ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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YOUTH - LA GIOVINEZZA - Guardare ed essere guardati

19/5/2015

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La prima inquadratura di Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino riesce in qualche modo, in maniera involontaria e un po’ sorprendente, a racchiudere dentro di sé l’essenza del film nella sua totalità. Qualcosa di simile succedeva, per restare al cinema recente, anche nel prologo di Only Lovers Left Alive, che attraverso la suggestione di un giradischi in funzione riproduceva l’inquietante e ipnotica circolarità del film di Jarmusch. 
In questo caso abbiamo il volto in primo piano di una donna che canta, mentre gli altri musicisti rimangono sfocati in fondo all’immagine, indistinguibili e non riconoscibili (il gruppo, originario di Manchester, si chiama The Retrosettes Sister Band ed esegue You got the Love, cover dei Florence + The Machine). Intuiamo però che la band sta suonando su una pedana girevole, posta all’interno del giardino del lussuoso hotel sulle Alpi in cui il film è ambientato, perché le facce fuori fuoco che sono in campo cambiano e si susseguono una dopo l’altra alle spalle della cantante.

Youth è già tutto qui: un film in cui c’è sempre qualcuno o qualcosa (un personaggio-maschera, una situazione ironica o paradossale, un virtuosismo registico e fotografico) in primo o primissimo piano che, a seconda dei casi e delle circostanze, ruba la scena al resto, focalizza su di sé tutta l’attenzione, declama, tira fuori frasi sentenziose e massime apodittiche, si pone in direzione dei riflettori e si gode il suo momento di gloria, di sequenza in sequenza e di scena madre in scena madre. Chi in quell’istante non è sotto le luci della ribalta, perché non tutto può essere illuminato contemporaneamente dal faro principale, nemmeno nel cinema saturo e sovraccarico di Paolo Sorrentino che tutto abbraccia e frulla insieme, non fa altro che osservare quanto accade a due passi da sé in modo talvolta partecipe ma più spesso distaccato, tra vago interesse e amaro disincanto. Resta sfocato e distante, proprio come i musicisti della prima inquadratura che osservano la propria frontman cantare, mentre la pedana gira su se stessa e ruota vorticosamente, esattamente come il film del quale essa è a conti fatti una metafora plastica e un simbolo perfetto.

I personaggi del settimo film di Sorrentino sono tutti osservatori e allo stesso tempo osservati, delle creature circensi e artefatte ora tacite ora sproloquianti, ora seminascoste nell’ombra ora intente a pontificare sui massimi sistemi e sulle proprie vite con la sicurezza di chi sa guardarsi dentro con affilata e disarmante onestà ma, come il regista, proprio non sa rinunciare a una certa autoindulgenza. Il loro buen retiro nell’albergo svizzero in cui risiedono è tutto all’insegna dello spiare gli altri e dell’essere adocchiati da chi sta loro accanto, non per voyeurismo ma perché solo provando a intuire da lontano i sentimenti altrui si può riuscire a fare i conti in modo più schietto con se stessi, con le proprie aspirazioni messe a dura prova dal tempo che passa e dai bilanci obbligati di carriere e percorsi artistici giunti in un modo o nell’altro al capolinea e costretti a scendere a patti con l’autunno - o forse con l’inverno, vista l’ambientazione - dell’esistenza. Una sorte crepuscolare che, emblematicamente e non casualmente, caratterizza tutti i personaggi di Youth. Dei guardoni, sì, ma tutto sommato piuttosto bonari.
Il divo californiano interpretato da Paul Dano sbircia la quotidianità di Fred Bellinger, il compositore impersonato da Michael Caine; quest’ultimo e il regista Mick Boyle (Harvey Keitel), durante i pasti, si soffermano di continuo su una coppia di vecchi che non spiccica una parola; la figlia di Fred (Rachel Weisz) rivolge lo sguardo al padre che si scaglia con violenza contro l’emissario di Buckingham Palace perché non vuole suonare le sue celeberrime Simple Songs al cospetto della Regina e nel frattempo piange fuoricampo; lo stesso Fred si commuove, non inquadrato se non alla fine del monologo della figlia (tutto in primo piano, ancora), mentre costei gli vomita addosso tutte le sue colpe e la sofferenza che ha causato alla famiglia e alla sua povera madre con la sua strafottenza d’artista.

Perfino lo spettatore, in Youth, guarda (naturalmente) ed è al contempo guardato, da uno stile che ammicca senza sosta nella sua direzione, che non perde occasione per affermare il magistero della sua perfezione formale, che accumula un gorgo di immagini sensoriali e rutilanti senza mai fermarsi un attimo, perché rifiatare anche solo un secondo equivarrebbe a sciogliersi come neve al sole, a far crollare un castello di sabbia già di suo fragilissimo. Perché forse guardarsi allo specchio, ovvero contemplare il proprio ombelico e riflettersi nella propria ambizione elevata a potenza, sarà sembrato a Sorrentino più importante, al colmo del paradosso, che lasciarsi guardare per davvero da qualcuno, senza filtri e mascheramenti.
È per questo motivo che Youth, come nessun altro suo film precedente, irrita e tiene estranei, infastidisce e respinge, inducendo inevitabilmente a chiamarsi fuori da una giostra folle, in senso tutt’altro che positivo, in cui alto e basso, sublime e infimo, si fondono e si attraggono non per necessità ma in virtù di un gusto manipolatorio e fine a se stesso per lo spiazzamento e per la deformazione. Una vocazione in cui una sinfonia può coincidere coi versi di una mandria con sprezzo del pericolo, se solo lo si vuole, e le microunità in cui è segmentata la narrazione, vista la totale autoreferenzialità di ogni singola parte, cozzano le une contro le altre e fanno franare rovinosamente l’insieme, che oltretutto si smarrisce tra una miriade di piccoli personaggi di contorno inutili e grotteschi, alcuni anche molto giovani.

Youth, complice questa volontà liberatoria di concedersi tutto e il contrario di tutto (i videoclip tamarri e le dive ingrate, il cattivo gusto e le citazioni più disparate e pretenziose, addirittura dei riferimenti ai gala di beneficenza a Cannes) si limita a vivacchiare a ridosso dei suoi stessi piaceri proibiti e gratuiti, che nella stragrande maggioranza dei casi sono vizi autoriali che ostruiscono in maniera compiaciuta qualsiasi barlume di credibilità. Il risultato è un film tronfio che costeggia stancamente, e con ottusa miopia, una copia calligrafica e sbiadita di quella vita che desidererebbe raccontare, più che restituirne la stanchezza e l’apatia.
In quest’affresco così compromesso non stupisce allora che la leggerezza, che si vociferava dovesse essere una delle massime caratteristiche del nuovo Sorrentino, appaia anch’essa, come si dice in uno dei tanti scambi di battute del film, nient’altro che una perversione: una chimera da inseguire ma che la mano pesante e il tratto spesso di Sorrentino possono solo distorcere e alterare, rendendo le motivazioni che dovrebbero animare questa ricerca abbastanza dubbie e insincere e riuscendo a muovere la macchina da presa meno del solito neanche per metà film. Trasformando anche le linee di dialogo e le scene più emotive e dirette, che potevano arrivare al cuore senza mediazioni e avevano tutte le carte in regola per farlo, in vezzi sfiancanti, coccolati con una goffaggine così esasperata da risultare addirittura tetra.
Se con La grande bellezza Sorrentino aveva firmato un film tanto incostante quanto pieno di ''sparuti sprazzi'' di luce autentica e di sconfinata forza, con Youth realizza invece un'opera solo e soltanto scostante e nociva, che porta al parossismo un'involuzione manieristica sconcertante e va a sbattere. Inevitabilmente.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Youth
Anno: 2015
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino 
 Fotografia: Luca Bigazzi
Durata: 118’
Interpreti principali: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda, Madalina Ghenea
Uscita italiana: 20 maggio 2015

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CALVARY - Via Crucis in sette giorni

18/5/2015

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Padre James (Brendan Gleeson) è il sacerdote di un paese sulla costa irlandese. Una domenica, durante una confessione, un parrocchiano lo minaccia di morte. Il prelato non è in grado di riconoscere la voce del suo assassino e dalla grata del confessionale non riesce nemmeno a guardarlo in faccia. L'omicida gli racconta che in gioventù subì abusi sessuali da parte di un prete e vuole dunque vendicarsi uccidendo un esponente della Chiesa Cattolica. La scelta è caduta su di lui perché non ha fatto nulla di sbagliato: è una brava persona, la cui morte toccherà la coscienza di numerosi fedeli. Lo sconosciuto gli concede infine sette giorni per mettere ordine nella sua vita terrena; poi, tornerà ad ammazzarlo sulla spiaggia. Comincia così per Padre James una settimana di autentica passione, durante la quale incontrerà i suoi compaesani e discuterà con loro per cercare invano di scoprire chi desidera eliminarlo. A complicare la già di per sé drammatica situazione contribuirà l'arrivo della figlia Fiona (Kelly Reilly), che non ha mai perdonato al genitore di averla abbandonata per abbracciare il sacerdozio.

Dopo l'esordio con il piacevole The Guard (uscito in Italia con l'ignobile titolo Un poliziotto da happy hour), il regista e sceneggiatore anglo-irlandese John Michael McDonagh non si allontana dall'ambito della black comedy, ma mette in chiaro le cose sin dall'inizio, a partire dall'inequivocabile titolo e dall'apertura riservata a una citazione di Sant'Agostino: “Non disperare; uno dei ladri fu salvato. Non darlo per scontato; uno dei ladri fu dannato”.
Otto giorni, da domenica a domenica, separano il verdetto di morte dall'esecuzione. Calvary (Calvario per la distribuzione italiana), suddiviso in otto capitoli, segue appunto il ritmo delle ore che scorrono inesorabili. L'intera struttura narrativa, concepita per accompagnare Padre James nel suo cammino verso la morte, rende lo spettatore compartecipe della potente escalation emotiva che sta travolgendo il sacerdote. Il pubblico gli è accanto quando si commuove, si arrabbia, si interroga, si ubriaca. Conta con lui il tempo che gli resta e non può fare a meno di chiedersi chi mai potrà essere il suo carnefice.
Difficile scovare il colpevole tra il bestiario umano che popola la cittadina irlandese. Chi, tra il signorotto caustico e snob, il medico distaccato e crudele, il macellaio tradito dalla moglie, il poliziotto con l'amante e l'astioso gestore del pub, avrà subito abusi sessuali da bambino? L'amara realtà sta nel fatto che i parrocchiani si assomigliano tutti. Sono cinici, arrabbiati, mediocri, ipocriti. Uomini deboli e vili che nutrono una profonda avversione per ciò che il prete rappresenta (“Il suo tempo è scaduto e lei non l'ha ancora capito”, gli rinfaccia il barista). Tuttavia, nemmeno Padre James può esimersi dal biasimare il clero: “Perché sei un prete? Dovresti essere un dannato commercialista! O un dannato assicuratore”, urla al saccente e razzista Padre Leary. E lo stesso vescovo, al quale chiede un parere sull'opportunità di denunciare le minacce ricevute in confessionale, mantiene un atteggiamento distaccato e, in sostanza, gli consiglia di arrangiarsi. Perché Calvary è soprattutto un feroce atto d'accusa nei confronti della Chiesa Cattolica, un'istituzione dove la questione morale e la redenzione non costituiscono più una priorità, se non quando servono a salvare le apparenze.
Ecco, allora, che Padre James decide che è giunto il momento di gettare la spugna e di smettere di lottare. Sarà l'incontro con una giovane donna, rara figura positiva in una bolgia di disillusi, a fargli cambiare idea. Il sacerdote, come un novello San Paolo folgorato sulla via di Damasco, comprende all'improvviso qual è il suo dovere: affrontare con serenità il destino che incombe, qualunque esso sia.
Michael McDonagh regala al pubblico una storia dolorosa e autentica, grazie anche alla grandiosa prova di Brendan Gleeson, che interpreta un umanissimo Padre James. Splendida pure la fotografia di Larry Smith, che immortala un'Irlanda selvaggia, coreografia ideale per narrare i tormenti di un religioso in piena crisi di coscienza, combattuto tra la propria fede, che gli impone di espiare i peccati commessi da un altro ministro di culto per restituire dignità al clero, e la tentazione di fuggire lontano dalla bassezza che contraddistingue i suoi parrocchiani e la comunità ecclesiastica.
Un racconto cinico, dunque, che dipinge un quadro impietoso e senza speranze non soltanto della Chiesa Cattolica, che ne esce con le ossa rotte, ma dell'uomo contemporaneo.
Padre James pagherà quindi per tutti? Ma a chi gioverà poi il suo sacrificio?

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Calvary
Anno: 2014
Regia: John Michael McDonagh
Sceneggiatura: Michael McDonagh
Fotografia: Larry Smith
Durata: 101’
Interpreti principali: Brendan Gleeson, Chris O' Dowd, Kelly Reilly, Aidan Gillen, Dylan Moran
Uscita italiana: 14 maggio 2015

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IL RACCONTO DEI RACCONTI - Fiabe incerte

15/5/2015

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Narrare attraverso la fiaba, esautorare lo spettacolo, procedere all'inverso. Per Matteo Garrone, in concorso a Cannes, l'approccio alla novella seicentesca si può dipanare essenzialmente attraverso uno svuotamento dei topoi di genere che caratterizzano questa post-modernità. Tra le acque di un tempo che vede, del genere, la sua sovraesposizione abbondante, in perfetta controluce mass-mediale; l'ottica del fantasy statunitense che il secolo divinizza qui viene ricondotta al proprio statuto di medievale narrazione da saltimbanchi e canzonieri, al proprio milieu europeo. La spia di una mancanza, l'americana ostinazione all'adattamento favolistico storicamente a sé estraneo: estraneo a un mondo arcaico appannaggio della geografia del vecchio mondo.
Quell'operazione tendente a “storicizzare” la fiaba, in una tessitura di stampo individualista come quella americana, si potrebbe dire nasca dall'urgenza di riappropriarsi di un passato nebuloso già di per sé desolato nei propri meandri di tempo spurio, contaminandola con caratteri strappati al mito e all'epos, allo spettacolo ultra-dinamico e alla retorica classica. Quasi un processo di riparazione, perché Hollywood non ha i Grimm, non ha Odisseo, né Artù, e quei pochi legami con la poesia epica dei nativi americani li ha sciolti con l'epurazione indiana. Questa vicenda, invece, italiana ma per metà internazionale, è la storia di un sostrato culturale che, ricucendo la diaspora, si ricongiunge in seno alla propria natività, tornando a casa.
Garrone è conscio del proprio “sguardo principesco” nei confronti delle fonti, il circuito narrativo a incastro del napoletano Giambattista Basile, tanto che esalta, temerariamente, la matrice a-temporale dell'ignota terra che ospita le composizioni pittoriche: quadri autonomi che premono per virare verso un ampliamento visuale, attraverso un annullamento dell'unicità topografica. Oltre il campo ne inizia un altro, ed è forse lo stesso che abbiamo già visto (o che ancora dobbiamo vedere?). Canovacci di narrazione che subiscono la forza tensiva di panorami molteplici, non univoci, per nulla stigmatizzati, o auto-conclusivi e significanti in sé. Per guardare all'eterno femminino (regine, principesse, giocoliere) tramite un prisma di sfaccettature ottiche che pare oltrepassare la bidimensionalità pittorica per tirare al composito. Un approccio allo scheletro culturale di riduzione all'osso evidente nel contegno verbale, dove il lasciare che la fiaba, nella sua ontologia primaria, parli per sé, e parli con i mezzi del proprio fascino archetipico, significhi coglierla nella sua imprescindibile, semplice giustapposizione di modelli secolari, di reiterazioni tematiche di tornasole umano. In questo senso, forse, e non casualmente, gli espedienti linguistici fungono alla stessa maniera di formule “magiche” d'inizio e di chiusura, quei campi lunghi e le dissolvenze in nero, come a sfogliare la pagina e iniziare un nuovo capitolo.

Eppure, nel processo di riconduzione allo statuto biologico di una pratica, come dal digitale all'analogico, Garrone agisce per controcampo, a rovescio, dove la struttura si fa flessibile e si depura di ogni manicheismo morale (il “bene o male” tanto caro alle fiabe popolari), il lieto fine si priva di un deificante trionfo e il carattere dottrinale si eclissa nel nullo. Figlio di una modernità sbilenca e tutta europea che, travestendosi di grottesco, di triviale, di disturbante, calca la mano sulla natura d'ambiguità tutta dei moti e dei caratteri umani, così persi a contemplare il loro destino funambolesco, a sfuggire ai propri dogmi istituzionali, a sopravvivere alla morte fisica, a rimanere in equilibrio, proprio dove quello stesso funambolo allegoricamente chiude il ciclo (dell'opera). Al contempo, la sostanza impalpabile ed eterea di un film vagamente criptico si illumina di un barocchismo paradossalmente sgombro e scarnificato, lirico ma sottovoce, ma che pare stagnare in un'evidente confusione, più che d'intenti, di volontà d'obiettivi.
L'umanesimo di Garrone quasi scompare. Non un movimento di macchina che prema sull'urgenza di vivificare quelle stesse novelle polverose e quei volti animati, che oltrepassi il comando estetico, che getti luce cinematografica sul risveglio guizzante, sul sentire unanime di un insieme di figure iconograficamente funzionanti, ma per materia pulsante sulla soglia del non-esistere. Una progressiva disumanizzazione, uno svuotamento di anime che si getta nell'aura mortifera di incertezza che lo conclude. Non vi è traccia degli affreschi urgenti del tangibile (dove il fantasy è puro modello non per forza a(nti)-reale in sé) o dello sguardo emozionale che si teneva incollato alla fragile precarietà umana.
Il racconto di Garrone è, di fatto, uno solo, quello di una poco riuscita verticalizzazione, o di tirare il freno a mano su un'elaborazione che avrebbe potuto bearsi di diversi mezzi espressivi e fortemente veicolanti. Lo straniamento, anzitutto, a spostare e confondere gli automatismi percettivi del nostro porgerci naturale (e condizionato) al mondo della fiaba, qui solo al suo principio. Alcuna risemantizzazione, dunque, laddove una matrice di testo napoletana avrebbe potuto, soprattutto nelle mani di Garrone, assurgere a esempio di riformula, di variante per contrasto, di anti-modello bizzarro e originale estraneo alla tradizione (dominante). 
Un lavoro quasi empirico, certamente attraente per schemi anti-drammatici e complesso di raffigurazioni evocative e dilatate; ma il cinema è (anche) altro e pare strano che Garrone non lo sappia.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Tale of tales
Regia: Matteo Garrone
Anno: 2015
Interpreti: Salma Hayek, Vincent Cassel, Shirley Henderson, Alba Rohrwacher, John C. Reilly
Sceneggiatura: Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Alexandre Desplat
Durata: 125'

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FORZA MAGGIORE - Norme, generi e fragili maschi

10/5/2015

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La domanda a cui Ruben Östlund sottopone lo spettatore attraverso il suo ultimo film, Forza maggiore, è tanto semplice quanto ricca di problematiche: l’uomo­­ – il maschio – è stato davvero creato per proteggere e rassicurare coloro che gli stanno attorno? Siano essi donne o bambini?
Se diamo uno sguardo all’impostazione patriarcale/autoritaria delle società occidentali e non, la risposta potrebbe essere tendente al sì, ribadendo la totale necessità di questa figura senza la quale si perderebbe la sicurezza nel felice nido famigliare. La “cultura”, quindi, replica in maniera pressoché positiva alla postulazione del regista svedese. Ma la “natura”, questo selvaggio e primordiale ambiente dal quale gli esseri umani tutti si sono progressivamente allontanati, che cosa ci dice? Forza forse interpretazioni differenti dell’assioma dato? 
Östlund nella sua opera – il cui titolo originale è Turist, turista, che come vedremo successivamente sembra essere più indicato per comprendere l’ambiente di collocazione e le sue peculiarità – crea un’intelaiatura diegetica perfetta, su cui gioca con i fragili equilibri di una tipica famiglia medio borghese alle prese con la propria settimana bianca, cinque giornate da dedicare al relax e alla famiglia.
Forza maggiore narra con dettagliata precisione la vacanza di Tomas, Ebba e dei loro due figli in una stupenda località sciistica delle Alpi francesi. Il primo giorno la famiglia viene introdotta in questo ambiente idilliaco in cui interni ed esterni evocano la sicurezza di un luogo ideato per accogliere la middle class europea. Dal secondo giorno si sviluppa invece la tragedia famigliare di Tomas ed Ebba che, seduti a tavola sulla bellissima terrazza che si affaccia sulla valle, assistono all’incedere maestoso e spaventoso di una gigantesca valanga che si dirige esattamente verso il loro resort. In preda al panico, resosi conto che non si tratta di una slavina programmata, Tomas abbandona la famiglia in cerca di riparo. Una volta tornato dai propri cari, il silenzio regna tra i coniugi e i loro figli: la sua fuga non farà altro che scuotere la stabilità di coppia e costringerà il padre e marito a dover lottare per riconquistare il proprio ruolo di patriarca.
Ruben Östlund inscena la personale tragedia di un normale padre di famiglia tra le valli innevate delle Alpi che ne diventano il palcoscenico: Les Arcs, questo il nome dello splendido albergo che ospita i turisti, è un luogo di vacanza in cui si dimenticano le preoccupazioni e lo stress della vita lavorativa: ma da un punto di vista etimologico, “vacanza” richiama immediatamente una condizione di vuoto, in cui i ruoli e le esigenze istituzionali sono appunto “vacanti”. Così, l’essere turista diventa uno status del tutto particolare, che permette al regista svedese di svuotare il milieu della messa in scena dagli orpelli della società borghese, in cui all’uomo/maschio è chiesto di guidare, proteggere e sostenere la propria famiglia. 
In Forza maggiore si vede con esemplare chiarezza come durante la settimana bianca Tomas ripaghi la propria famiglia dopo l’assenza a causa del lavoro, con devozione verso moglie e figli. Ma Östlund chiama “l’uomo civilizzato” a confrontarsi con la natura, vivendo il proprio dramma di padre e marito che, a causa di un innato istinto di autoconservazione, abbandona i propri cari per cercare la salvezza. Tomas fallisce perché non è in grado di conciliare il ruolo culturale verso cui è chiamato, da una parte, con le più basiche leggi naturali dall’altra.
La moglie Ebba, al contrario del partner, seppur scevra di qualsiasi eroismo, si dimostra ferrea e all’altezza della figura biologica che ricopre: ella rimane con i figli nel pericolo immanente e non può perdonare il compagno per quanto accaduto. Da qui, gli incontri con amici e conoscenti diventano occasioni per inscenare dei e veri e propri Carnage polanskiani in cui i due coniugi si attaccano violentemente.
Secondo una moltitudine di studi, gli individui sarebbero portati, in condizioni di estremo pericolo, a comportarsi nella maniera più egoistica possibile. In seguito a catastrofi naturali, incidenti o attacchi alle persone, la stragrande maggioranza delle coppie tenderebbe a separarsi. È dimostrato, inoltre, come gli uomini non siano in grado di comportarsi secondo le “leggi sociali” a cui sono sottoposti. Il regista svedese prende infatti le mosse per la sua opera da un aneddoto realmente accaduto: «Qualche anno fa, una coppia svedese – di mia conoscenza – si trovava in vacanza in America Latina, quando all’improvviso due rapinatori apparvero dal nulla facendo fuoco; il marito, istintivamente, scappò in cerca di riparo lasciando la moglie in balia del pericolo». Da qui la ricerca per un lavoro cinematografico in grado di essere strumento conoscitivo e di approfondimento.
Forza maggiore, vincitore del premio della giuria nella sezione Un Certain Regard alla scorsa edizione del Festival di Cannes e candidato ai Golden Globes, è quindi un film dotato di estrema intelligenza e spessore psicologico, che con occhio analitico si snoda attorno alle problematiche concernenti le norme e i generi fondanti della nostra cultura, per demolirli e offrire una visione straziante e irrisoria del “maschio”, un ruolo quasi attoriale destinato a scardinarsi di fronte allo spettatore. 

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Turist
Anno: 2014
Regia: Ruben Östlund
Sceneggiatura: Ruben Östlund
Fotografia: Fredrik Wenzel
Musica: Ola Fløttum
Durata: 120’
Uscita in Italia: 7 maggio 2015
Attori principali: Johannes Bah Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Kristofer Hivju

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BLADE RUNNER - Gli angeli caduti

6/5/2015

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More human than human, that’s our motto

“Io sono il cineocchio. Io sono un occhio meccanico. Io sono una macchina che vi mostrerà il mondo come solo una macchina può fare”. Da Dziga Vertov e il suo kinoglaz (cine-occhio), passando per Bunuel e quell’occhio ferito, tagliato come una tela di Fontana, come uno schermo che mette in comunicazione il reale con la sua proiezione cinematografica.
L’occhio come soggetto visivo osservante muta la sua natura in materia osservata. Si trasforma da soggetto guardante a oggetto guardato, uno schermo in cui si riflette la realtà, una realtà fittizia perché riflessa e non reale; proprio come gli automi, corpi più umani dell’umano, ma non umani, un’imitazione perfetta, proiezioni, emanazioni e surrogati, oggetti funzionali all’umano, asserviti ad esso.

Un occhio apre Blade Runner di Ridley Scott, in cui si riflettono i bagliori dei fuochi; un occhio che osserva il mondo in subbuglio ma puntato sull’obiettivo, in un oscuro scrutare.
Le coordinate narrative partono dal testo visionario di Philip K. Dick “Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?” e sono proiettate in un futuro distopico, nella Los Angeles del 2019, in una cornice patinata tipicamente anni ’80, dove un gruppo di androidi di ultima generazione, Nexus 6, fugge dalle colonie extramondo; Rick Deckard (Harrison Ford), ex agente della Blade Runner, è richiamato in servizio per catturare i replicanti e “ritirarli” (ucciderli).
La mdp si muove sinuosa tra i palazzi e le strade bagnate, ora su un asfalto reso vinilico dall’incessante pioggia ora alzandosi in volo, in un cielo notturno illuminato dalle luci al neon dei manifesti pubblicitari, fluttuando sulle note ipnotiche di Vangelis. L’elemento crepuscolare che percorre tutto l’iter filmico non abbandona mai la scena e riaffiora sovente, tra il battito d’ali delle colombe, le lacrime degli androidi, la luce che filtra dalle finestre come schegge di lame, i simbolici origami di carta che scandiscono lo scorrimento del film, o i malinconici giocattoli costruiti da J.F. Sebastian (William Sanderson), asserviti all’uomo per colmare la sua solitudine, amici artificiali assoggettati al loro creatore.
La materia narrativa precipita a un piano soggiacente per lasciare spazio all’incantamento dell’occhio, che si fa sedurre e trascinare in un turbinio in cui le ambientazioni sceniche prendono il sopravvento. In Blade Runner l’andamento rapsodico ha una natura gotica e si muove in atmosfere dark dalle sfumature noir, nell’estetica visiva e nella recitazione degli attori, volti e sguardi struggenti e malinconici che avvertono la presenza della morte come una compagna mai assente e fedele, che aleggia perennemente.
I replicanti sono duplicazioni perfette ma sono destinati a morire; una vita luminosa ma breve. Quando Roy Batty (Rutger Hauer), capo del gruppo dei replicanti, si trova faccia a faccia con il suo creatore, Eldon Tyrell (Joe Turkel), vestito non a caso come un pontefice demiurgo, lo implora: “Io voglio più vita, padre”, ricevendo l’unica risposta possibile: “La luce che arde con il doppio del suo splendore brucia per metà del tempo”.
In spazi fatiscenti e decadenti, che rispecchiano le atmosfere romanticamente rarefatte dei primi anni ’80, grazie anche ai giochi di luce, ai colori materici e ai notturni infiniti, Ridley Scott realizza una fantascienza che si tinge di noir, in un’enfasi visiva estrema che seduce e incanta. È una materia stratificata che non può essere facilmente incasellata in un genere, in cui l’unico protagonista è l’occhio, come soggetto osservante e come veicolo che guida lo spettatore lungo le trame della narrazione.
L’occhio è oggetto del test Voigt-Kampff, effettuato con un obiettivo che registra le emozioni attraverso le reazioni della pupilla, riconoscendo l’umano dal replicante; l’anima si manifesta attraverso le emozioni e sono proprio queste a creare la variazione, la nota stonata, l’imperfezione propria dell’uomo. La mdp di Scott si sofferma sovente sugli occhi, catturandone il bagliore. Quando incontra quelli di Rachel (Sean Young), li dipinge con tenerezza e delicatezza, ignari della loro natura, resi tristi dalla perdita dei ricordi più cari, memorie installate nella mente per regalarle una parvenza di vita, con un passato, un presente e la speranza di un futuro. Roy e Leon si rivolgono a Chew, il fabbricante di occhi, per avere informazioni sulla loro esistenza, e i bulbi oculari, creati per gli androidi di ultima generazione, si moltiplicano sullo schermo, raccolti in contenitori o stritolati crudelmente, in una metafora della moltiplicazione visiva. Nell’incontro con Tyrell, “padre” e artefice degli androidi, Betty, rifiutato, ucciderà il suo creatore proprio affondando le dita negli occhi, privandolo della vista.
L’elemento scopico chiude il film; la vista come primaria esperienza sensoriale e manifestazione dell’esistenza, sento dunque sono, è al centro dello struggente monologo finale di Roy Betty, sotto lo scrosciare di una pioggia inarrestabile che trascina con sé ogni cosa, le lacrime, la vita e i sogni. Le speranze volano via sulle ali bianche di una colomba.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Blade Runner 
Regia: Ridley Scott
Sceneggiatura: Hampton Fancher, David Webb Peoples
Fotografia: Jordan Cronenweth
Montaggio: Terry Rawlings, Marsha Nakashima
Musiche: Vangelis
Durata: 117' (The Final Cut)
Anno: 1982
Attori: Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young, Daryl Hannah
Uscita al cinema: 6-7 maggio 2015

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