ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

CAROL - Ciò che il paradiso concede

30/12/2015

0 Comments

 
Immagine
La carriera di Todd Haynes è per il cinefilo un materiale su cui misurarsi e rimuginare, su cui riflettere e appassionarsi. Slegato e diviso, – come sarebbe d’altronde possibile affrontare con lo stesso metro critico opere quali, per puro esempio, Poison, Velvet Goldmine e Safe? – il corpus autoriale del regista americano urla passioni contrastanti che, tra slanci spettacolari e sommessi racconti introspettivi, trova infine un compromesso poetico che concilia un delicato equilibrio; le esplosioni segniche di Velvet Goldmine e la pacatezza introversa di Safe fanno parte della medesima anima, una relazione tra interno ed esterno dalla quale è impossibile fuggire. 
Carol, sesto lungometraggio per Haynes, atteso a inizio gennaio nelle sale italiane, è l’adattamento di The Price of Salt, celebre romanzo scritto da Patricia Highsmith negli anni Cinquanta, che fu immediatamente oggetto di critiche perbeniste a causa della libertà con cui la scrittrice descriveva i sentimenti e le pulsioni delle due protagoniste.
Nonostante la sceneggiatura non sia da attribuire ad Haynes – prima volta che accade nella sua carriera –, ma a Phyllis Nagy, il testo si presenta come perfetto materiale di incontro tra la prassi filmica del regista, gli espliciti temi omosessuali che ne hanno largamente e profondamente caratterizzato la filmografia (per i quali è stato inoltre etichettato come nuovo esponente di punta di un certo “queer cinema”) e come liaison tra Lontano dal paradiso e un più moderno approccio al melodramma.
Se il “melò” era, nella sua epoca d’oro, un genere per sole donne, poiché gli uomini erano in guerra o impegnati in altre attività, Carol è un’opera che distanzia e oppone i sessi: i cosiddetti maschi sono difatti costretti a ruoli marginali, per soffermarsi e concentrarsi sul legame improbabile tra due donne di differente età ed estrazione sociale. 
Therese è una ragazza giovane e bella che lavora in un grande centro commerciale; l’incontro con la matura Carol è casuale, ma l’interesse che nasce tra le due è immediato ed affascinante. È un amore inaspettato quello tra Therese e Carol, quest’ultima intrappolata in un matrimonio dal quale cerca d’uscire senza perdere la custodia della piccola figlia. Ma come il sottotitolo di questa recensione suggerisce, ciò che il paradiso concede (omaggio a All That Heaven Allows di Douglas Sirk) – ovvero la libertà sentimentale che le due hanno la possibilità di esperire – avviene all’ombra della società perbenista e patriarcale degli anni Cinquanta, un decennio in cui il modello americano era esportato, ma allo stesso tempo messo in pericolo dalle correnti comuniste tanto osteggiate dal maccartismo.
​
Il film di Haynes è ambientato in un periodo storico unico, in cui la società seguiva un cammino stabilito dalle regole non solo sociali, ma soprattutto morali. Carol è costretta dalla sua coscienza a prendere atto della sua insoddisfazione riguardo al matrimonio con il marito Herge; allo stesso tempo, Therese semplicemente non vede il proprio futuro accanto al fidanzato Richard, che vorrebbe sposarla e metter su famiglia.
Tutti i personaggi che si trovano a calcare il palco di questo dramma cercano, a loro modo, di raggiungere la felicità o il suo modello. Per alcuni è rappresentato dall’accettazione dello – e nello – status quo, per altri, le due protagoniste in questo caso, la verità dei loro sentimenti non può essere proiezione di desideri altrui. Carol e Therese sono così costrette a riflettere sulle vite che si sono costruite e che hanno accettato. Intervistata al riguardo, Phyllis Nagy afferma che «Carol è una storia d’amore che tende a dimostrare come la verità sia in assoluto il miglior tonico. Se sei emotivamente onesto con te stesso, su chi sei e in cosa credi, le cose potrebbero non andarti bene, ma sarai certamente una persona migliore».
L’allontanamento volontario delle due protagoniste, allo scopo di stare sole e serene, trasforma l’opera filmica quasi in un road movie, in cui la distanza dalla società significa possibilità per le due amanti. È solo lontano dal paradiso/società, ovvero il luogo delle convenzioni e della cattività, e alla sua ombra, che vi è la possibilità di salvezza – sentimentale, ovviamente. Il regista americano, come nel precedente Far from Heaven, continua un discorso su coloro che sono inclusi o esclusi dall’eden, sulle scelte personali e sulla rottura delle norme. Sirk e Fassbinder sono dietro l’angolo, ma non si scorgono all’interno del lavoro di Haynes, che trova una coesione perfetta tra ciò che la macchina da presa mostra e ciò che lui stesso vuole dire; perché si può essere estremamente diretti e usare un linguaggio cinematografico molto semplice per offrire un’immagine chiara di ciò che sentimento e sofferenza possono essere sullo schermo. 
Un Todd Haynes in stato di grazia, e una prova attoriale di grandissimo livello delle splendide protagoniste Rooney Mara e Cate Blanchett, regalano allo spettatore un’opera perfetta che tratta un argomento mai abusato, poiché la nostra società, alle grandi falcate verso la modernità e le libertà individuali, contrappone purtroppo piccoli passi indietro che bisogna correggere con intelligenza e lungimiranza.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Carol
Anno: 2015
Regia: Todd Haynes
Sceneggiatura: Phyllis Nagy, Patricia Highsmith
Fotografia: Edward Lachman
Musiche: Carter Burwell
Durata: 118’
Uscita italiana: 5 gennaio 2016
Attori principali: Cate Blanchett, Rooney Mara, Kyle Chandler

0 Comments

EL CLUB - Crimini impuniti

28/12/2015

0 Comments

 
Immagine
​Dopo aver portato a termine la sua personale trilogia – composta da Tony Manero, Post Mortem e No – I giorni dell’arcobaleno - sulla sanguinosa dittatura di Pinochet che ha martoriato il Cile per ben quindici anni, Pablo Larrain continua a indagare sui dolorosi trascorsi del suo paese per comprenderne meglio il presente. Stavolta a finire sotto la sua lente d’ingrandimento è nientedimeno che la Chiesa cattolica, con lo scottante e scabroso tema dei preti pedofili. 
Quattro sacerdoti condividono la stessa casa, situata ai margini di una piccola città sul mare. Sono stati relegati in questo esilio, tranquillo, confortevole, quasi dorato, dove vengono accuditi e sorvegliati da una custode un tempo suora, a causa dei crimini commessi in passato. A interrompere l’apparente normalità, spezzando per sempre la routine quotidiana, è l’arrivo di un quinto reverendo cui fa seguito la comparsa in città di un uomo segnato nel profondo dagli abusi subiti in tenera età da uno di loro. È tempo di fare i conti col proprio passato, con ciò che è stato frettolosamente (e comodamente) rimosso.
Nell’approcciarsi a una questione così delicata, spinosa e controversa il cineasta cileno ricorre a uno stile essenziale, mostrandoci solo lo strettamente necessario. Piuttosto che far vedere l’orrore, l’ “indicibile”, sceglie di farcelo sentire attraverso i monologhi perturbanti, spaventosi e deliranti di Sandokan, una delle fragilissime vittime abusate in tenera età da Padre Lazcano, prete allontanato dal sacerdozio in seguito ai crimini commessi e confinato nella casa a due passi dal mare assieme ai fratelli che condividono con lui gli stessi peccati.
Con El Club, premiato con l’Orso d’argento a Berlino e candidato dal Cile alla corsa agli Oscar per il miglior film straniero, Larrain conferma, se ve ne fosse ancora bisogno, di essere uno degli autori più interessanti, coerenti ed importanti dell’attuale scena internazionale. Dotato di un talento fuori dal comune, ha dimostrato da subito di infondere alle sue opere un’estetica originale e assai peculiare. Se in No – I giorni dell’arcobaleno aveva scelto di utilizzare macchine da presa a bassa definizione e un formato ridotto per inserire in modo naturale e non artificioso i materiali d’archivio, compresi gli autentici spot andati in onda per la campagna referendaria del 1988, per questo suo nuovo lavoro si è avvalso di lenti anamorfiche russe degli anni ’60 (usate a suo tempo anche dal maestro Andrej Tarkovskyij) per ottenere una fotografia – a cura del fidato e sodale Sergio Armstrong - inusuale e insolita, in un’epoca in cui l’alta definizione la fa da padrona.
​In effetti la resa della luce è a dir poco straniante e contribuisce in modo sostanziale a creare un’atmosfera crepuscolare quasi irreale. Magistrale l’uso degli spazi interni, dove si svolgono i rituali (le preghiere, i canti, i pasti) della piccola comunità, ripresi da claustrofobiche inquadrature frontali che non lasciano scampo ai protagonisti e nemmeno agli spettatori.
Nel cast, davvero eccelso nel suo complesso, ritroviamo nuovamente Alfredo Castro, vero e proprio attore feticcio di Larrain che lo ha voluto in tutti i suoi film compreso Neruda, il biopic a cui sta lavorando attualmente, impegnato come sempre in un ruolo ambiguo e sgradevole. Con lui Antonia Zegers, che dal canto suo ha già recitato in tutti e tre i capitoli che compongono la trilogia sulla dittatura.
Durissimi gli scontri e i faccia a faccia tra i sacerdoti ospiti della casa e il padre gesuita che arriva dall’esterno per gestire la situazione venutasi a creare in seguito a un drammatico avvenimento. Quest’ultimo rappresenta il rinnovamento della Chiesa cattolica, in linea con gli insegnamenti e i discorsi di Papa Francesco, in opposizione a chi se ne è servito per accrescere il proprio potere e i propri benefici terreni. Le tragiche e crude sequenze che precedono l’epilogo lasciano presagire il peggio ma si stemperano, inaspettatamente, proprio sul finale, con i sacerdoti indotti ad un atto di redenzione forzata, come una sorta di penitenza necessaria per salvare le vite e le anime di vittime e carnefici. Un modo per inchiodarli alle loro responsabilità, per obbligarli a fare i conti con il loro oscuro e torbido passato. 
Un’opera forte, disturbante, intensa e vibrante. Scomoda, per usare un eufemismo, per il mondo ecclesiastico che ha preferito quasi sempre ignorare il problema e mettere la testa sotto la sabbia a mo’ di struzzo, facendo finta di niente. Sorprende che un lavoro incentrato su una tematica di questo tipo sia stato acquistato anche da noi (Bolero Film, peraltro con uscita nelle sale annunciata e poi rimandata a febbraio 2016, in un numero limitatissimo di copie), in un paese dove le influenze e le ingerenze della Chiesa si riflettono pesantemente a livello sociale, politico e culturale. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica

Titolo originale: El Club
Regia: PaBlo Larrain
Sceneggiatura: Guillermo Calderón, Pablo Larraín, Daniel Villalobos
Fotografia: Sergio Armstrong
Anno: 2015
Durata: 98’
Interpreti principali: Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro
​Uscita italiana: 25 febbraio 2016

0 Comments

IL PONTE DELLE SPIE - La vita nella Storia

23/12/2015

0 Comments

 
Immagine
Chiunque salva una vita, salva il mondo intero: la citazione dal Talmud ebraico, resa universalmente nota da Schindler's List, risuona tra le pieghe del nuovissimo Il ponte delle spie, e trova una significativa evoluzione nel contesto della Guerra Fredda in cui si ambienta il film.
​Perché di fronte ci sono due opposte concezioni del mondo, quella americana/individualista, e quella sovietico-collettivista. Due realtà edificate su un sistema di regole ben strutturato e che esibisce se stesso con la stolidità dei propri principi elevati a meccanismo in grado di assicurare giustizia e benessere ai propri sottoposti, salvo dimostrarsi poi modulabile, a seconda del contesto: vale a dire che da un lato abbiamo una democrazia che esalta pubblicamente il valore della difesa, tanto da assicurarlo anche ai traditori, ma in fondo lo ritiene quasi una formalità, in una strada verso il patibolo considerata non solo ineluttabile, ma anche giusta. Dall'altra parte, il più rigido schematismo della giustizia sovietica non nasconde di voler agire anche su una scacchiera politica dove il traditore può (e deve) essere usato come valuta corrente nel gioco delle legittimazioni politiche.
Il mondo che ne deriva, va da sé, diventa quindi rigido e molle allo stesso tempo, e Steven Spielberg ne prende le misure sul valore delle singole vite, che diventano paradigma dell'etica e della giustizia reali. Lo fa attraverso la figura pure in bilico dell'avvocato Donovan, investito di poteri dall'alto eppure battitore libero, fermo nell'applicazione delle regole che definiscono il sistema, eppure abile a muoversi all'interno delle sue pieghe per raggiungere lo scopo più nobile. Un uomo che ragiona in termini di macroeventi, ma comprende il valore che la singola vita ha nel contesto della definizione di una realtà, essa sì, giusta. 
Qui ritroviamo lo Spielberg umanista, quasi redfordiano e ancora pronto a credere nelle possibilità di un sistema fatto di regole che abbiano senso laddove sono articolate sul valore degli uomini. E non sorprende che il suo uomo, quello che dovrà farsi carico della posta in gioco, sia anche stavolta un grandissimo Tom Hanks: proprio Spielberg ha infatti stabilito da tempo una particolare affinità con l'attore americano, da lui visto come icona fluttuante, perennemente stretta fra realtà altrimenti inconciliabili e opposte. Fra la guerra e la propaganda di Salvate il soldato Ryan, fra le truffe e i drammi esistenziali di Prova a prendermi, fra la Krakozhia e l'America di The Terminal, Hanks continua a incarnare un modello di virtù umana che, però, è allo stesso tempo anche l'elemento anomalo che mette in scacco il sistema scoprendone le mancanze etiche.

L'umanità che attraversa Il ponte delle spie è dunque il paradigma di una precipua visione spielberghiana, dove le relazioni che legano i personaggi si articolano attraverso un lavoro sugli spazi, oltre che sulle performance attoriali: in questo c'è, evidente, la lezione del magnifico Lincoln, capace di modulare le proprie istanze sulla forza espressiva degli interni, sugli spazi angusti che si “aprono” a disfide etico-politiche in grado di avere poi ricadute sul vissuto personale dei personaggi, tanto da rovesciare poi la paludata immobilità della Storia nella vitalità del sentimento dei singoli; ma c'è anche un trasporto nuovo, una voglia di avviluppare lo spettatore nel crescendo di una narrazione che si snoda nel piacere dell'epica (in quanto racconto di uomini che compiono grandi imprese). Di qui, naturalmente, discende il divertimento di un'opera potente ma lieve, di una messinscena dal sapore hitchcockiano, con figure che solo nel prosieguo degli eventi comprendi invece essere ancor più consapevoli degli altri e che per questo lasciano trapelare anche un fondo di amarezza per l'assurdo procedere del mondo.
È un lavoro di mezzitoni, sorretti ancora una volta dall'elaborazione visiva dell'inseparabile Janusz Kaminski, abile a trovare il giusto spiraglio tra la fisicità degli interni e una certa qualità più soffusa di esterni cangianti, ridefiniti dalle nuove geometrie disegnate dal nascente Muro di Berlino. E c'è l'equilibrio delle forze attoriali: quella di Hanks, certo, ma anche quella di Mark Rylance, irresistibile figura dolente ma con una punta di ironia, che riassume la consapevolezza di chi ha ben compreso l'andamento del mondo e non si aspetta di cambiarlo, insieme allo stupore (un po' naif, anche stavolta) di chi vede la Storia rimodularsi sotto la spinta impressa dall'idealismo di Donovan. Nel suo sguardo spento dalla vita, ma pronto a diventare quasi infantile per lo stupore verso l'incredibile parabola descritta dalle forze che lo coinvolgono, sta la forza di un racconto consapevole, ma ancora ottimista, diretto con l'esperienza del classico, ma il divertimento dell'esordiente. Sta, in fondo, la cifra più autentica del cinema di Steven Spielberg.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Film al cinema
​

Scheda tecnica

Titolo originale: Bridge of Spies
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Matt Charman, Joel e Ethan Coen
Attori: Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Alan Alda
Fotografia: Janusz Kaminski
Durata: 141’
Anno: 2015
Uscita: 16 dicembre 2015

0 Comments

IL VIAGGIO DI ARLO - Emozioni giurassiche

2/12/2015

0 Comments

 
Immagine
A pochi mesi dall’uscita di Inside Out, un film epocale per la storia del cinema d’animazione e non solo, arriva sui nostri schermi – stavolta in contemporanea mondiale – un nuovo titolo della Pixar. L’uscita de Il viaggio di Arlo è stata preceduta da una certa attesa, mista a grande curiosità da parte del pubblico e degli addetti ai lavori, per verificare se il celebre e acclamato studio d’animazione del patron John Lasseter fosse definitivamente uscito dal breve periodo d’impasse creativa manifestatosi con Cars 2 e Ribelle e con un prequel, Monsters University, che non aveva entusiasmato e convinto fino in fondo, specie se paragonato al folgorante Monsters & Co. Ebbene, ora si può tranquillamente affermare che la piccola crisi artistica in cui era incappata la Pixar è solo un lontano e sbiadito ricordo.
​
Arlo, piccolo, spaurito e giovane apatosauro, vive in una fattoria insieme ai genitori, al fratello e alla sorella, che dimostrano maggior coraggio di lui e si presentano decisamente più robusti e predisposti al duro lavoro nei campi. In seguito a un tragico avvenimento e ad una serie di fatalità, Arlo si troverà costretto a intraprendere un lungo viaggio in cui dovrà fare i conti con le sue paure più profonde.
Diretto da Peter Sohn, già autore del delizioso corto intitolato Parzialmente nuvoloso, il sedicesimo lungometraggio della Pixar ha un andamento narrativo classico e tradizionale che poggia le sue basi su un’idea geniale sviluppata in modo originale e, per certi versi, spiazzante. 
Il viaggio di Arlo si presenta come un romanzo di formazione tenero e avvincente, supportato da un livello tecnico quantomeno portentoso e sbalorditivo, contraddistinto da scenari e paesaggi naturali suggestivi e incontaminati resi con un tale realismo fotografico da risultare veri e autentici (dinosauri a parte si fatica non poco a immaginare che le montagne, i fiumi, gli alberi e le praterie non siano ripresi e filmati dal vivo). 
Non capita poi tutti i giorni di assistere a un film d’animazione con protagonista un piccolo dinosauro che d’un tratto si apre ad atmosfere da western d’altri tempi, con i T-Rex al posto dei cowboys. Diverse le sequenze memorabili: di grande impatto ad esempio l’attacco aereo degli pterodattili che piombano sulle prede dall’alto nascosti e immersi nelle nuvole, quasi una libera citazione da Lo squalo con una prospettiva capovolta che vede le nuvole al posto del mare. Notevole il ribaltamento dei ruoli proposto, di cui è meglio non svelare troppo per non rovinare la sorpresa agli spettatori, ma che dimostra ancora una volta il coraggio e l’audacia del team Pixar nello sperimentare e perseguire nuove idee che si distaccano nettamente dai lavori degli altri studios d’animazione statunitensi. 
Alla fine il messaggio arriva forte e chiaro a grandi e piccini: il viaggio iniziatico del giovane protagonista lo porterà ad affrontare le sue paure e ad uscire più forte, consapevole e coraggioso che mai, oltre che arricchito in seguito alla scoperta di un mondo che non conosceva. Durante la visione ci si diverte e commuove come non mai. Impossibile non farsi scendere qualche lacrimuccia al cospetto dello struggente epilogo. 
Il tratto di matita che contraddistingue e caratterizza i personaggi principali è morbido e tondeggiante, rassicurante e di facile presa sugli spettatori più piccoli; i colori sono vividi e luminosi, la colonna sonora funge da puro accompagnamento alle meravigliose immagini che scorrono sullo schermo, rinunciando a farsi notare più di tanto o a rimanere impressa nella memoria. Nota di merito per l’ottimo doppiaggio italiano, che rinuncia a nomi di grido per affidarsi a professionisti del settore seri e preparati.
Dopo Inside Out la Pixar sforna un’altra opera intensa e toccante, che ha dalla sua un cuore e un’anima autentica e trova in Peter Sohn, qui al debutto nel lungometraggio, un nuovo autore da aggiungere alla sua folta e talentuosa equipe.

Boris Schumacher

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: The good dinosaur
Anno: 2015
Regia: Peter Sohn, Erik Benson, Meg LeFauve, Kelsey Mann e Bob Peterson
Sceneggiatura: Peter Sohn
Motaggio: Stephen Schaffer             
Musiche: Jeff e Mychael Danna    
Durata: 100’
​Uscita italiana: 25 novembre 2015

0 Comments
    Immagine
    Immagine
    Immagine
    ULTIME RECENSIONI PUBBLICATE

    Roverdatter
    Holy Boom
    Demain et tous les autres jours
    Nos Batailles
    The Guilty
    ​Les Gardiennes
    ​
    LE NOSTRE
     PAGINE UFFICIALI
    Immagine
    Immagine


    ​ARCHIVIO RECENSIONI FILM AL CINEMA

    Aprile 2019
    Aprile 2017
    Marzo 2017
    Gennaio 2017
    Dicembre 2016
    Novembre 2016
    Settembre 2016
    Giugno 2016
    Maggio 2016
    Aprile 2016
    Marzo 2016
    Febbraio 2016
    Gennaio 2016
    Dicembre 2015
    Novembre 2015
    Ottobre 2015
    Settembre 2015
    Agosto 2015
    Luglio 2015
    Giugno 2015
    Maggio 2015
    Aprile 2015
    Marzo 2015
    Febbraio 2015
    Gennaio 2015
    Dicembre 2014
    Novembre 2014
    Ottobre 2014
    Settembre 2014
    Agosto 2014
    Luglio 2014
    Giugno 2014
    Maggio 2014
    Aprile 2014
    Marzo 2014
    Febbraio 2014
    Gennaio 2014
    Dicembre 2013
    Novembre 2013
    Ottobre 2013
    Settembre 2013
    Agosto 2013
    Luglio 2013
    Giugno 2013
    Maggio 2013
    Aprile 2013

    Feed RSS

Powered by Create your own unique website with customizable templates.