piaciuto, ragazzi?”. “Guardi, proprio no.” L’anziana incalza: “Ma nemmeno da un punto di vista fotografico?”. “Sì, però diciamo che non basta per farci un intero film”. La signora distoglie lo sguardo, ferita dall’insensibilità estetica dei due. Dopo il dibattito, ecco la conquistata uscita verso il tardo, sonnacchioso pomeriggio romano. 
Può capitare andando al cinema di cogliere al volo le chiacchiere mimate di spettatori all’uscita di una sala poco gremita su quanto curata e sublimemente pittorica fosse la fotografia del film. È un trucco molto usuale, ripiego sussiegoso di spettatori con poche carte da giocare al tavolo cruciale del dibattito cinefilo, refugium peccatorum che non costa fatica né toni troppo accesi. Perché magari non provare a imporsi, emergendo in assenza di grazia dal buio della sala, la necessità pratica di un silenzio (appena appena) riflessivo? 
Questa breve tirata polemica ha la sua ragion d’essere quando tiriamo in ballo un’opera complessa e straniante come Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, gigantesca (ed effimera) metafora sull’“essere un essere umano” del regista svedese Roy Andersson. Di vocazione sperimentale è qui l’assenza di una costruzione programmatica: non esistono trama o vicende pregnanti, solo azioni e gesti sempre in totale o in campo medio. 
La camera fissa e invisibile raccoglie in scene di durate frastagliate e in spazi non consequenziali la deriva silenziosa di un mondo abitato da spettri in attesa di vivere più che di morire. Un uomo tenta con fatica di stappare una bottiglia e un infarto lo accascia lentamente a terra. Un’anziana sul letto di morte afferra la borsetta dei suoi gioielli per portarla con sé nell’aldilà mentre i figli tentano grottescamente di dissuaderla. Su un traghetto un uomo muore: il guaio è che non ha ancora consumato la sua ordinazione al ristorante. 
La morte, ghigna garbatamente Andersson, è solo il prologo, l’annuncio: le si passa attraverso per arrivare alla vita. Due commessi viaggiatori, venditori di umili scherzi di carnevale si aggirano tra un bar e il retro-bottega di un cliente, ripetendo azioni, lamenti, slogan scanditi senza entusiasmo (“Vogliamo solo aiutare la gente a divertirsi”), per finire sempre tra i grigi corridoi di una casa di riposo dove si abitano celle strette e spoglie e il guardiano invita perennemente al silenzio. In mezzo, nel tragitto non percorribile dei due vinti, il mondo prende forme scomposte: ha gli scatti languidi di una sala di flamenco, i silenzi ebeti tra i dialoghi, il suono del sacchetto ridente venduto dai due ambulanti, i lamenti di una madre in punto di morte o di una scimmia sacrificale sottoposta a elettroshock. 
Quando il passato si presenta alla soglia ha il trottare dei cavalli dell’esercito di Carlo XII che irrompe in un bar, ordina un bicchiere d’acqua e arruola al fronte russo un giovanotto pieno di virtù; ha il canto nostalgico di una taverna dove durante la guerra Lotte la zoppa concedeva un bicchierino in cambio di un bacio appassionato. Ma quando si ritorna al presente gli abitanti del mondo, stanchi nei loro interni candidi, tramortiti forse dal sospetto di un eterno ritorno dell’uguale, non fanno altro che ripetersi al telefono: “Sono contento/a di sapere che state tutti bene”. 
Come in Beckett, essi abitano il loro cono liminare tra luce e ombra, consumano una vita pericolosamente in bilico tra l’apparizione fugace e la scomparsa nel niente. Sono vivi, eppure sempre sul punto di dissolversi, sempre in procinto di morire e lasciare il mondo intatto come un involucro candido, lungo il quale qualcuno una volta è passato senza essere notato, come la madre che culla il bimbo nel parco deserto o l’uomo che crepa sul pavimento cerato mentre la moglie di spalle fissa il lavello del cucinino. 
“Il presente era scomparso, non ci sarebbe più stato per me altro che un passato e un domani, un domani sentito già come un passato”, scriveva Eugène Ionesco nel Diario in frantumi. Come il drammaturgo romeno, Roy Andersson si sofferma sull’essenzialità umana, sui comportamenti meccanici e ripetitivi in cui gli uomini e il tempo sono avviluppati fino all’ineluttabile fine del presente. Persi i ruoli, le funzioni, il senso resta soltanto il profilo slavato di un essere umano, come gli ospiti invisibili de Les Chaises di Ionesco o i morti viventi di Andersson con i loro volti cosparsi di biacca. 
Dalla teca museale nella quale sono esposti all’inizio del film, gli uccelli vigilano impotenti sul mondo senza la forza o la voglia di violentarlo e scombinarlo, come forse avrebbero fatto gli stormi neri di hitchcockiana memoria. Qui un piccione appollaiato sul ramo (cui una bambina accenna in una poesia durante una recita scolastica) riflette senza aspettative sull’esistenza al posto degli uomini, pavidi e fuori posto da sempre e in qualsiasi luogo. Come il segno nero sul ramo dipinto da Pieter Bruegel il vecchio in Cacciatori nella neve, cui il regista dice di essersi ispirato (!), l’uccello metaforico (Dio?) di Un piccione seduto… guarda nella valle sottostante e vede uomini indistinguibili in mezzo a un manto diffuso d’inverno. 
Ejzenstejn commentò con queste parole la sua esperienza alle lezioni di Mejerchol’d: “L’io romantico ascolta incantato, l’io razionale borbotta sordamente”. La storia, l’arte si replicano all’infinito. Andersson è un affabulatore lucido e in superficie scorretto e guarda con piacere e compiacimento la sferzata grottesca inferta al mondo dei vivi e dei vinti. Così come di grande suggestione simbolica può sembrare la scena in cui un gruppo di schiavi neri viene spinto in un pentolone rotante che tramuta le loro urla di dolore in musica, per il diletto di una dozzina di borghesi in frac (ma è ben poca cosa, se si conosce Buñuel e i suoi grandi affronti alla borghesia ingorda e vuota). 
Per gran parte del film poi si può restare sedotti da un modo di raccontare che fa strage dei coefficienti di coerenza, solidità, pathos, coinvolgimento convenzionali. Ma a una disamina più lucida, dopo essere emersi senza grazia dal buio della sala, dopo il silenzio riflessivo di rito, la gigantesca metafora non riesce a sedimentarsi e si dissolve pian piano nella mente, come tra gli interni candidi e il nulla si dissolvono le miserie di questi vivi “che non sono”. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: En duva satt på en gren och funderade på tillvaron
Anno: 2014
Durata: 101’
Regia: Roy Andersson
Interpreti: Holger Andersson, Nils Westblom, Ola Stensson, Lotti Tornros 
Sceneggiatura: Roy Andersson
Fotografia: Istvàn Borbàs, Gergely Pàlos
Montaggio: Alexandra Strauss

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IL CIELO SOPRA BERLINO - Le ali sopra di noi

18/2/2015

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Torna al cinema, in versione restaurata e digitalizzata, Il cielo sopra Berlino, l’opera più complessa e apprezzata di Wim Wenders, premiato proprio quest'anno con l’Orso d’oro alla carriera alla Berlinale. Due ore di poesia in immagini, di scene in cui la quasi totale assenza di dialoghi è compensata dalle voci fuori campo. Dai sogni, le delusioni, i pensieri persi di personaggi che, comparse del film come nella vita, lasciano il proprio segno in scena per il tempo concesso dall’Autore, o forse dal loro Creatore. Il cielo sopra Berlino è popolato di angeli, ed è in particolare vissuto - se così si può dire - da Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander), distanti osservatori delle vicende umane.
Sono angeli che vagano, volano, sorvegliano. Angeli come creature estranee al mondo mortale, eppure così insensatamente appassionate alla vita. Angeli che scrutano, studiano, cercano il senso del vivere. Appollaiati come antichi dei, gli angeli di Wim Wenders vegliano su una Berlino incantata, nel senso di assopita, congelata in un bianco e nero espressionista, freddo, il colore dell’atarassia. La Germania che deve ancora unirsi, un’Europa in cui la gente pare così distratta, stanca, addolorata, delusa dal passato e come in cerca di un segno del destino che possa risollevare le anime, guarire i cuori. Tutti in cerca di Dio. O forse no.
Gli angeli superiori a noi, che ci guardano con benevolenza, con religiosa compassione, alla fine un po’ ci invidiano. Perché nella mistica perfezione dell’angelo, catalizzatore puro di sentimenti e di pensieri, manca il senso di vivere. La caducità. Il mistero.
Il cielo sopra Berlino è un’opera che offre infinite chiavi di lettura: filosofiche, religiose, storiche, simboliche, artistiche, cinematografiche. Ha portato un seguito, Così lontano, così vicino, ma di più ha segnato un’epoca storica e culturale. La storia di questa Berlino assorta e disarmata, di cui si scopre la vita solo rischiando la morte, è forse anche un po’ la storia dell’Occidente e dell’Oriente, la storia del mondo. Abbiamo tutti bisogno di credere. Oggi, forse, ancora di più. Il cielo sopra Berlino nei cinema può ancora raccontarci l’eterno, il precario equilibrio del nostro spirito. Se mai abbiamo imparato qualcosa. Siamo sempre qui: gli scettici, i sognatori, gli esteti, i delusi. Sogniamo di trasformare la nostra esistenza in un circo a colori. Vogliamo buttarci. Il desiderio.
È la tradizionale parabola dell’angelo caduto, magicamente sospesa tra immagini felliniane, impegnata nella ricomposizione post-moderna dell’arte e dell’iconografia classica, indagatrice dell’imperscrutabile animo umano, poesia del più puro degli amori terreni.
Il cielo sopra Berlino, le ali sopra di noi.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Der Himmel über Berlin
Anno: 1987
Durata: 128 min
Regia: Wim Wenders
Sceneggiatura: Wim Wenders, Peter Handke, Richard Reitinger
Fotografia: Henri Alekan
Montaggio: Peter Przygodda
Musiche: Jürgen Knieper, Laurent Petitgand
Attori: Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Otto Sander, Curt Bois, Peter Falk

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SELMA - Le catene della storia

10/2/2015

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La battaglia americana per i diritti civili è stata portata al cinema poco volentieri e tra numerose difficoltà. Spesso l’apporto stesso dei neri al movimento è stato ridimensionato per valorizzare invece il ruolo dei bianchi, come è accaduto in Mississippi Burning di Alan Parker ma anche in The Help di Tate Tyalor. Decidere di affrontare quel momento della storia in un’ottica diversa, scegliere di portare al cinema una delle figure più importanti nella storia recente degli Stati Uniti, è impresa importante e difficile che richiede coraggio e consapevolezza di sé.
Lo script di Selma era in origine destinato a Lee Daniels (Precious), che voleva farne un film incentrato sul rapporto tra l’allora Presidente Lyndon Johnson e Martin Luther King, in quanto più interessato a definire il coinvolgimento del primo fino all’approvazione della legge sui diritti civili. Quando la produzione nelle mani di Daniels fu annullata, la sfida fu raccolta da Ava DuVernay (Middle of Nowhere), che ha poi fatto di Selma la storia di Martin Luther King nei mesi antecedenti la storica marcia segnata dal discorso I have a dream.
La sceneggiatura, dunque, segue i momenti salienti di quelle complesse settimane con taglio cronachistico. A favore di Selma si impongono il senso della collettività e la capacità della DuVernay di catturare ragioni e sentimenti raccolti attorno alla figura di Martin Luther King (David Oyelowo), leader di un movimento composito con tante facce che avrebbero meritato di essere più valorizzate. Manca ancora un affresco corale e definitivo del movimento per i diritti civili e questa poteva essere l’occasione giusta, perché ciò che funziona meglio nel film sono proprio le scene di massa, il dietro le quinte del movimento, la determinazione che unì tante anime in un unico corteo per la libertà.
Tuttavia è King il nodo della vicenda. Sono il suo spirito e le sue azioni a trascinare il film da una scena all’altra, facendone anche l’anello narrativo, la congiunzione tra le diverse fasi del racconto.
In questa stesura di Selma, l’aspetto più controverso diventa l’interpretazione del ruolo svolto da Lyndon Johnson (Tom Wilkinson) proprio nella cornice storica di cui il film si ammanta fin dall’inizio. Si può sorvolare sulla macchiettistica rappresentazione di George Wallace (Tim Roth) o su quella inconsistente di J. Edgar Hoover (Dylan Baker, bravissimo attore, ma somiglia così poco a Hoover che occorre la didascalia esplicativa). Lyndon Johnson è stato sicuramente una figura non lineare e ombrosa, incapace di gestire il proprio mandato dopo l’assassinio di John Kennedy, con una quantomeno discutibile amministrazione della guerra in Vietnam (il suo più grande fallimento come Presidente). Non si può tuttavia negare che fu lui a siglare il Voting Rights Act, ed è un po’ scorretto insinuare che addirittura abbia minacciato King per impedirgli di proseguire con la sua campagna.
Questa è solo una delle tante imprecisioni (volute) di Selma. Non si può lanciare lo slogan che “this is not just a movie” e poi, di fronte alle polemiche, alzare le mani dicendo che “questo è solo un film”. Perché se è vero che si tratta di un film e non di un manuale di storia, è anche vero che una pellicola così ambiziosa ha anche la responsabilità di rispettare i fatti. L’ambiguità di fondo risiede nel proporre Selma come un pezzo di storia, con tanto di date e fatti illustrati allo spettatore, quando di base si tratta di un lavoro di fiction che, con una certa tendenziosità, taglia e adatta situazioni e personaggi per dimostrare la propria tesi.

Nel mondo politicamente corretto di Hollywood, proteso nella sua massima espressione – gli Oscar – ad autoincensarsi, non si può affermare che Selma sia un film solo parzialmente riuscito, quindi non meritevole della candidatura, pena l’essere tacciati di razzismo e diventare vittime di hashtag come #oscarssowhite.
Negare la mancata rappresentazione delle minoranze nel cinema sarebbe sciocco, ed è sotto gli occhi di tutti, ma questo è un problema antico. Pur in tutte le sue contraddizioni, l’Academy ha sempre inteso riflettere la società americana: ha fatto di Sidney Poitier l’icona culturale della politica kennediana, premiato un’attrice asiatica (Miyoshi Umeki, Sayonara) negli anni della guerra in Corea, attribuito un Oscar a un reduce di guerra (Harold Russell, I migliori anni della nostra vita) e uno a un sopravvissuto della Cambogia degli Khmer rossi (Haing S. Ngor, Urla del silenzio). E così via. E se è pur vero che c’è stato un buco lungo decenni nell’affermazione di tanti bravissimi attori afroamericani, è altrettanto vero che l’Academy ha da tempo dimostrato un cambio di rotta. Allora, più che la questione razziale, a monte c’è un altro problema che riguarda l’industria: pochi ruoli per le attrici, pochi spazi per le registe, minoranze a volte isolate in stereotipi. È vero, ma questo, appunto, vale per tutte le categorie.
Nella società americana di cui Obama è il Presidente e Oprah Winfrey è la voce post-moderna del messia nazional-popolare, forse il vero problema di Selma non è la mancata candidatura per la regia o per l’attore, quanto – più banalmente - il fatto che il film non sia tale da meritare la nomination. In termini strettamente cinematografici, è tutto qui. Ava Duvernay non ha fatto meglio di Fincher, Nolan o Eastwood, tutti esclusi dalla cinquina, e di strada forse deve farne più di autrici come Jane Campion, Claire Denis, Julie Taymor, ma anche della pioniera Ida Lupino.
Anche la pregevole interpretazione di David Oyelowo, che pure offre una rilettura interessante e umana di Martin Luther King (resta inarrivabile la performance di Paul Weinfield, che lo interpretò nel 1978), è un po’ accademica e non esce dalla cornice di grandiosità costruita dalla regista attorno a se stessa e alla propria opera. L’impressione che si ha, nell’insieme, è che questa presunta maestosità non sia altro che apparenza, e che il narcisismo del cast, rapito da una sorta di sacro furore, abbia preso il sopravvento.
Alla fine Selma è un film che cade sotto la sua stessa ambizione, sotto la prosopopea della sua regista. Ha la pesantezza di un elefante e si regge sulle zampe di una formica. La sceneggiatura risente indubbiamente della impossibilità di utilizzare i discorsi originali di King, i cui diritti sono degli eredi e che li hanno ceduti alla Dreamworks. Ma è proprio la costruzione in sé a essere fragile. Selma non ha la forza espressiva di Malcom X, non ha la vis polemica di JFK, e non ha l’estetica di Lincoln. Non gioca nemmeno sul senso di colpa, come ha abilmente fatto Steve McQueen in 12 anni schiavo.
È tutto ridotto a noi vs. loro, neri vs. bianchi, buoni vs. cattivi. Ava Duvarney non voleva realizzare un altro “white-savior movie”, dice a «Rolling Stone», ma quello che proprio non riesce a fare è astrarre la propria rabbia personale dal racconto, mutare se stessa da attivista a regista della storia. Questo, almeno per chi scrive, è un difetto grave, ed è ciò che fa di Selma un film non brutto ma inconcluso, in cui l’ideologia da film militante pregiudica anche i (molti) pregi. Glory, la canzone di Common e John Legend, è il vero manifesto e riflesso dell’opera: un po’ retorica di strada a ritmo di rap, un po’ inno alla resistenza, di un tono tutt’altro che pacificatore. L’esatto contrario di quello che suggerirebbe qualsiasi movimento per la pace.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Ava DuVernay
Attori: David Oyelowo, Tom Wilkinson, Oprah Winfrey, Carmen Ejogo, Alessandro Nivola, Tim Roth, Giovanni Ribisi
Sceneggiatura: Paul Webb, Ava DuVernay
Musiche: Jason Moran
Fotografia: Bradford Young
Durata: 122'
Anno: 2014
Uscita italiana: 12 febbraio 2015

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BIRDMAN - Le imprevedibili oscillazioni del successo

5/2/2015

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L'apparenza è quella della jam session, amplificata dal fatto che la linearità della performance teatrale è costantemente interrotta dagli imprevisti forniti dalla vita, dai nervosismi degli attori, dai drammi personali di chi lavora dietro le quinte e finisce, consapevolmente o meno, per sabotare la perfezione della fiction. Di improvvisato però non può esserci nulla, data la struttura tecnica a piano sequenza (quasi) unico che presuppone una grandissima opera di pianificazione delle riprese. Fra i due estremi favoriti dalla libertà e dalla programmazione che “congela” ogni atto, sta dunque la ragione d'essere di Birdman: creativamente e narrativamente, beninteso, poiché il gioco di alternanza fra le due sponde coinvolge il lavoro dietro e davanti la macchina da presa.
Dal versante extra-diegetico, infatti, c'è il continuo gioco di riferimenti e, al contempo, di smontaggio degli stessi che Inarritu mette in scena: guardi Michael Keaton e pensi al Batman burtoniano; Edward Norton finisce per ricondurti a L'incredibile Hulk; e visto come vanno oggi le cose in casa Sony, anche Emma Stone sembra il fantasma della Gwen Stacy di The Amazing Spider-Man. Tutti film, guarda caso, che pur avendo più o meno segnato una tappa importante nell'ambito del genere cinecomic, sono comunque da considerarsi ormai obsoleti, sorpassati, rimpiazzati da versioni nuove o in divenire, come a restituire il senso di caducità che il film coltiva nella sua morale incentrata sulle glorie effimere del successo. Però ci sono poi anche i riferimenti oppositivi, evidenti nella scelta di affidare a Zach Galifianakis - l'elemento più problematico della già immatura compagnia di Una notte da leoni - il ruolo dell'avvocato che tira le fila dello spettacolo e cerca così di tenere insieme i pezzi mentre tutto scivola verso il disastro.
A questo si accompagna, naturalmente, il gioco più “interiore” di una storia articolata attraverso continui rispecchiamenti fra la realtà e la finzione, dove il lavoro di scrittura si fa più evidente e la metafora dell'attore spiantato in cerca di riscatto trova la sua compiutezza, con corollario di acide battute sullo stato delle cose nella Hollywood contemporanea. Il tutto senza dimenticare la società stessa, dove il successo si misura pure sulle rovinose cadute o sulle figure più imbarazzanti (evidenti nella divertentissima sequenza in cui Riggan/Keaton si ritrova a passeggiare per le strade di New York in mutande diventando così un idolo dei social network e dei programmi tv).
Più di tutto, però, a colpire è la natura fluttuante di un racconto che si riflette nella visualità “liquida” della magnifica fotografia di Emmanuel Lubezki, che lascia galleggiare i corpi e le loro continue mutazioni in una metaforica (e a volte sostanziale) “assenza di peso” e di carnalità (con erezioni vistose e dunque posticce, e sangue sempre finto), fino a creare quasi un'alternativa “terrestre” all'indimenticabile viaggio spaziale di Gravity. E poi c'è la costruzione narrativa, basata sul continuo andirivieni di volti, corpi, spazi e set: non è tanto il fatto che i personaggi transitino attraverso numerose fasi di trucco e smascheramento, e nemmeno che si proceda senza particolari soluzioni di continuità dai camerini al palcoscenico, passando magari per il tetto, i vicoli o i bar limitrofi. È lo scivolamento progressivo fra realtà e sogno a fare la differenza, e fra tempi che si intrecciano e si scavalcano a vicenda: se la compattezza di azione e luogo è sostanzialmente rispettata, la terza unità aristotelica del tempo si reinventa a ogni passaggio, e l'unità tecnica del piano sequenza è rotta costantemente dal continuo saltare fra momenti non direttamente collegati fra loro. Si va così dal giorno alla notte, dalle prove fino allo spettacolo vero e proprio, che è quasi già obsoleto anch'esso quando è finalmente arrivato alla sua reale messinscena.
La forza sta nel divertimento con cui Inarritu racconta tutto questo: un'ironia che spesso tracima in un certo snobismo pesante (complice l'ingordigia di voler ricomprendere e demistificare tutto), ma che nei momenti migliori apre il film a possibilità inattese. Ecco dunque che la commedia diventa un blockbuster o quasi un disaster movie (genere non a caso deputato a ospitare le “vecchie glorie” dei generi), mentre il variopinto Birdman diventa voce della coscienza e si confronta con un Riggan che forse possiede realmente dei super poteri, o forse no – l'innata e straordinaria capacità di Keaton di mantenersi sempre in bilico tra lucidità e follia è un autentico valore aggiunto per il film. 
Bene fa Inarritu a lasciare la porta aperta a possibili deviazioni nell'assurdo che non trovano una completa risoluzione nel finale: in fondo, il meno che ci si possa aspettare da Birdman è che, nella sua natura fluttuante, si permetta di chiudere in modo definito e netto, precludendo allo spettatore di continuare a volare con la mente anche quando l'inquadratura dissolve a nero.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Birdman (or the Unexpected Virtue of Ignorance)
Anno: 2014
Regia: Alejandro G. Iñárritu
Sceneggiatura: Alejandro G. Inarritu, Nicolas Giacobone, Alexander Dinelaris Jr., Armando Bo
Attori: Michael Keaton, Emma Stone, Edward Norton, Zach Galifianakis, Naomi Watts, Andrea Riseborough
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: Douglas Crise, Stephen Mirrione
Durata: 119’
Uscita italiana: 5 Febbraio 2015

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CORRI RAGAZZO CORRI - Echi dal passato

2/2/2015

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Ispirandosi al best seller "Corri ragazzo" di Uri Orlev (importante scrittore ebraico sopravvissuto ai campi di concentramento, noto soprattutto per il racconto d’ispirazione autobiografica L’isola in Via degli uccelli), in cui si racconta la storia vera di Yoram Friedman, il regista Pepe Danquart rende il suo inarrendevole protagonista un simbolo della libertà e dell'intelligenza, uniche armi possibili contro l'abominio nazista.
La storia di Yoram è quella di Srulik, un bambino di otto anni che nel 1942 fugge dal ghetto di Varsavia. Da quel momento cercherà di sopravvivere in tutti i modi, arrivando ad assumere l'identità dell'orfano cristiano Jurek. La sua è una fuga incommensurabile, durata anni e anni, durante i quali colleziona drammi e sofferenze spesso eccessive: il ghetto dove gli vengono uccisi genitori e fratelli, le foreste gelide dove perde i compagni, i polacchi che consegnano bambini per una ricompensa minima, come un tozzo di pane, che poteva allora fare la differenza. 
Il bambino è rincorso, ripudiato, maltrattato, privato di un braccio, ma mosso da un indomabile spirito di sopravvivenza. Solo la fine della guerra gli attribuirà una assegnazione definitiva: un orfanotrofio di Varsavia, dove verrà educato dalla sua gente e preparato a diventare un cittadino d’Israele. Srulik potrà quindi tornare a chiamarsi con il suo vero nome, dopo aver finto di essere Jurek Staniak: un cattolico che porta al collo il crocifisso e sa recitare l’avemaria. 
Durante tutto il suo calvario rischia di perdere la propria identità ebraica: l’allontanamento dalle proprie radici di un bambino che ha promesso al proprio padre di sopravvivere, contro tutto e tutti, in una corsa senza sosta che può essere letta come un’allegoria del popolo israeliano, nei confronti del quale alla fine sente di non appartenere più. Non riuscendo a realizzare concretamente in che modo tutto ha avuto inizio, con il fiato sospeso, Jurek riconosce l'esistenza del bene in persone disposte a rischiare tutto pur di non arrestare la sua corsa lontano da una realtà inconcepibile. Anche da questi incontri deriva forse la volenterosa forza di continuare a lottare. 
Il film di Danquart ha la forza emozionale propria della tragedia storica ed umana che commemora, ma ancor di più ha la capacità di mostrare qualcosa che non si vede spesso nei film sulla Shoah: la perdita dell’identità. Più il ragazzo corre, fra i boschi o fra le famiglie che lo accolgono, più gli sembra di trasformarsi e di dimenticare le proprie origini. Un cambiamento imposto dal contesto, dove la sua brusca e inconsapevole conversione al cattolicesimo assume i reali contorni tragici del film. 
Tra parole che non si devono dire, cose che non si devono fare, luoghi in cui si deve restare, Corri ragazzo corri non è semplicemente un film sull’Olocausto, sull’infanzia negata e abbandonata a se stessa: è il canto impaurito dell’esistenza che reagisce, che non molla la presa, anche se si è del tutto persa di vista. 
Il film arriva in Italia con un po’ di ritardo rispetto ad altri Paesi come Polonia e Germania, in cui è stato presentato a fine 2013, o Israele e Ungheria, a inizio 2014. Il lungometraggio di Pepe Danquart (regista noto soprattutto per la sua attività di documentarista), dopo una serie di festival, è approdato finalmente nelle nostre sale, dove ha ottenuto una distribuzione in concomitanza della Giornata della Memoria: è stato proiettato in alcuni cinema dal 26 al 28 gennaio.
Una sorta di “mappa” del terrore nel nord-est dell’Europa continentale, nei tratti di una Polonia danneggiata e brutalizzata dall'oppressore tedesco e dai crimini di una tragedia senza fine, il tutto rimarcato dalla livida fotografia di Daniel Gottschalk. Un lungo lavoro di mediazione e filtri, che ha portato alla realizzazione di un film poco noto ma atipico rispetto alla produzione “tradizionale”: si discosta dal filone romanzesco avventuroso a cui potrebbe essere ricondotto a causa di un connotato ribelle, ma anche dal contesto storico, affinché venga ritratta una personalità in formazione, che si lascia plasmare dal dolore, dalla paura, dalla lotta per la sopravvivenza, ma non è in condizione di interrogarsi sul significato della sua sofferenza.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema

Scheda tecnica

Anno: 2013
Regia: Pepe Danquart
Sceneggiatura: Heinrich Hadding, Pepe Danquart
Attori: Andrzej Tkacz, Elisabeth Duda
Fotografia: Daniel Gottschalk
Montaggio: Richard Marizy
Durata: 108'
Uscita italiana: 26 gennaio 2015

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