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EX MACHINA - Io sono Dio

30/7/2015

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Caleb (Domhnall Gleeson, Questione di tempo) lavora come programmatore presso una multinazionale. Un giorno la fortuna sembra sorridergli: viene infatti selezionato per trascorrere una settimana nella casa di montagna del suo capo, Nathan (Oscar Isaac). Caleb si troverà a lavorare a uno straordinario progetto di ricerca sull’intelligenza artificiale. Ava (Alicia Vikander) è il robot creato da Nathan, e proprio con lei Caleb dovrà interagire per l’intera durata dell’esperimento, al fine di trovare soluzione ad alcune domande (ancora) senza risposta: i robot hanno un’anima? Sono creature senzienti? Hanno una coscienza? È possibile programmare una macchina per comportarsi come un essere umano? Per provare emozioni? Per sentire?
Nathan ha ogni giorno una domanda diversa per Caleb, una domanda diversa per Ava. L’indagine, fatta di conversazioni e test, diventa presto l’occasione per una più approfondita riflessione sulla natura umana, in tutte le sue infinite e oscure sfumature. A quel punto non si capisce più chi stia interrogando chi. Se l’uomo, la macchina. Oppure se non sia la macchina a valutare l’uomo, le sue contraddizioni, i bug della mente, le debolezze.

Ex machina è l’opera prima di Alex Garland, già sceneggiatore di Dredd e di alcuni film di Danny Boyle (28 giorni dopo, Sunshine, 28 settimane dopo). Un lavoro sofisticato ed elegante, minimalista per messinscena eppure estremamente complesso nello sviluppo narrativo, nonché un film di fantascienza futuristico e futuribile, giocato essenzialmente sul dialogo, sul rimpallo costante di battute tra i personaggi. Le parole creano la tensione, mentre le immagini dettano il ritmo profondo dell’emozione e di una spasmodica ricerca d verità.
Non si può non provare empatia o compassione per Ava, il cyborg che si veste di abiti umani pur di farsi amare, che cambia pelle scegliendo la forma più adatta al proprio corpo, disperato di vivere. E non si può non essere partecipi alla confusione di Caleb, anima pura in cerca di riferimenti nell’universo stratificato e disturbante di Nathan.
Abbiamo poi il creatore, all’eterna ricerca di una spiegazione razionale per ogni cosa: amore, sesso, scienza, e così via. Nathan è un narcisista, lo scienziato ossessionato dalla scoperta della meccanica. Della ragione. Dell’equazione che spieghi la nostra stessa esistenza.
Questa è l’epoca del cosiddetto “affective turn”, dopotutto, dell’indagine razionale nella sfera delle emozioni, degli stati d’animo e di coscienza. Così, perfino la tecnica dell’action painting di Jackson Pollock trova una logica nella mente di Nathan, il Dio perverso e sadico che gioca con le proprie creature, che le programma per il proprio personale piacere, incapace di qualsiasi forma di affettività e confinato nel proprio delirio di onnipotenza. La prigione dalla quale non uscirà mai e che, a ben vedere, lo tradirà come il personaggio di una tragedia shakespeariana.
Il titolo Ex machina di per sé è già un manifesto dell’opera: il Dio che, calato dall’alto in una storia così attorcigliata da non trovare soluzione, scioglie i nodi e offre ai personaggi una via di uscita, un finale. Ma chi è Dio, in fin dei conti? Chi uscirà dallo scenario? Chi si ribellerà? Quale finale è possibile per gli uomini che si credono divinità, quale vita per le creature rinnegate?

Sono molti i modelli cui Ex machina si rivolge, tutti suggeriti ma nessuno veramente preso come esplicito riferimento. C’è la dimensione filosofica di Blade Runner, la riflessione sull’umanità fatta da A.I. di Steven Spielberg, c’è l’eterno faro di 2001 odissea nello spazio. Eppure, Ex machina è un’opera totalmente originale proprio per il modo in cui riesce a guardare alle suggestioni passate e a mantenersene distante. Un film che viaggia forse lentamente ma si mantiene coerente, senza mai perdere la strada.
Alex Garland sfrutta abilmente le possibilità offerta dall’ambientazione, tutta in interni, cambiando sempre e costantemente colori e sfondo dell’azione: ora siamo in una sala, ora davanti a Jackson Pollock, ora in un guardaroba, ora in una serra. Poi tra i monti innevati. E così via. Cos’è reale e cosa no? Cosa siamo, se siamo qualcosa? E qual è la nostra dimensione fuori dagli scenari che sono stati scelti per noi?
Ex machina non offre risposte, e forse il suo punto di forza è proprio questo. La sospensione. Il mistero. Il senso di una grande tragedia (non)umana. 

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Alex Garland
Sceneggiatura: Alex Garland
Interpreti: Domhnall Gleeson, Oscar Isaac, Alicia Vikander
Fotografia: Rob Hardy
Anno: 2015
Durata: 108'
Uscita in Italia: 30 luglio 2015

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WHILE WE'RE YOUNG - Giovani si diventa

10/7/2015

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Josh (Ben Stiller) è un filmmaker, un purista della ricerca e dell’immagine, e sono otto anni, ormai, che lavora a un documentario sulla storia e l’economia americana. Ha sette ore di girato, eppure sembra incapace di dare taglio e forma alla propria idea. La carriera di Josh è sospesa in un limbo di indeterminatezza, è un ibrido, proprio come la sua relazione con Cornelia (Naomi Watts).
Josh e Cornelia sono una coppia stabile e innamorata che stenta però a trovare una propria identità in un ambiente sociale che impone regole e norme a ogni fascia d’età. La mancanza di figli ha inciso nel rapporto di coppia e nei rapporti con le coppie di amici. Inoltre, il padre di Cornelia è un famoso documentarista la cui ombra ha sempre castrato le ambizioni professionali di Josh, disposto al fallimento pur di essere responsabile della propria impresa. Cornelia e Josh sono due quarantenni senza una vera collocazione sociale, familiare e relazionale. Mentre i loro coetanei sono assorbiti dal ruolo di genitori e tendono a riunirsi con chi può condividere le emozioni della genitorialità, Josh e Cornelia sono sempre più estranei a quel mondo e a disagio in un contesto che naturalmente li respinge.
L’incontro con due ventenni, Jamie (Adam Driver) e Darby (Amanda Seyfried), porterà un cambiamento importante nella percezione che Josh e Cornelia hanno di sé e nelle rispettive aspettative.

Noah Baumbach (Frances Ha), stavolta alle prese con un budget importante, con un cast di attori di serie A e una storia convenzionale, trasforma il soggetto in una riflessione piuttosto filosofica (benché non ambiziosa) sul cinema, sulle immagini e sul concetto di verità, di autenticità.
Sono decenni che il cinema si interroga e categorizza le generazioni. C’è stata prima la generazione ‘x’, poi sono arrivati i teenager incompresi, quindi la generazione ‘y’. Continuamente in esplorazione di gruppi etnici, razziali e sociali, il cinema è passato dall’analisi più o meno superficiale dei trentenni in crisi esistenziale alla crisi dei quarantenni economicamente già risolti, ma non per questo meno problematici.
While We’re Young trova in italiano una traduzione solo in apparenza simile, eppure quantomeno sbagliata. Giovani si diventa non è solo errato dal punto di vista della traduzione letterale, ma anche per i contenuti stessi del film. Giovani non si diventa affatto, l’età non è un’illusione e il divario generazionale non è un’opinione. Il senso, piuttosto, è in quel “while”, nel finché che segna il confine tra il divertente e il ridicolo, tra l’indossare un cappello di pezza o una cravatta, tra il corso di hip-hop e le lezioni di musica al nido. Tra l’autoindulgenza e l’autocritica. Nel ritratto della nuova middle-class americana, Baumbach aggira il rischio degli stereotipi per ragionare sulle diverse prospettive di vita, sul modo di pensare, vivere, sentire le cose.
Jamie è un documentarista rampante, avido di conoscenze e molto consapevole di sé; è sposato con Darby, agisce senza riflettere, ha una straordinaria energia ed è privo di ideologie. Jamie è letteralmente il figlio dei tempi, un hipster la cui conoscenza naviga tutta in rete, legato come un feticista a simboli del passato: canzoni cult e film anni ‘80, Rocky III, corse in bicicletta, improbabili raduni new age, collezione di VHS e gara di citazioni cinematografiche. Jamie è ancora arso da un senso di onnipotenza tipico dei suoi vent’anni.
Josh trova in Jamie l’entusiasmo e la determinazione che gli è sempre mancata per raggiungere i risultati e il successo. E mentre Josh elargisce il suo sapere con ingenuità e rinnovata fiducia nel proprio lavoro, Jamie il narcisista assorbe, ruba, rielabora. Jamie è l’anima nera di questa società post-postmoderna, feroce, già riciclata e priva di etica.
While We’re Young è quasi un Eva contro Eva che, inaspettatamente, finisce col toccare non solo il tema dei rapporti familiari e personali, ma la relazione tra maestro e allievo, con la serie di inevitabili delusioni morali. Inoltre, ed è forse questo l’aspetto più interessante, il sottotesto del film indaga il concetto di autenticità. Josh il documentarista maniaco della purezza e della verità cerca, nei propri film come nella vita, un senso di trasparenza – nelle azioni e nei pensieri – che però viene continuamente a mancare. Nessuno è più sincero, nessuna immagine è davvero pura e nessun film è privo di contaminazioni, di alterazioni. 
Non a caso, While We’re Young ci parla di documentari, e il primo riferimento che ci viene dato è proprio quello di Nanook, opera capitale del pioniere del genere, Robert Flaherty. Quella è la bibbia della verità per il purista. E non è più riproducibile, nel mondo di affetti facili e persone ignoranti, di un universo in cui conta sempre e solo l’intrattenimento piuttosto che l’oggettività. Forse conta solo essere veri per se stessi e non lasciarsi corrompere.
Josh e Cornelia sono gli ultimi eroi di questa società inesorabilmente contaminata. Perché solo chi fallisce, chi lascia il campo e si conserva puro fuori dagli schemi può davvero vincere.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: While We’re Young
Regista: Noah Baumbach
Sceneggiatura: Noah Baumbach
Interpreti: Ben Stiller, Naomi Watts, Adam Driver, Amanda Seyfried
Durata: 97'
Anno: 2014
Musiche: James Murphy
Uscita italiana: 09/07/2015

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'71 - A nord dell'inferno

8/7/2015

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È un esordio cinematografico dal titolo brevissimo, questo ’71. Fatto di caldo e pulviscolo di strade e mattoni incendiati. L’esordio di un giovane regista televisivo, Yann Demange, e di un drammaturgo scozzese, Gregory Burke, che in questo debutto si dividono, come viene naturale, i ruoli: l’uno alla regia, l’altro alla sceneggiatura.  
Di certo non crediamo che tramite (e per) il film si possa o si debba inevitabilmente ricorrere al compendiario storico per inquadrare atti e pieghe di estrema significazione per la comprensione della qualità del lavoro in sé, ma la necessità di un impegno storico-sociale – certo, spesso egoriferito - imbeve il cinema inglese da sempre (non è poi un caso che il film sia stato finanziato dalla British Film Institute) e quest’opera, di quelle che facilmente si fanno travolgere nella scia dipanata dalle banalità del male a evidenziare sintomi in ogni dove, non fa eccezione. Questo nonostante il film non permetta di ancorarsi ad alcuna colonna portante temporale o didascalicamente  pedante. I fatti si stemperano per diventare tracce, emanazioni,  atmosfere. 

A fare da soggetto i cosiddetti Troubles nord-irlandesi (quelli che nel 1972 condurranno alla celebre Bloody Sunday), guerriglie disordinate e massacri tra gli schieramenti civili protestanti e cattolici, nei quali, a concorrere alla formazione di un triangolo più disorganico che razionale, si inseriscono le truppe britanniche ad arginare sommosse, ma più spesso a difendere il proprio party e ad eccedere in maltrattamenti di civili per sfilare loro gli armamenti. E in questo caos sporco di ambigue scurrilità, di “bastardi fenoniani” e di ragazzi rattrappiti dall’emulazione di un arroccamento politico, un uomo, un soldato, uno sguardo, un ficcante Jack O’ Connell a interpretare uno sperduto Gary Hook che non pensa, che subisce, e quindi agisce, attanagliato da serpenti esterni che gli si appiccicano in un escalation mortale che perde presto i connotati di war-movie per diventare un thriller noir silenzioso ed esemplare, senza particolari guizzi né avvallamenti inefficaci.  Incidentalmente abbandonato dai propri commilitoni durante i disordini diurni, inseguito, ferito, fortuitamente scampato a un incendio, curato e poi ancora ricercato da una debole British Army, ma soprattutto dai ribelli fondamentalisti semi-organizzati che lo vogliono morto, nel deserto notturno di una città-apparizione, egli si perde. 
Il filtro soggettivo veicolato da Gary Hook, protagonista più lente deformante che eroe a tutto tondo, è infatti soltanto l’occasione per inscenare (forse rivivere e riscrivere) una parte di storia britannica personalissima – lo deve essere – con tensione documentaria spesso spiegata verso un eccesso di aderenza, tale da renderla troppo osservabile da vicino, troppo sovraesposta affinché si possa attivare un atteggiamento di distacco di fronte ad essa. Tutt’altro:  è vivido, ma impalpabile, questo regno dei morti interiore.
È importante che il soldato inglese, pur non mancando di valore e di coraggio (è, insomma, un buon english man) e a cui accade praticamente di tutto, non abbia, d’altra parte, alcuna idea della situazione politica nella quale egli stia operando, e ordinare, restringere le insurrezioni civili cattoliche è, di per sé, materia insufficiente affinché possa spiegare a se stesso il motivo di tanta ostinazione, accanimento, ferocia nei suoi confronti. Sarebbe, dunque, il perfetto (inutile) sacrificio di sangue, quello di un uomo che degli spettacoli pirotecnici pubblico-politici non ha considerazione, né interesse. Gary Hook è null’altro che un occhio pulito, neutro, ingenuo e vergine attraverso il quale un altro occhio (il nostro) è portato a carpire l’insensatezza, l’inutilità di un’ambigua e fangosa terra di scontri fatti di niente, che non ha nulla da dispiegare se non se stessa. 

Il passo da una registrazione cronachista a un’iperbole di sur-realtà, si capisce, è breve:  Belfast non è più una città (se mai lo è stata). Essenzialmente non è. La mdp rimane ancorata all’asfalto, ci sosta e si dilunga a guardarne la texture, per poi alzarsi ad annegare nella polvere di uno scenario dislocato e omogeneo di una topografia urbana scacciata a forza dagli incendi, dalle morti, dalle fiamme; eppure nulla di tutto ciò è materico, riconoscibile, annullandosi anch’esso nell’agglomerato paglierino informe, ove Hook deambula, già morto-vivente, perdendo tracce del reale, inghiottendo, assimilando quel grumo cocente.  
Questa Belfast è, anzitutto, un luogo mentale. Quello dell’uomo inglese medio che, nella sua paura dell’atroce, sa che si è perso tutto, ancora una volta, e che vivere non è un opzione, è solo un dovere, quello di arrivare alla fine, senza credere. E fuori, schieramenti, parti, operazioni militari, bande giovani para-delinquenziali, bambini carnefici nutriti di odio assorbito dagli imbonitori loro padri; tutto finisce per mescolarsi in un magma aureo e indefinito di voci già udite ed emulate, di nemici in un campo minato senza numeri, né indicatori, né bianchi riquadri. E, soprattutto, ove ogni voce va ammutolita, ogni evento atrofizzato, ogni ipotetica resa di giustizia lasciata cadere in pasto a chi saprà meglio occultarla.
Ancor più che Burke, a sceneggiare, forse mancando di affondare i propri strumenti in una significazione interiore più articolata, e perdendo parte della sua efficace ariosità in una risoluzione finale stilizzata e avulsa dal respiro più immateriale dell’opera, Yann Demange, a colpi asciutti, essenziali, senza batter ciglio di fronte a un dispiegarsi tanto crudele, allestisce una regia calibrata, sicura, lasciandosi volentieri annientare dall’inferno di impronte umane che vanno disperdendosi tra i vicoli di mattoni rossi, tra gli autobus inceneriti, nei cromatismi di una notte erta a simbolo di perdita del proprio sé (se mai è dato conoscerlo e conoscersi), tra strade luciferine, tra gli inferni di altri dove. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia:  Yann Demange
Sceneggiatura: Gregory Burke
Interpreti:  Jack O’ Connell, Paul Anderson, Sam Reid, Sean Harris
Anno: 2014
Durata: 99’
Fotografia: Tat Radcliffe
Musica: David Holmes
Uscita italiana: 9 Luglio 2015

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SLOW WEST - Psicanalisi del western moderno

6/7/2015

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Jay Cavendish (Kodi Smit-McPhee) è un giovanissimo scozzese, idealista e romantico, deciso a intraprendere un avventuroso viaggio nei sentieri del west per ritrovare Rose (Caren Pistorius), la sua fidanzata. Durante il cammino, Jay avrà molti, fortunosi incontri, tra cui quello – fondamentale - con Silas (Michael Fassbender), un misterioso cowboy che per pochi spiccioli accetterà di accompagnare e proteggere Jay lungo la strada verso l’oggetto d’amore, perso chissà dove nelle sterminate praterie del west.

Slow West è un film psicologico e moderno, dal taglio estremamente contemporaneo in termini di scelte narrative e visive. Il regista John Maclean racconta un’idea di western che non è nemmeno più legata al mito o all’immaginario collettivo. Il west, qui, è solo una distesa, uno scenario limpido e vuoto, minimalista ovvero impersonale, che solo riempito da oggetti e figure acquista un senso e un significato.
Gli oggetti diventano l’esplicitazione, la materializzazione del pensiero dei personaggi, in una rilettura psicanalitica - si potrebbe dire junghiana - del rapporto tra uomini e simboli. Ad esempio, in una scena delle scene più simboliche, Jay viene derubato e lasciato, senza cavallo né soldi, in mezzo alla prateria. Al suo risveglio soltanto un biglietto, fermato in terra da un uovo. Il biglietto dice “west”, con una freccia a indicare non si bene quale direzione. Jay, affamato, tenta di mangiare l’uovo, ma il guscio si frantuma, lasciando il giovane interdetto a osservare il nulla che lo circonda. Poi, in terra, ecco apparire un fungo. Maclean ci propone un’inquadratura tale da rendere il fungo altissimo rispetto a Jay che, in prospettiva, sembra una miniatura. È quasi una scena à la David Lynch, che spezza la continuità dell’azione e la coerenza narrativa per imporre nel quadro dei simboli solo apparentemente estranei al contesto, tutti da interpretare.
Lo stesso disorientamento si prova nell’osservare l’entrata in scena dei personaggi secondari, i quali, come catapultati da altre realtà, invadono lo spazio del protagonista per uscirne dopo pochi minuti. Personaggi fondamentali per il percorso di crescita di Jay, ma attorno ai quali il regista non costruisce alcuna sottotrama. Essi entrano ed escono dal quadro, mostrandosi solo per ciò che sono in quel momento, perché solo in scena sembrano esistere. L’antieroe, il villain, il ragazzo, la principessa, l’indiano, il cowboy, sono solo alcuni degli archetipi di genere che arricchiscono Slow West. 
La storia si snoda tutta nell’idea di un viaggio più esistenziale che materiale, ma non propriamente iniziatico. Non sono molte le prove che il ragazzo deve affrontare, ma sono molte lezioni che può imparare. Kodi Smit-McPhee ha il viso perfetto e la giusta dose di ambiguità sessuale e identitaria per incarnare un personaggio così fragile, insicuro ma al tempo stesso temerario. Jay è forse la metafora di un genere, di un cinema, di una società appena nata e bisognosa di punti di riferimento, di mappe, di approdi. Anche in questo senso Slow West è un bel racconto di formazione. La strada del coraggio e della conoscenza passa attraverso scenari non convenzionali e tra elementi visivi del tutto inusuali. Personaggi di ogni razza, età, provenienza, entrano in scena senza apparente ragione: non hanno passato, non hanno futuro. Esistono solo in quanto si relazionano con i protagonisti, portando avanti la narrazione e fornendo spunti di riflessione. Personaggi secondari che vivono e muoiono solo per il tempo di raccontare una storia, seminare il ricordo di sé e perdersi nell’infinito.

Il western è in crisi di identità. Le praterie sono attraversate da giovani scozzesi, africani di lingua francese che suonano musica tribale, soldati, indiani, cowboy. Gli abitanti di Slow West sono al limite dell’isteria. Sono fragili, nevrotici, smarriti. Confluiscono tutti nella metaforica ricerca della principessa chiusa nel castello. La casa nel deserto di luoghi ormai depauperati, privati di ogni riferimento ma non di morale. Personaggi abbandonati a se stessi si ritrovano come in cerca di una ragione per reclamare la propria esistenza. Questo è il western post-moderno che, senza la propria identità di genere, non tenta nemmeno di ridefinirsi o ridisegnare i propri confini o la propria forma. La messinscena è destrutturata, pervade l’immagine di malinconica solitudine. Anche questo è un modo di intendere la post-modernità, come una reinterpretazione della lezione dei grandi cineasti del passato. E forse è proprio questa la sfida lanciata da coloro che tornano a confrontarsi con il western. Accanto a opere televisive che intendono riscriverne o recuperarne il senso della storia (si pensi a Deadwood, Broken Trail, Hatfields & McCoys, fino al recente Texas Rising), il cinema sembra considerare i canoni stilistici classici solo come un orizzonte necessario ma ormai lontano.
Forse Slow West, come anche The Homesman di Tommy Lee Jones, rappresenta un po’ il western del XXI° secolo: un genere che, per trovare una nuova identità, ha bisogno di creare il vuoto spaziale e temporale tra sé e il passato. Solo così possono essere gettate nuove fondamenta e si può immaginare una rinascita. In questo senso, Slow West è anche una metafora della società americana, di quella società che è stata liquida e nella quale tutti paiono essere annegati. Ci si interroga sulla natura dell’esistenza e ci si scopre tutti un po’ più soli e più insicuri, appesi gli uni agli altri, in cerca di una ragione per vivere.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regista: John Maclean
Sceneggiatura: John Maclean
Interpreti: Kodi Smit-McPhee, Michael Fassbender, Ben Mendelsohn, Caren Pistorius
Fotografia: Robbie Ryan
Musiche: Jed Kurzel
Durata: 84'
Anno: 2015
Uscita italiana: ottobre 2015

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