ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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LA QUINTA STAGIONE - Il mistero della natura

30/6/2013

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Primavera, estate, autunno, inverno e probabilmente ancora primavera, anche se l’arrivo della stagione della rifioritura è tutta un’incognita, ne La quinta stagione dei registi belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth, dove gli equilibri sono stati stravolti e non c’è più spazio per una rasserenata visione del cosmo e, per estensione, del paesaggio che ad esso è sotteso. 
Un paganesimo onnipresente ha logorato tutto, trasformando ogni angolo di realtà in un decadente quadro estetizzante e dando vita a un nuovo naturalismo di immagini che non hanno nulla di distensivo ma vivono soltanto delle loro radici inquietanti e misteriose. Proiettate, al limite, verso la materializzazione impossibile di una quinta fase dell’anno che mai arriverà ma che non potrà sottrarsi dal continuare a farsi incombente e minacciosa, oscillando come una maledizione simile a un peccato originale partecipato sull’universo nordico e fiammingo di Brosens & Woodworth. Non sono percorribili altre strade al di fuori dell’evidenziazione di tale colpa inespiabile, a riprova di una matrice intellettuale dell’approccio che parte da un immaginario fiabesco scandinavo ma se ne discosta ben presto, abdicando a tutto vantaggio della totale rarefazione.
Dopo aver girato Khadak in Mongolia e Altiplano in Perù, i registi portano a termine una loro ideale trilogia nel loro paese d’origine, il Belgio, ritratto con quell’irrinunciabile ascetismo che li ha portati a sondare i luoghi e gli angoli più remoti del pianeta senza fermarsi alla mera contemplazione degli spazi e degli ambienti ma piuttosto affiancando a essa un preciso discorso sul concetto di aggregazione umana e di spirito comunitario. Un elemento che diviene centrale nella loro ultima fatica, che alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia spaccò la ricezione degli addetti ai lavori nelle due proverbiali, opposte fazioni di scettici e infastiditi da un lato e di affascinati e irretiti dall’altro. Complice, forse, il particolarissimo nucleo umano di queste lande desolate che oscilla costantemente tra la stranezza e la peculiarità, contribuendo ad amplificare lo straniamento e il senso di astrusità respingente di un film che per lo spettatore comune e poco abituato a pochissime se non a nessuna forma di cinema ricercato e indagatore può risultare pressoché impenetrabile. 
Nonostante questo limite sulla carta non da poco, La quinta stagione riesce però a conquistare e perfino a tratti ad avvincere col magnetismo delle sue proposte visive, coi suoi rimandi pittorici bruegeliani e la rappresentazione di una natura ibrida e violenta, la cui dannazione appare provenire perfino dagli angoli più sperduti e inviolati del cielo, generando un senso di oppressione (ir)respirabile in moltissime scene.
Certo, non manca l’ermetismo, reso palese attraverso un accumulo di interrogativi esistenziali e antropologici che appaiono come aporetici a priori né sono sviluppati nella loro completezza. La quinta stagione, dopotutto, è un film che si lascia soprattutto guardare, che non sembra avere o anelare ad altre urgenze al di fuori di quella, autosufficiente e già di per sé beatificante, di farsi materia di contemplazione. È un film non esplicativo in nessuno dei suoi momenti (e di attimi visivi notevoli, a ben guardare, ce ne sono tanti, si veda la scena del bacio iperrealistico e sboccato), allusivo per vocazione e per scelta etica, suggeritore costante di enigmi insoluti e di arditezze problematiche. 
La scena iniziale col gallo è a suo modo un’immagine potente e indimenticabile, più vicina all’installazione che al cinema e proprio per questo motivo isolabile plasticamente nella memoria di chi la guarda. Un’operazione mentale che forse con la totalità dell’opera riesce molto più difficile, data la nebulosità che vi alberga, senza però rinunciare a squarci di ironia caustica a metà tra il brio e il veleno, sulla scia delle atmosfere di un altro autore nordico imprescindibile per il cinema moderno come Aki Kaurismaki, presenza innegabile nelle numerose scene corali e affollate e non solo in quelle.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: La cinquième saison
Anno: 2012
Regia: Peter Brosens, Jessica Woodworth
Sceneggiatura: Peter Brosens, Jessica Woodworth
Fotografia: Hans Bruch jr.
Montaggio: Jessica Woodworth 
Costumi: Claudine Tychon 
Musiche: Michel Schöpping 
Durata: 93'
Attori: Sam Louwyck, Aurélia Poirier, Django Schrevens, Gill Vancompernolle

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TULPA - La via del passato tra sesso e orrore

19/6/2013

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C'era una volta il cinema di genere italiano. Un luogo di incubi e deliri, nel quale assassini con mani guantate mietevano vittime, lunghi coltelli luccicavano nella notte, tempi sospesi preparavano il pubblico a omicidi atroci, biforcazioni di trama confondevano le idee prima di rivelare la verità sul colpevole di turno. Era un cinema bello e deviato, amato all'estero più che dalla critica autoctona; un humus stilistico ben riconoscibile, spesso similare nonostante le mille variazioni sul tema. Mario Bava, Dario Argento, Sergio Martino, Lucio Fulci e molti altri, su livelli diversi, proponevano le loro spesso sottostimate capacità, dipingendo scenari cupi intrisi di sangue e terrore, follie e sospetti, vendette e ammiccamenti, in un gioco al massacro che esaltava gli appassionati e faceva storcere il naso ai puristi.
Tra ragazze che sapevano troppo, paperini seviziati, mosche di velluto grigio, tracce di violenza carnale e farfalle con le ali insanguinate, il giallo/horror all'italiana seguiva la sua strada, altalenante nei risultati ma costante nelle intenzioni. Fino a quando, dagli anni Ottanta in poi, le logiche cinepanettoniane e la lobotomia para-televisiva affossavano una volta per tutte i lati più oscuri dell'anima nostrana, relegando il format di riferimento alla scomoda terra del vintage, nonostante l'affetto incondizionato di tantissimi seguaci.
Oggi, trent'anni dopo, si è aperta una nuova via, colorata nel presente ma rivolta al passato, nella quale alcuni autori stanno provando a riportare in auge quel tipo di cinema, ridefinendone i contorni ma tenendo ben presente il campo di riferimento. Uno di questi, il più in vista all'occhio mediatico, è Federico Zampaglione.
Già nel 2009, con Shadow, il musicista/regista aveva cercato di comporre una rivisitazione di quel tempo che non c'è più, scatenando estimatori e detrattori in una battaglia senza tregua per un film che, a conti fatti, risultava discreto senza toccare vette esaltanti. Oggi l'autore romano ci riprova, e con Tulpa, presentato in anteprima nazionale sei mesi fa al Noir Festival di Courmayeur e ora finalmente anche nelle sale, stringe ancora di più il nodo intorno al cappio dell'omaggio, componendo un affresco che (ci) riporta in tutto e per tutto nel clima morboso di quel periodo ormai lontano.
Lisa Boeri è una manager di successo. La dedizione al lavoro l'ha però condotta verso una strada di solitudine nella sfera privata. Per combattere la malinconia, Lisa frequenta un sex-club privato, aperto a pochi eletti e gestito da una sorta di guru, nel quale i membri possono accoppiarsi tra loro nella più completa libertà fisica e spirituale, dando sfogo alle proprie ossessioni erotiche. All'improvviso, alcuni partner incontrati dalla donna al sex-club sono assassinati in modo violento e brutale. In Lisa cresce la paura, mentre intorno a lei gli omicidi si moltiplicano.
Nato da un'idea di Dardano Sacchetti, Tulpa riconduce il linguaggio di riferimento al contesto sopracitato, ammantando l'intero film di un'atmosfera pulsante e perversa nella quale il gusto del retrò è esibito e urlato a pieni polmoni. Tra suggestioni erotiche piuttosto audaci e risvolti di trama non troppo complessi, il lavoro di Zampaglione getta in un calderone tutta la materia d'origine, e la mescola cercando una ricetta appropriata, senza mai trascurare gli ingredienti essenziali: assassinii orchestrati con la migliore fantasia possibile, colpi a effetto, zampilli di sangue, tremori atavici, bizzarre figure di contorno, caccia al colpevole, risoluzione (almeno nelle intenzioni) inattesa. La violenza non è lasciata fuori campo, anzi, e il connubio sesso/orrore è reso esplicito in più occasioni; la tecnica risulta convincente, e nonostante qualche caduta di tono il film avanza con una certa scorrevolezza.
A dare volto e corpo alla protagonista c'è Claudia Gerini, compagna di Zampaglione nella vita, alle prese con il ruolo forse più difficile e sfaccettato della sua carriera. Una parte complessa, rischiosa, nella quale si mette a nudo (in tutti i sensi) con vibrazioni serpentine e buona efficacia. Intorno a lei si muovono compagni d'avventura più o meno significativi, tra cui vale la pena citare un Michele Placido spinto sopra le righe sino ai limiti della parodia.
A un primo livello di lettura, dunque, Tulpa funziona, anche perché alcune sequenze gore sono costruite davvero con efficacia, dall'iniziale scena al gusto di bondage a un efferato omicidio sulle giostre, passando per tremende scottature a base di olio bollente e incontri ravvicinati con topi affamati.
Tutto bene, tutto giusto. Oppure no?
Durante la visione, si ha la sensazione che l'ossequio voluto dall'autore tenda a ripiegarsi su se stesso, scegliendo strade (fin troppo) sicure e protette. In questo modo, se da un lato l'esperienza filologica risulta appropriata, dall'altro manca la spinta decisiva, affinché il prodotto possa elevarsi a un livello superiore. L'omaggio, per quanto attraente, rischia di restare fine a se stesso, se non è supportato da una marcia in più, da un tratto distintivo che lo renda anche nuovo e unico; così, ad esempio, ha saputo fare negli anni Rob Zombie, dotando i suoi lavori di una forza espressiva eccezionale e dirompente (si veda anche solo il recente Le streghe di Salem). In Tulpa questo qualcosa in più non c'è, e per quanto la fruizione risulti divertente e corretta, si ha l'impressione, per citare una seconda volta uno dei titoli storici già evidenziati sopra, che la farfalla con le ali insanguinate non riesca a spiccare il volo verso il cielo, limitandosi a fluttuare a poca distanza dal suolo.
Zampaglione è bravo, ha talento e padroneggia la macchina da presa, ma per favore, piantiamola con queste insulse definizioni di nuovo Re dell'horror, nuovo maestro del brivido, e compagnia cantante. I titoloni a effetto, per quanto necessari in un certo tipo di logica giornalistica e pubblicitaria, hanno davvero stufato. Un Re, per essere tale, ha bisogno di ben altro.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema

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Scheda tecnica

Regia: Federico Zampaglione
Anno: 2012
Durata: 80'
Soggetto: Dardano Sacchetti
Sceneggiatura: Federico Zampaglione, Giacomo Gensini
Fotografia: Giuseppe Maio
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Francesco Zampaglione, Andrea Moscianese, The Alvarius
Uscita italiana: 20 giugno 2013
Attori: Claudia Gerini, Michela Cescon, Nuot Arquint, Michele Placido, Ennio Tozzi, Ivan Franek

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INTO DARKNESS - STAR TREK - Tra blockbuster e mitopoiesi

16/6/2013

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Star Trek su Orizzonti di gloria? Perché no. Al di là degli oltranzismi più beceri, quelli da fan per intenderci, cioè quelli volti soprattutto ad annichilire una legittima passione per trasformarla in religione, oppure ad instaurare diverbi di rara inutilità (Star Trek è superiore a Star Wars? Vola più velocemente l’Enterprise o il Millennium Falcon?), Into Darkness - Star Trek appartiene di diritto ad una categoria di cinema alla quale nessuno dovrebbe mai rinunciare: quella di puro intrattenimento, realizzato senza mai mettere in secondo piano lo stile e la qualità. Del resto sarebbe sufficiente scorgere il nome del regista dietro la macchina da presa, quel J.J. Abrams che ormai è sulla bocca di tutti, per ottenere la tranquilla garanzia che queste due ore impiegate al cinema non saranno affatto tempo perso.
Già nel 2009 il creatore di Lost era riuscito in un’impresa che sembrava disperata, prendendo in mano il franchising di una saga che, dopo Star Trek – La nemesi, era ormai giunta al capolinea (a causa di una serie di film sbagliati che non erano riusciti a convincere il pubblico né la critica): il suo Star Trek si rivelò il perfetto connubio tra esigenze artistiche e commerciali, il punto di intersezione ideale tra le aspettative degli appassionati di vecchia data e le nuove generazioni. Un film che era un reboot, un sequel e un prequel allo stesso tempo, grazie a una freschezza narrativa in grado di proiettare l’intera serie verso il cinema del nuovo millennio. 
Ad Into Darkness spetta quindi il compito di raccogliere questa eredità, ricominciando da dove ci eravamo fermati qualche anno fa; per fare ciò, Abrams pesca a piene mani dall’enorme immaginario del cinema popolare, a partire dalla sequenza iniziale, slegata – in termini di trama pura e semplice – da quanto avverrà poi; un omaggio alla lunga tradizione dei film di James Bond, ad esempio, ma anche e soprattutto a quelli di Indiana Jones. Ecco, questo non è certamente un caso, considerando anche la portata del bellissimo Super 8. Oggi J.J. Abrams è forse l’unico cineasta americano (o quantomeno il più dotato) in grado di proseguire il lavoro dei suoi due numi tutelari, George Lucas e Steven Spielberg: in termini strettamente cinematografici, forse, due tra i più grandi narratori del Novecento. A riprova di ciò sta poi il fatto che sia stato lo stesso Lucas ad indicare Abrams come l’uomo adatto per proseguire la saga di Star Wars: un cerchio si chiude, mentre si apre un altro che (ci auguriamo) ne proseguirà l’opera, raccogliendo il difficile testimone di far sognare una nuova generazione di spettatori.
Into Darkness - Star Trek sembra inserirsi in una precisa tendenza del cinema seriale hollywoodiano, secondo la quale i capitoli numero due devono necessariamente abbracciare tonalità più oscure e drammatiche (qui è evidente sin dal titolo), mettendo i propri personaggi dinanzi a situazioni che ne comprometteranno l’integrità fisica o psicologica; è successo in tempi recenti con Christopher Nolan e Il cavaliere oscuro, così come accadde in passato con L’impero colpisce ancora e Batman – Il ritorno. Come lo stesso Lucas con il mastodontico Episodio III - La vendetta dei Sith, anche J.J. Abrams è ben consapevole che uno straordinario immaginario fantastico non deve necessariamente fare a meno di un rapporto con il reale, ma anzi può utilizzare tutti gli strumenti a propria disposizione per amplificare un’idea, un pensiero, una visione del mondo. 
In questo modo il film racconta (ancora) un’America nascosta dai controluce dei pianeti e delle astronavi, ma perfettamente riconoscibile: un’America sofferta e dolorosa, divisa tra la minaccia terroristica (impersonata dal magnetico villain John Harrison) e un’innata tendenza giustizialista (la missione “punitiva” dell’Enterprise e il conseguente rischio di una guerra intergalattica, osteggiata da alcuni personaggi che ben rappresentano il pensiero del regista). Nel mezzo, diverse sfumature di grigi che contribuiscono a rendere la vicenda più complessa e sfaccettata di quel che sembri, andando addirittura a rileggere un capitolo molto amato dagli appassionati della saga: L’ira di Khan.
Qui risiede dunque la forza del film, ma allo stesso tempo anche la sua debolezza: Abrams è abilissimo nell’affrontare questa materia narrativa con invidiabile spirito filologico, non limitandosi a citare personaggi o situazioni dal film del 1982 ma reinterpretando quella vicenda in maniera personale, arrivando addirittura ad invertire tra loro i ruoli del capitano Kirk e del primo ufficiale Spock. In più, Into Darkness contiene una lunga serie di omaggi e rimandi (il popolo Klingon, i Triboli), che però finiscono per rivolgersi unicamente ai profondi conoscitori di questo immenso universo filmico e televisivo: è questa la differenza più grande con il film del 2009, che si rivolgeva invece in egual misura a qualsiasi tipologia di spettatore grazie a uno sbalorditivo lavoro sugli intertesti.
Privo della straordinaria inventiva del capostipite, questo sequel sembra quindi arrancare nel tentativo di rilanciare la saga in maniera compiuta, finendo per rinchiudersi in un autocelebrazionismo elegante ma freddo: detto questo, però, non si può fare a meno di ammirare l’incredibile capacità di Abrams nel lavorare su un immaginario con lo scopo primario di rifondarlo, sprigionando così un’incontenibile sense of wonder pronto ad esplodere ad ogni sequenza, ad ogni inquadratura, ad ogni stacco di montaggio. Nonostante il tocco lievemente cerebrale, Into Darkness – Star Trek rimane ugualmente il blockbuster che vorremmo sempre vedere al cinema; non necessariamente in 3D però, di ottima qualità ma che davvero nulla aggiunge alla profondità già insita nelle immagini.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Into Darkness – Star Trek
Regia: J.J. Abrams
Sceneggiatura: Roberto Orci, Alex Kurtzman, Damon Lindelof
Fotografia: Daniel Mindel
Musiche: Michael Giacchino
Attori: Chris Pine, Zachary Quinto, Zoe Saldana, Karl Urban, Simon Pegg, Bruce Greenwood, Peter Weller
Anno: 2013
Durata: 133’
Uscita italiana: 12 giugno 2013

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KILLER IN VIAGGIO - Turisti senza ritorno

15/6/2013

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Killer In Viaggio (Sightseers), presentato a Cannes nel 2012 e vincitore del Leone Nero al Noir In Festival di Courmayer, è la classica “prova d’esame”, il film che consacra definitivamente oppure demolisce, dopo il buon esordio con la black comedy Down Terrace e, soprattutto, in seguito al clamore suscitato da Kill List (2011), inedito nelle sale italiane e tuttavia instant cult a livello internazionale, grazie al tam tam via web di chi l’aveva già visto, e ne parlava usando iperboli assolutamente positive. Un film che ha diviso, tra esaltazioni e stroncature, indubbiamente peculiare, di denso fascino e realizzato in modo egregio, nell’ambiguità di un sottotesto esoterico-cultista (memore dello splendido The Wicker Man di Robin Hardy) che sfociava nell’ormai celeberrimo twist finale.
Il britannico Ben Wheatley (classe 1972) prometteva dunque assai bene, sia come autore (la sceneggiatura era stata scritta a quattro mani con Amy Jump, coinvolta anche in Killer In Viaggio) che dietro alla macchina da presa. Del tutto naturale che il suo film successivo fosse al tempo stesso molto atteso e guardato con sospetto: il mondo del cinema è stato prodigo di fulgide meteore che si sono successivamente dissolte nel nulla, e Wheatley poteva essere una di queste. 
Partendo dal presupposto che Killer In Viaggio ha riscosso consensi quasi unanimi, si resta un po’ perplessi: sia durante che dopo la visione si realizza di aver fruito di un film sostanzialmente fragile e privo di nerbo, poiché le pecche sono davvero troppe per poter essere considerate trascurabili. Si parte abbastanza bene, tenendo il ritmo per la prima mezz’ora, ma si finisce per perdersi in soluzioni risapute e in una forte incertezza di registro: l’opera vorrebbe essere commedia nera ma non ci riesce, perché manca del sarcasmo necessario a renderla divertente e macabra al tempo stesso, restando perennemente in bilico sui registri di un tragicomico sostanzialmente inconsistente. 
Il plot è incentrato sulla storia di Tina (Alice Lowe) e Chris (un convincente Steve Oram): la donna, schiacciata da una madre soffocante e ossessiva, vede nell’uomo una via di fuga, che si concretizza nella libertà offerta da un viaggio in caravan. Ci si trova di fronte a un road movie basato sul black humor, ma la sceneggiatura (firmata dai due attori protagonisti e scritta ben sette anni fa) presenta il difetto di voler mettere troppa carne al fuoco, creando una prevedibile confusione. Nel corso del road-trip Chris si rivela essere tutt’altro che pacioso e rassicurante: dagli scatti d’ira agli omicidi per futili motivi il passo è breve, e Tina non si tira indietro, tentando di imitarlo e rivelandosi anche peggiore di lui.
Un canovaccio potenzialmente buono, anche se piuttosto prevedibile nel rovesciamento di una dinamica malsana, sprecato purtroppo da una superficialità di fondo che evita di analizzare i personaggi, lasciando tutto a pelo d’acqua; tingere di umorismo nero caratteristiche come le perversioni (il sesso qui è assai grottesco), i traumi e le nevrosi è impresa che richiede grande misura e abilità, ed è proprio in questo che il film fallisce, come in una ricetta in cui ogni ingrediente è mal dosato. I molti spunti sulla carta interessanti, ad esempio il rapporto tra Tina e la madre o il meccanismo che porta la donna a voler emulare il proprio compagno, vengono in fretta liquidati, offrendoci così un personaggio femminile appena abbozzato, quasi macchiettistico; Steve Oram riesce invece a essere efficace, ma il suo stesso script mette i bastoni tra le ruote alla figura di un killer maniacale, convinto di essere nel giusto, che avrebbe potuto risultare ben più graffiante e d’impatto. A differenza di Kill List, in cui l’aspetto dialogico era uno dei punti forti e dava forma a protagonisti assai ben delineati, verso i quali si era portati a provare empatia nonostante le loro azioni poco edificanti, qui le conversazioni sono fragili e stereotipate (con l’eccezione di alcune battute fulminanti e azzeccate), e i caratteri ritratti non lasciano un’impronta vera e propria.
L’abilità registica di Wheatley è comunque notevole, pur sfociando di tanto in tanto nell’autocompiacimento gratuito: eccellenti le due sequenze di omicidio a montaggio alternato, entrambe sulle note della splendida Season Of The Witch in versioni diverse (Vanilla Fudge e Julie Driscoll), che da sole valgono in pratica l’intera visione. Nel finale, tuttavia, lo schema suono/ralenty/montaggio inonda lo schermo di banalità, anche per via di una chiusa prevedibile.
Killer In Viaggio è, alla resa dei conti, un'opera troppo friabile, il cui risultato incerto ha con ogni probabilità risentito della tensione da “prova del nove”, dopo un successo tanto clamoroso quanto inaspettato. Nonostante gli entusiasmi diffusi dunque, un film che non può considerarsi riuscito, in quanto troppo indeciso sulla direzione da imboccare, proprio come in un viaggio on the road in cui si percorre la strada sbagliata.

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Sightseers
Anno: 2013
Regia: Ben Wheatley
Sceneggiatura: Alice Lowe, Steve Oram, Amy Jump
Fotografia: Laurie Rose
Musiche: Jim Williams
Durata: 88'
Uscita in Italia: 13 Giugno 2013
Interpreti principali: Alice Lowe, Steve Oram, Eileen Davies, Monica Dolan, Jonathan Aris

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IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE - Mondi a confronto

14/6/2013

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Changez Khan (Riz Ahmed), a ridosso di alcune manifestazioni studentesche a Lahore, si fa intervistare dal giornalista americano Bobby Lincoln (Liv Schreiber), un soggetto dai forti tratti d’ambiguità che si paleserà solo in seguito quale spia della CIA mandata a scoprire il nascondiglio di un professore suo connazionale che è stato vittima di rapimento. Il dialogo tra i due diventa così il cuore centrale del film, il racconto dell’odissea umana e professionale che ha portato Changez a spostarsi dalla prestigiosa Princeton al polo universitario di Lahore; un passaggio non da poco, da uomo di finanza di primissimo livello a terrorista capace di generare proseliti tra i giovanissimi.
Il fondamentalista riluttante, nuovo film della regista indiana Mira Nair scelto come apertura dell’ultimo festival di Venezia, è un progetto che nelle mani dell’autrice di Monsoon Wedding si è venuto a caricare di una valenza identitaria e culturale ben maggiore di quella che gli sarebbe toccata in sorte qualora fosse stato affidato a un altro regista. Il romanzo di partenza, l’omonimo bestseller di Mohsin Hamid, presenta infatti stimoli tematici decisamente affini al percorso biografico della Nair, sospesa tra due mondi diversissimi e antitetici quale l’America, patria lavorativa, e l’India musulmana in cui è nata, da padre pakistano. 
La regista di Salaam Bombay! si carica della dicotomia senza timori ed esitazioni, ed è palese come il progetto in questione sia volutamente deputato a un confronto diretto e sovrapposto tra le due differenti anime che hanno contraddistinto la sua formazione. Un binomio sul quale installare, vista la materia del romanzo (narrato in forma di monologo), ambiziosi stimoli alla riflessione su due maniere diverse d’intendere il mondo che si rispecchiano anzitutto in due sistemi di gestione economica contrapposti. Nell’ascesa e nella parallela, consequenziale caduta delle ambizioni di Changez, dapprima rampante e prestigiosa promessa accademica e in seguito sbrigativamente bollato come fondamentalista a seguito dell’ondata di pregiudizi e riluttanza successiva all’11/9, c’è tutta la malia sospettosa e ambivalente di un sogno americano cangiante e sempre pronto a tendere ispidi sgambetti. La carriera del giovane Changez sembrava inarrestabile, vista anche la relazione amorosa con la figlia del direttore (un’insolita Kate Hudson, bruna, nei panni di una seducente artistoide), eppure il meccanismo non solo si è inceppato, ma adesso finisce col svelare anche un funzionamento velenoso e un’anima sibillina e assai poco affidabile.
La Nair, a riprova dell’indubbia matrice romantica e passionale che giace alla base del suo cinema, evidenzia come lo scarto definitivo che muta il bravo e diligente studioso in un terrorista implacabile risieda nella delusione amorosa, nella decadenza affettiva ancor prima che in quella personale e professionale. Pone l’accento sull’affezione per il pregiudizio che contraddistingue entrambe le culture fatte scontrare sul ring, con pesanti concessioni alla spettacolarizzazione all’americana più abusata e a un certo sensazionalismo drammaturgico. Il metodo d’analisi, com’è facile immaginare, è a dir poco grossolano, e si appoggia su snodi concettuali di grana grossissima, quasi conducendo lo spettatore per mano passo dopo passo. Sconfessando i rispettivi stereotipi delle due diverse fazioni la Nair prova ad andare espressamente contro le visioni prigioniere di preconcetti e manicheismi dati per assodati, sguazzando anche in una durata forse eccessiva (130 minuti, non pochi e di sicuro non tutti strettamente necessari).
Ma nonostante prevedibilità e ingenuità di varia natura, il film riesce a girare a una velocità comunque superiore ai propri stessi limiti e alla modestia intellettuale dell’operazione e delle idee preposte a sostenerla, centrando una discreta riuscita quasi action, equilibrata con sapienza tra thrilling e entertainment. Il tutto con sorprendente orgoglio e piglio, a dispetto del didascalismo imbonitore, telefonato e meccanicamente prevedibile dal primo all’ultimo passaggio.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The reluctant fundamentalist
Regia: Mira Nair 
Sceneggiatura: William Wheeler (dall’omonimo libro di Mohsin Hamid)
Fotografia: Declan Quinn
Montaggio: Shimit Amin
Attori: Riz Ahmed, Kate Hudson, Liev Schreiber, Kiefer Sutherland, Om Puri, Shabana Azmi, Martin Donovan
Anno: 2012
Durata: 130’
Uscita italiana: 13 giugno 2013

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LA LEGGENDA DI KASPAR HAUSER - Atti di resistenza

13/6/2013

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Se c’è un regista che continua a fare film d’arte in Italia, quello è proprio il milanese Davide Manuli, il più anacronistico dei nostri autori, il solo (di fatto, con buona pace dell’approssimazione) a sfidare il mercato e il sonno della ragione del pubblico con esperimenti estremi di cinema-cinema purissimo. 
La leggenda di Kaspar Hauser continua là dove Beket finiva, nel medesimo solco di incomunicabilità ostentate e tensione tutta estetica. Un vero e proprio primo tempo, un preludio al disfarsi totale della consequenzialità narrativa che trova in Kaspar Hauser un’estremizzazione e un compimento ancora più totali. Due opere dialoganti che sono due facce della stessa medaglia se prese separatamente e che insieme si fondono in un binomio catalogabile quale cristallino atto di resistenza: al mercato, all’industria, all’inflazionato e polveroso orizzonte sepolcrale del cinema italiano contemporaneo.
In Kaspar Hauser si prosegue per smembramento successivo, si scarnifica tutto fino all’osso, si mira a restituire la nebulosa e affascinante aura di leggenda che si confà a questa storia ma senza per questo negare il piacere pieno e compiuto della visione. Una gioia che deriva tutta dalla contemplazione di un’immagine iper-costruita e iper-rifinita, una groviera di suggestioni che non esiste oltre se stessa e che solo all’interno delle sue giunture e non fuori può trovare il suo centro e la sua ragion d’essere. Motivo per cui Kaspar Hauser, nella sua progressiva e incessante negazione della sovrastruttura, è di gran lunga più immediato e meno intellettualistico di quanto fosse Beket: in questo caso i simboli si scorporano dal loro significato allegorico relegandolo ancor più misteriosamente in una galassia parallela lontana e inaccessibile; a differenza di quanto accadeva nel precedente film di Manuli, in cui la dimensione metaforica della curiosa rilettura di Aspettando Godot alludeva passaggio per passaggio, suggeriva letture tra le righe, urlava chiavi di senso e spingeva lo spettatore a ricavarne altre e ancora altre in continuazione. Kaspar Hauser non ha questa pretesa, o meglio, si fa cosciente del superamento di questa sua funzione di medium immediato. 
Partendo da questa consapevolezza Manuli orchestra un film che è bombardamento sensistico ancor prima che incedere narrativo e drammaturgico, ricollocazione sospesa nel tempo della celebre vicenda trasposta, tra gli altri, da Werner Herzog. Una versione atipica in cui il Drago, il Prete, la Veggente e la Duchessa diventano archetipici viandanti. Costoro sì, assai affini all’umanità surreale e inclassificabile di Beket nel loro essere sottratti alla dimensione eterna del Mito. Kaspar Hauser però va ben oltre l’astrazione metafisica dei suoi elementi e la trasformazione dei personaggi in moncherini cerebrali che diventano veicoli di stordimento sensoriale e trip allucinatori. È un film che cavalcando il suo spessore eminentemente cinematografico raggiunge la trascendenza del gesto filmico inteso come atto rivoluzionario, come inno di speranza intonato in una terra nullificata, in cui ogni orizzonte futuro sarebbe in teoria negato per sempre.
L’inizio de La leggenda di Kaspar Hauser è folgorante, un prologo che denuncia fin dalle primissime inquadrature la sua natura ibrida e western. Deserti sentieri di casupole avvolte in un bianco perlaceo e lattiginoso (lo stesso di tutto il film, e lo si deve alla bellissima fotografia in bianco e nero di Tarak Ben Abdallah) e un’invocazione lasciata cadere nella non risposta: il miglior preludio che si possa immaginare per il duello tra le due anime sdoppiate del funambolico e schizoide Vincent Gallo, uno degli autorattori più sperimentali del cinema contemporaneo, qui diviso tra il ruolo dello sceriffo e quello del pusher, col tic dell’onnipresente “oh yeah!” ad accompagnarlo in modo irresistibile. Accento texano e casco in stile Daft Punk, è lui che oltre a sorvegliare il femmineo Kaspar (una sorprendente Silvia Calderoni, scommessa azzeccatissima) ne cementifica l’educazione sentimentale a suon di techno e cuffie da Dj, il tutto sulle note magmatiche e magnetiche dei Vitalic, che ravvivano ogni suono bussando rumorosamente alle porte del paradiso. 
L’artificialità del synth reiterato non è un mero dato musicale, ma è anche e soprattutto cifra stilistica di un film che come Beket fraziona e smantella un intero immaginario e dà vita a dei cocci isolati di istantanea e folgorante bellezza, una meraviglia attraversata dalla forza stordente di un viaggio (anche) musicale a dir poco entusiasmante. Un concerto avvolgente e avvincente che rapisce lo sguardo fin dai titoli di testa dai caratteri molto sgranati e che poi lega a sé lo spettatore attraverso una sarabanda di piani sequenza controllatissimi e calibrati e di oggetti griffati, emblemi di una regia pittorica, minimalista e sorvegliata.
Tra western e sci-fi, La leggenda di Kaspar Hauser è un film che pretende moltissimo dallo spettatore ma lo ripaga con una sinfonia di rara bellezza di fronte alla quale le parole decadono e lasciano il posto a ben altro. Un’opera che si fa dono a potenziali essere pensanti e guardanti che non si scandalizzino con provinciale bigotteria per l’eccentricità fuori dai canoni, ma che sappiano (ac)coglierne la potenzialità devastante, il sublime senso di smarrimento di chi conosce la chiave per una salutare sospensione dell’incredulità e la stereotipia marmorea e statuaria di personaggi che sembrano ologrammi frutto di allucinazioni nel deserto e che come tali non hanno l’impellenza di una coerenza e di una caratterizzazione psicologica. Perché in fondo hanno già ucciso se stessi e fatto a pezzi il loro mondo, e dunque partono già da una dimensione di post-corpo, finendo con l’aspettare, per colmo di paradosso, ciò che c’è già stato (il prete cowboy di Fabrizio Gifuni che parla e parla di un Messia che ha da venire…). 
Kaspar Hauser è, insomma, un film di fronte al quale perfino la critica propriamente detta può prendersi una pausa salutare. Manuli, d’altronde, è un folle che molti vi faranno passare per un regista da custodia cautelare immediata, e proprio per questo il suo magistero è tanto più prezioso. Il suo cinema, che si concede con sprezzo del didascalismo perfino l’ovvietà del nome del protagonista riportato sul petto dello stesso, non avrebbe neanche bisogno di spiegazione, a dire il vero, e ogni esegesi non può che essere in questo caso un mero atto inerziale. Kaspar Hauser è un’opera che prima di ogni altra cosa va vista e goduta appieno, autosufficiente perché capace di sopravvivere e di nutrirsi solo di se stessa e di nient’altro, senza necessità di diete, bilancini e integratori vari, o tanto meno di parafrasi esplicative. In una parola: perfetta.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema

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Scheda tecnica

Regia: Davide Manuli
Sceneggiatura: Davide Manuli
Fotografia: Tarek Ben Abdallah 
Montaggio: Rosella Mocci
Attori: Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Elisa Sednaoui, Fabrizio Gifuni, Marco Lampis, Claudia Gerini 
Anno: 2012
Durata: 95'
Uscita italiana: 13 giugno 2013

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P.O.E. - La poesia del lugubre

8/6/2013

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Otto registi per altrettanti, brevi adattamenti da racconti di Edgar Allan Poe, ripensati alla luce di una sensibilità horror underground tutta italiana. Suonano stimolanti le premesse di P.O.E. – Poetry of Eerie, film collettivo che recupera un autore letterario già ampiamente saccheggiato da cinema e arti figurative e prova a ricontestualizzarlo in chiave artigianale, facendo di necessità virtù, tentando di sopperire alla penuria dei mezzi con l’inventiva a tutto campo. Operazione di sicuro affascinante e apprezzabile per ambizioni e intenzioni, un vero unicum nel panorama sonnacchioso delle nostre produzioni, per le quali l’horror è un genere ormai tabù. Non stupisce, dunque, che P.O.E. sia targato Distribuzione Indipendente, una società che negli ultimi mesi si è già imposta quale piacevole realtà, fattasi notare in fretta per la fresca vitalità delle scelte e la propensione a proporre titoli che altri canali di diffusione nelle sale decisamente più canonici non si arrischierebbero mai a far propri.
Silenzio, La sfinge, La verità sul caso Valdemar, Le avventure di Gordon Pym, L'uomo della folla, Il gatto nero, Il giocatore di scacchi di Maelzel e Canto. Sono i titoli degli otto cortometraggi (in origine erano tredici, ma Distribuzione Indipendente li ha ridotti per l'uscita in sala, i restanti cinque saranno compresi nella versione integrale visibile dal 14 Giugno su ownair.it), frammenti scomposti di cinema sotterraneo nostrano, quello che ormai non siamo più abituati a vedere o tantomeno a pensare ci possa appartenere. Tale spiacevole realtà, e la nostalgia per un genere che abbiamo ormai smesso di fare e di esportare all’estero da circa un ventennio (per lo meno a certi livelli, perché i sottoboschi sono duri a morire), non devono però automaticamente condurre all’esaltazione sperticata di qualsiasi sussulto di vita si intraveda all’orizzonte. Si rischia altrimenti di accontentarsi di poche raffazzonate briciole, che non possono di sicuro bastare, contribuendo così ad allontanare ulteriormente una reale prospettiva di rinascita del genere, cosa che già di per sé appare oggigiorno chimerica e alle soglie dell’impossibilità.
P.O.E., in tal senso, somiglia più che a quelle poche briciole che a un’autentica ventata d’ossigeno. Dello scrittore bostoniano è rimasto praticamente soltanto l’acronimo che lo evoca nel titolo e poco altro; per il resto di episodio in episodio si assiste a un puntuale smembramento dei tessuti letterari, tematici e perfino atmosferici dell’autore, smantellati e diventati evidentemente altro. Ogni possibile approccio filologico o qualsivoglia recriminazione da fan o amanti traditi è dunque da evitare in partenza, non essendo l’approccio dei registi di P.O.E. in alcun modo rispettoso. Quelli di Poe diventano piuttosto dei pre-testi, dei punti di partenza più o meno vaghi e di sicuro mai vincolanti per addensare suggestioni horror che spaziano dal metafisico al mefitico: uno stravolgimento che si inabissa in una fumosa e spesso pretestuosa orchestrazione autoriale, a tratti perfino un filo velleitaria. L’accozzaglia dei diversi stili è difficilmente digeribile, e dà piuttosto l’idea di un film privo di un centro, una sorta di giustapposizione in cui le diverse vocazioni, sebbene ci abbiano provato, non hanno in realtà dialogato tra loro.
P.O.E. è un film spezzettato anche all’interno dei singoli frammenti; si finisce pertanto a racimolare quei pochi momenti salvabili o degni di memoria che si contano sulla punta delle dita, isolatissimi, di sicuro troppo pochi per strappare la sufficienza. Si mira ad un chiaro ingrandimento della percezione, a dilatare le prospettive sensoriali dello spettatore e il raggio d’azione entro cui esse potrebbero concretamente materializzarsi. Tale espansione non è però mai adeguatamente supportata da una necessità o una funzionalità dei mezzi espressivi utilizzati: il risultato finale è una copia sbiadita di ciò che l’horror dovrebbe essere, una serie di tòpoi sgangherati che complice l’uso massiccio e fastidiosissimo della voce off fanno pensare più a un trailer di Maccio Capatonda che ad altro. C’è perfino qualche calata dialettale nell’inflessione degli attori, a riprova di una sciatteria davvero difficilmente perdonabile. Stemperarla col buffetto affettuoso di chi sa quanto sia difficile fare certi film con così pochi mezzi non equivale assolutamente a fare un buon servizio, né al nostro panorama horror (definizione quanto mai rabberciata) né ai registi di P.O.E. nello specifico.
Essere gli unici o quasi a pensare una determinata tipologia di prodotto o essere alfieri di un cinema di genere comunque prezioso e resistenziale non equivale necessariamente a dover ricevere lodi sperticate a tutti i costi, se poi il risultato pecca di un cripticismo dilagante e immotivato, di un gusto per la scarnificazione del materiale di partenza che tradisce incomprensibili pretese autoriali. Specie laddove un’onesta ma non per questo vuota matrice di genere sarebbe stata invece la veste ideale per questo tipo d’operazione. D’altronde, se ci pensiamo bene, era proprio lo spessore intellettuale (inteso come intelligenza, trasversalità, capacità di sapersi muovere e spaziare) del nostro cinema di genere ad averci reso i sovrani assoluti della categoria nei tanto rimpianti tempi gloriosi che furono. L’unione fa la forza, e coalizzarsi è sempre meglio che farsi inutili e controproducenti guerre tra poveri. Ma nonostante ciò, e anche se gli si vorrebbe voler bene, P.O.E. risulta un’operazione difficile da salvare.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema

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Scheda tecnica

Regia: Domiziano Cristopharo, Giovanni Pianigiani e Bruno di Marcello, Paolo Gaudio, Alessandro Giordani, Paolo Fazzini, fratelli Capasso, Edo Tagliavini, Yumiko Sakura Itou
Cast: Luca Canonici, Angelo Campus, Laura Gigante, Mariano Aprea, Marco Borromei, Gianluca Russo, Lorenzo Semorile, Dario Biancone, Sara Cennamo, Alessandro Garavini, Gerardo Lamattina
Anno: 2011
Durata: 80'
Uscita italiana: 7 giugno 2013 (sale circuito Distribuzione Indipendente), 14 Giugno 2013 (on demand su www.ownair.it in versione integrale)

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HOLY MOTORS - L'eterna maschera della vita

5/6/2013

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Maggio 2012: Holy Motors è presentato al Festival di Cannes; raccoglie entusiasmi e consensi quasi unanimi da parte della critica, resta clamorosamente escluso dal palmarès, ma torna comunque a casa con la palma di vincitore “morale” della manifestazione. Novembre 2012: il film di Leos Carax, ex enfant prodige del cinema francese, passa in anteprima italiana al benemerito Torino Film Festival; una fetta di pubblico si dimostra perplessa, ma innumerevoli e scatenate sono le lodi che arrivano da appassionati e addetti ai lavori. Primavera 2013: il Bergamo Film Meeting e il Mosaico Festival di Ravenna lo inseriscono in cartellone. Giugno 2013: Holy Motors esce nei cinema; alleluia, meglio tardi(ssimo) che mai.

Per chi ancora non l'avesse visto, riassumerne la trama è operazione quasi impossibile, oltreché superflua: vi sia sufficiente sapere che il protagonista, Oscar, viaggia tutto il giorno per le strade di Parigi, a bordo della sua limousine, scortato dalla fedele autista. Il tragitto è intervallato da numerose soste, durante le quali Oscar scende dal mezzo per dare vita a una lunga serie di "appuntamenti", che altro non sono se non scene di finzione, nelle quali l'uomo interpreta di volta in volta personaggi surreali e assai differenti. È un meccanismo eterno, intoccabile, immodificabile, che si ripete ieri, oggi e domani, senza un inizio né una fine.
Metacinema allo stato puro: Holy Motors, volando oltre l'apparente bizzarria della messinscena, scava nel solco di un discorso di rara profondità, in cui si attua una dolorosa riflessione di carattere linguistico e ideologico, volta a profanare una volta per tutte l'atavica divisione tra realismo e creazione artistica. Come il Calvero del chapliniano Luci della ribalta, Oscar vive per un ruolo e tanti ruoli, per una maschera e tante maschere, esaltando sino al parossismo un mestiere che collima con la vita stessa. Nella sua auto l'attore si trucca e si strucca, si veste e si riveste, cambia aspetto in ogni istante, e senza soluzione di continuità si fa uno, nessuno e centomila, glorificando l'atto stesso della recitazione come sublime metafora del (non) senso dell'esistenza. 
Così, di volta in volta, l'uomo muta pelle e anima, e diventa una vecchina storpia in cerca di elemosina; una sorta di cyber-ninja alle prese con sesso simulato in motion capture; un disgustoso mostro (Monsieur Merde) che rapisce una modella in un cimitero dove ogni lapide mostra l'indirizzo web del defunto, e la porta via per poi addormentarsi dolcemente tra le sue gambe con il pene in erezione; un padre di famiglia alle prese con la quotidianità della figlia; un sicario senza scrupoli; un anziano morente accudito dalla nipote. E poi ancora, e ancora: mille film mescolati insieme, e mille simulacri in un unico corpo, quello di Denis Lavant, eccezionale trasformista il cui scheletro diventa materia da plasmare, muovere e disfare con vorace ambizione, come accadeva  per gli atleti cronofotografati dal precursore dell'arte cinematografica Étienne-Jules Marey.
Scatenato, eccentrico, incontrollabile, geniale; dentro Cosmopolis e molto più in là: Holy Motors supera qualsiasi restringente definizione stilistica, per farsi universale messaggio di strazio e disperazione. Un urlo muto racchiuso nella crescente spossatezza di Oscar, condannato ad abiurare ogni logica di normalità per proseguire nella sua imperitura missione, guidata da una non ben definita associazione di cui fa parte Michel Piccoli, totem che appare e scompare dopo pochi minuti lasciando comunque una traccia indelebile.
Il mondo di Carax è un terreno mistico dove anche le auto, di notte, comunicano tra loro, dimostrando di possedere intelletto e sentimenti; dove ogni persona indossa un costume e si camuffa, ora e sempre; dove ogni gesto accoglie simbolismi che aprono direzioni inattese. Dentro al cinema, e fuori nelle strade. In silenzio e nel caos, al ritmo di una meravigliosa fisarmonica suonata in una cattedrale. Senza più barriere tra verismo e impostura. Come la vita, oltre la vita. Un capolavoro memorabile.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Holy Motors
Regia: Leos Carax
Sceneggiatura: Leos Carax
Fotografia: Caroline Champetier, Yves Cape
Montaggio: Nelly Quettier
Attori: Denis Lavant, Édith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Michel Piccoli
Anno: 2012
Durata: 116'
Uscita italiana: 6 giugno 2013

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FIAMME DI GADDA - A spasso con l'ingegnere

3/6/2013

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«Il fuoco non potè fare a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville». 

Sull'onda delle parole de “L'incendio di via Keplero” s'infiammano i primi fotogrammi di Fiamme di Gadda. A spasso con l'ingegnere restituendo un effetto visivo vivo, come se di fronte a noi ci fosse una pellicola che sta andando a fuoco incendiata dalla lingua dello scrittore milanese.  
Mario Sesti, regista e autore di soggetto e testi, sceglie di partire dal racconto sul fuoco del numero 14. Nell'atmosfera del Teatro Valle Occupato la parola è in bocca a Pino Calabrese. L'attore napoletano con abilità cavalca le fiamme del vortice linguistico e, facendosi sottile portavoce di Sesti, dichiara la strada che il documentario ci farà percorrere andando a spasso con l'ingegnere.
Dopo un alternarsi di fiamme in b/n e a colori, da uno sfondo infiammato e in b/n si staglia la figura di Sergio Rubini, che con una lucidità disarmante ci guarda, pronto a raccontarci attraverso le parole di Sesti il Gadda autore e non solo. «Non sempre i nomi dei fatti generano chiarezza», si dice: Carlo Emilio Gadda in qualità di ingegnere sognava di ordinare il mondo, e con il suo cuore di scrittore ne raccontava il caos. In lui convivevano due anime, apparentemente ossimoriche, che davano vita a quello che è stato definito “uso spastico” della lingua, quasi a voler dare corpo agli spasmi della vita.
Fotogramma dopo fotogramma si va a spasso con il gran lombardo, grazie alla passeggiata col critico teatrale Maurizio Barletta, il quale da bambino aveva avuto modo di conoscere Gadda perché amico di famiglia. Optando per la macchina a mano, così da calcare anche l'atto del camminare, Sesti si fa guidare da Barletta nel ripercorrere il tragitto che Gadda faceva nelle sue domeniche romane. Fedele alla passeggiata da piazza Cavour a piazza Mazzini, scopriamo che Gadda si fermava alla «fontana prostatica» di piazza dei Quiriti e alla pasticceria nel quartiere Prati per prendere il babà per la signora Lina; tra i clacson del traffico romano, incontriamo cittadini a cui è stato tramandato l'aneddoto secondo cui il gran lombardo avesse l'abitudine di appostarsi fuori dalla chiesa per osservare le donne uscire da messa. I racconti, si sa, producono viaggi mentali: così ce lo immaginiamo che marcia ora «un po' marziale» ora «aggrondato», per poi vederlo comporsi nel suo metro e ottantadue sottoforma di disegno animato (Annalisa Corsi); apprezzabile, in tal senso, la coesistenza all'interno di uno stesso quadro tra animazione e testimonianze di coloro che hanno lavorato su Gadda.
Il critico cinematografico autore di Fiamme di Gadda decide, infatti, di farsi (e farci) traghettare in questa lavagna della memoria da coloro che hanno già impastato le mani nel magma gaddiano. Appena compare Gifuni non può non tornarci in mente il suo meraviglioso spettacolo “L'ingegner Gadda va alla guerra”; da fine interprete qual è avvertiamo come il suo lavoro in teatro – e non solo - gli abbia permesso di captare l'essenza dell'autore tanto da farci notare che i suoi scritti sono la testimonianza tangibile di «come un dolore fortissimo possa essere trasformato in una creazione». 
Unendo le riflessioni di Gifuni, le parole di Rubini (nelle veci di Sesti), le ricerche della professoressa Paola Italia e i pensieri di Pino Calabrese, un ritratto si compone davanti a noi: quello di un uomo sopravvissuto a se stesso dopo la ferita immedicabile della morte del fratello Enrico. L'autore che ha raccontato la guerra e il fascismo, l'uomo-scrittore che ha affondato l'inchiostro nell'io fino a scrivere «senza stagione la vita, e senza gioia», non ci ha lasciato alcuna traccia di una relazione amorosa. Un'aurea di mistero avvolge la sua sfera privata, tutto sembra cristallizzato nel nucleo famigliare. Sesti ci regala a tal proposito chicche di foto di Gadda e della famiglia a cui unisce frammenti di un super8 (totalmente inediti) dove lo scrittore è con la famiglia di Giuseppina Liberati, la governante che lo accudì negli ultimi anni.
Uscito proprio il 21 maggio, a quarantanni dalla morte, Fiamme di Gadda ha fatto rivivere l'autore rifuggendo dal mero biopic e dal didascalismo. Per raccontare il plurilinguilismo incendiario e incandescente dello scrittore, Sesti costruisce una struttura da cui emerge anche la natura di critico cinematografico (vedi, ad esempio, la citazione di Life of an american fireman). Il suo lavoro si rivela così un pastiche di materiali (testimonianze, foto, testi originali e brani dalle opere dell'autore milanese) equilibrato dall'uso di vari linguaggi come la ricerca documentaristica, il teatro, l'animazione.
Riavvolgendo il gomitolo della memoria torniamo all'incipit, alla ripresa della lettura pubblica di Calabrese de “L'incendio di via Keplero”, riproposta quasi integralmente - forse, si sarebbe potuta tagliare un po' guardando alla struttura complessiva del doc – ma alternata da inserti che creano un film nel film mettendo in scena quelle parole.
Grazie al teatro, agli audiolibri (vedi la lettura di Gifuni di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”) e ora a Fiamme di Gadda, ci auguriamo che si continui ad andare oltre alla critica letteraria (per quanto sia importante), battendo strade che arrivino più direttamente a un'ampia fascia di pubblico, per poter scoprire un uomo che si definiva «un'infelice e sola creatura», e un artista in grado di dar voce al treno e alle galline.

Maria Lucia Tangorra

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Fiamme di Gadda. A spasso con l'ingegnere
Anno: 2012
Durata: 72'
Regia: Mario Sesti
Animazioni: Annalisa Corsi
Fotografie ed elaborazioni fotografiche: Elisabetta Marangon
Riprese ed elaborazioni immagini: Virginia Eleuteri Serpieri
Musiche: Teho Teardo
Con: Maurizio Barletta, Pino Calabrese, Fabrizio Gifuni, Paola Italia, Sergio Rubini
Uscita italiana: 21 maggio 2013 

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