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PER AMOR VOSTRO - Sognare la realtà

25/9/2015

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Prima di tutto c'è Napoli: una città che è oltre se stessa, è un immaginario e un mondo. Sarà per questo che Gaudino insiste tanto sull'idea della rappresentazione, perché Napoli non si può ritrarre scindendola da una cifra ideale che la rende naturalmente spazio immaginifico, vivibile solo attraverso l'estroflessione della dimensione interiore. Per amor vostro, in fondo, è un film che vive proprio del contrasto fra un mondo “di fuori”, mosso dalle sue verità, e la percezione che, dall'interno, si ha dello stesso.
In tal senso, Gaudino chiama Valeria Golino a ricoprire un ruolo apparentemente simile a quello sostenuto dall'attrice ne La guerra di Mario, di Antonio Capuano: madre alle prese con una realtà familiare difficile e figli che tendono a fare da ago della bilancia degli equilibri di casa. La performance però è rovesciata di segno: lì l'attrice partenopea sembrava l'unica in grado di afferrare l'instabile energia della dimensione infantile (e dunque fantastica) della realtà interiore, veicolandola nei modi più costruttivi; qui, al contrario, il personaggio di Anna appare preda del movimento centrifugo che, dall'alveo familiare, si espande a questo mondo in perenne oscillazione fra realismo e sua rappresentazione.

Di qui, in caduta libera, Per amor vostro ci offre una realtà stratificata in cui i meccanismi narrativi si intrecciano sul modello fornito da un personaggio che è unico eppure molteplice: moglie, madre, lavoratrice, amante (perché a Napoli nulla è unico, tutto è contemporaneamente anche altro), ma soprattutto martire di una visione personale, inseguita con una pervicacia che è anche perenne voglia di fuga da una realtà apparentemente immobile su quanto è sedimentato (problemi, Storia, tradizioni, valori). Un viaggio di libertà, forse anche ingenuo e velleitario, tra visioni d'infanzia e la necessità di sbarcare il lunario, badare a un figlio non udente e sopportare le angherie del marito.
L'aspetto più interessante di questa confusione fra i vari livelli percettivi è la loro ricaduta sulla struttura linguistica del film, che si apre generosamente a ogni possibile contaminazione, diventando serbatoio di memorie tipiche della tradizione napoletana (ci sono le canzoni neo-melodiche e la sceneggiata, solo per citare due esempi), ma anche racconto di generi più universali: un po' thriller, con le torsioni narrative del segmento finale; un po' storia d'amore contrastata dai doveri del tetto coniugale; un po' racconto larvatamente pasoliniano di una “Mamma Napoli” che ha fatto non a caso gridare ai paragoni con Anna Magnani. E un po' anche qualcosa che rompa il circolo vizioso della memoria immobile: una sorta di nuova via di fuga, fra il fumetto e la cultura del modellare la cartapesta, per la scelta delle divisioni in capitoli, per la divertita contaminazione fra il bianconero dominante nell'inquadratura e gli inserti a colori, in un gusto pindarico della manipolazione dell'immagine che però riverbera sempre il piacere artigianale del fare. Per questo la visualità appare a volte schiettamente rozza; c'è un gusto nell'affastellare i toni e le iconografie che sopravanza la precisione stilistica e la perfezione dell'effetto.

La figura di Valeria Golino diventa così, ancora una volta, la tela privilegiata su cui iscrivere il contrasto e l'eterogeneità delle forze in campo, come già fu in Storia d'amore di Maselli: c'è, naturalmente, ora, una maggiore consapevolezza delle possibilità espressive offerte da una direzione non casuale. Gaudino infatti sa come veicolare i flussi del racconto in modo da ottenere la massima destabilizzazione possibile, all'interno di una struttura narrativa compatta nelle singole parti: con lui la Golino diventa punto di partenza e ambasciatore di una napoletanità espressa attraverso uno sguardo curioso su una città che è, esplicitamente, anche set, dentro e fuori la finzione scenica (Anna, lo si ricorderà, lavora sul set di una soap).
In questo spazio siamo immersi, veicolati dalla natura ondivaga di Anna, che attraversa la realtà senza comprenderla, ma forse per lo stesso motivo ne afferra la magia più particolare, l'illusione, pur con le difficoltà imposte dai ruoli. La musica contemporanea si stempera quindi nei canti d'antan del Quartetto Cetra, il bianconero si contamina ancora di colore e si apre a trasfigurazioni digitali che hanno la visionarietà di certe produzioni di Jan Svankmajer. Ci sono insomma i soldi, le armi, i gioielli che testimoniano un dramma eppure appaiono monili fatui, quasi finti, bigiotteria da bancarella di giocattoli: c'è quindi la necessità e la voglia dei sogni, preceduti e seguiti da una forza del vivere e del raccontare giocando che è pulsante come poche altre volte si è visto nel cinema italiano contemporaneo.

Davide Di Giorgio

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Venezia 72


Scheda tecnica

Titolo originale: Per amor vostro
Anno: 2015
Regia: Giuseppe M. Gaudino
Sceneggiatura: Massimo Gaudioso, Giuseppe M. Gaudino, Isabella Sandri e Lina Sarti
Musiche: Epsilon Indi
Durata: 110'
Attori: Valeria Golino, Adriano Giannini, Massimiliano Gallo, Elisabetta Mirra
Fotografia: Matteo Cocco
Uscita al cinema: 17 settembre 2015

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SANGUE DEL MIO SANGUE - I fantasmi di Bobbio

23/9/2015

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Sangue del mio sangue è un’opera materica, carne viva e palpitante, un corpo che si contorce su se stesso, valicando i limiti della visione filmica per assumere la fisicità concreta di un organo vivente.
Un corpo desiderante che si mostra in tutto il suo essere, attraverso una lirica alta e una narrazione libera. Un fluire anarchico e liquido di materia in cui l’estetica delle immagini impreziosisce lo scorrere di una nebulosa filmica.
“Non abbiamo neppure idea di quel che può un corpo nel suo sonno, nella sua ebbrezza, nei suoi sforzi e nelle sue resistenze. Pensare è apprendere quel che può un corpo non-pensante, le sue facoltà, i suoi atteggiamenti o posture” (Gilles Deleuze, L’immagine-tempo). Ma quello bellocchiano è un corpo pensante, in cui il pensiero politico e l’estetica convivono, in cui le immagini offrono allo sguardo incanti animati da fantasmi di cui si percepisce la presenza lungo tutto l’evolversi dell’iter filmico. Le presenze fantasmiche aleggiano sin dalla prima scena: un portone si apre in un antro oscuro, il buio avvolge gli ambienti feriti da lampi e da squarci di luce, come lame esse si insinuano sottili sui volti e lacerano le tenebre del carcere/prigione/convento di Bobbio.

Federico Mai (Pier Giorgio Bellocchio), una presenza osservante, mai attiva o quasi, un fantasma alla ricerca di un altro fantasma, giunto a Bobbio per indagare sulla morte di Fabrizio, il suo gemello sacerdote, assiste, quasi con indolenza, alle prove a cui viene sottoposta Benedetta (Lidiya Liberman), la monaca accusata di aver indotto al suicidio il prelato sotto l’influsso di una possessione demoniaca.
La distaccata indifferenza del giovane e l’ostinazione con cui la Chiesa perpetra i suoi misfatti, accecata dalla bramosia di potere e dall’oscurantismo delle menti bigotte, esprimono la critica politica mossa dal regista alla costante egemonia ecclesiastica, giunta fino a noi, appoggiata anche dal beneplacito dello Stato e di alcuni partiti politici. Federico, nel voler riscattare la memoria del fratello, si muta in statua granitica, una fortezza inespugnabile; nonostante avverta una forte attrazione nei confronti di Benedetta, rimane inscalfibile davanti al processo subito dalla ragazza; non trapelano sentimenti dalla sua corazza di uomo d’armi. Un osservatore, privo di tenerezza e di pietà, apatico, indifferente e distante dal compiersi dello scempio, così come freddo, cinico, incurante e approfittatore è l’homo italicus, figura fantasmica a sua volta, davanti allo strapotere di certa politica e della Chiesa.

La scelta di narrazione anarcoide di Sangue del mio sangue conferisce a quest’opera una libertà visionaria e surreale. I salti temporali che dividono il film in periodi storici differenti conducono lo sguardo prima nel seicento italiano, oscuro, come è oscuro l’antro del convento/carcere, manipolato dalle mani forti del potere clericale, inquisitorio e ipocrita, che preferisce l’immuratio alla verità, l’occultare e il nascondere. Quel portone tornerà ad aprirsi, nel successivo capitolo, nell’epoca moderna, sempre in un antro buio, ma più fatiscente, in cui nulla è cambiato; quel luogo di reclusione nasconde nuovi fantasmi, nuovi segreti, forse poi non così nuovi; in quell’oscurità si nasconde ancora il potere elitario di Bobbio, piccolo/grande mondo. 
Nell’oscurità i fantasmi si mutano in creature vampiresche, come il conte Basta (Roberto Herlitzka): una figura deragliata, un corpo deformato dalla bramosia del potere che si aggira di notte, tra le tenebre. Un Innocenzo X, trasfigurato nella sua materializzazione baconiana; un urlo muto nella sua gabbia dorata, assiso prima nel conclave del processo, poi a capo della piccola oligarchia del paese.
Corpi che scivolano da un’epoca all’altra, simili e distanti; memorie di un passato immutabile; lo specchio convesso del presente. Torna anche Federico Mai, nelle vesti di un cialtronesco individuo pronto a frodare il paese e il prossimo, curando soltanto i propri interessi, così come l’uomo d’armi del passato. Nulla cambia, tutto scorre, ma tutto si mantiene immutato nella ferocia umana.

La dialettica cinematografica di Bellocchio è in continua evoluzione, alla ricerca di un linguaggio diverso, libero e anarchico. La matrice del suo ultimo lavoro è un’estetica curatissima, al punto da sfiorare in alcune sequenze una messa in scena da tableau vivant, in continuo dialogo con la denuncia del potere corrotto. Una sontuosa fotografia, curata da Daniele Ciprì, sublima lo sguardo con neri squarciati da ferite di luce che lacerano le immagini, a tratti caravaggesche negli allestimenti scenici, a tratti impreziosite da caldi volti vermeeriani, come quelli delle due sorelle Perletti, illuminate nella notte dal barlume di una candela che arde, come è ardente il loro desiderio sessuale.
Il contrasto visivo tra le due epoche è evidenziato esteticamente dal rigore di una scelta cromatica più cupa, quasi gotica, dell’Inquisizione del seicento; i colori si fanno più caldi e vivi nella contemporaneità, dove i toni si alleggeriscono lasciando spazio a una leggerezza ironica e surreale. Il regista sceglie di coinvolgere un cast “familiare”, rendendo l’opera più personale e intima, si circonda degli amici più cari, il figlio Pier Giorgio Bellocchio, ma anche Filippo Timi, nei panni del folle, e Roberto Herlitzka. Bellocchio porta in scena un momento tragico della sua esistenza, forse per esorcizzare il dolore, o semplicemente per confrontarsi con se stesso e con quei fantasmi così materici e presenti lungo lo scorrere del film. In Sangue del mio sangue, la narrazione si intreccia con la vita, quella del suo autore: il suicidio, la morte di un fratello, la perdita di una parte di sé, un dolore denso, stratificato, inspiegabile, perché nulla sarà come prima; la rinuncia alla vita, raccontata con delicatezza e con poesia.
Una mise en scène visionaria saldamente legata a un logos che parla direttamente all’anima, una contorsione dei sensi che graffia il cuore, con dolore. È un’opera femminea, ardente e magmatica, come era stata La visione del sabba. Corpi fantastici e corpi materici, che si sfiorano, si accarezzano e poi svaniscono, perché “tutti i corpi sono cause gli uni per gli altri, gli uni rispetto agli altri, ma di che cosa? Essi sono cause di certe cose, cose di ben altra natura. Questi effetti non sono corpi ma, propriamente, degli “incorporei” (Gilles Deleuze, Logica del senso).

Mariangela Sansone

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Venezia 72


Scheda tecnica

Titolo originale: Sangue del mio sangue
Anno: 2015
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio 
Musiche: Carlo Crivelli 
Durata: 106'
Attori: Roberto Herlitzka, Lidiya Liberman, Pier Giorgio Bellocchio, Filippo Timi
Fotografia: Daniele Ciprì
Uscita al cinema: 9 settembre 2015

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INSIDE OUT - Rivoluzione animata

14/9/2015

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Arriva finalmente sui nostri schermi Inside Out, quando mancano poco più di due mesi all’uscita de Il viaggio di Arlo, il nuovo film della Pixar. Bizzarrie e cortocircuiti della nostra distribuzione, che sceglie di far uscire il penultimo film Pixar con ben tre mesi di ritardo rispetto al resto del mondo. Solo il dato finale del botteghino saprà dirci se questa scelta sarà da considerarsi felice o controproducente. 
Certo è che Inside out arriva nei cinema quando ancora imperversano i Minions, giunto a sua volta con due mesi di ritardo rispetto alla release internazionale; il titolo più visto in Italia nell’anno corrente, l’unico ad oggi ad aver raggiunto i venti milioni di euro. Probabile che questa sovrapposizione nuocerà a entrambi, come inevitabile pegno da pagare alla ferma ostinazione di non distribuire titoli dal forte appeal commerciale durante i mesi estivi.

Riley è una bambina allegra e spensierata di 11 anni. Tutto muta improvvisamente quando si trova a dover cambiare casa e a trasferirsi coi suoi genitori dal Minnesota a San Francisco. Il brusco cambio di vita, unito al passaggio dall’infanzia alla pubertà, sconquassa e sconvolge le sue emozioni primarie, con la gioia, da sempre sentimento predominante nella sua vita, che inizia a dover fare i conti e a convivere con la tristezza, fino ad allora relegata in un angolo e considerata da sempre come una presenza inutile e nociva.

Felici, commossi, estasiati. Non succede poi così spesso di sentirsi appagati e arricchiti al termine di un film. Con Inside Out, presentato con successo all’ultima edizione del festival di Cannes, la Pixar è tornata ai livelli che le competono dopo alcune prove opache e incolori (Cars 2, Ribelle) e un prequel (Monsters University) che non aveva convinto appieno, specie se paragonato al folgorante Monsters & Co. Quest’ultimo era stato ideato e diretto proprio da Pete Docter, co-autore insieme a Ronaldo Del Carmen di Inside Out e artefice qualche anno fa di Up, un altro gioiello animato firmato Pixar.
Alla base del film c’è un’idea geniale e fulminante, ovvero cercare di raffigurare le nostre emozioni. Cosa avviene nella nostra mente? Come reagiamo a livello emotivo agli avvenimenti – piccoli e grandi – della nostra vita? Il nuovo titolo Pixar, stratificato, complesso e denso di significati, sceglie con coraggio di rivolgersi principalmente a un pubblico adulto e a ragazzi di almeno dieci-undici anni, risultando senz’altro più arduo – per quanto concerne i messaggi che vuol comunicare – per i bambini più piccoli, che troveranno comunque il modo di divertirsi ed emozionarsi.
Insieme a Riley, la giovane protagonista, intraprendiamo un viaggio importante che segnerà una tappa fondamentale nel suo – e nel nostro – percorso di crescita. Inside Out ci fa capire quanto siano importanti le emozioni che proviamo ogni giorno, anche quelle che spesso e volentieri cerchiamo di nascondere o ignorare. Sbalorditivo ed epocale che un film d’animazione, per sua natura chiamato o costretto quasi sempre ad allietarci e a distrarci dalle noie e dai malumori del vivere quotidiano, ponga l’accento su un sentimento come la tristezza, destinata a rivelarsi importante e fondamentale nelle vite di ciascuno di noi.
Sì perché non è umanamente possibile sentirsi allegri e felici in qualunque momento. A volte la malinconia e la tristezza sono necessarie, in quanto ci aiutano nel nostro percorso di formazione e arricchimento. Nel crescere ci accorgiamo che la vita è fatta di sfumature e che il dolore fa parte della nostra esistenza tanto quanto (e forse più, purtroppo) la gioia. È bene ripeterlo: il fatto che a dircelo sia un film d’animazione, tra l’altro prodotto dalla Disney, lascia a bocca aperta, ancor più se si considera il modo in cui sceglie di comunicarcelo.

Siamo di fronte a un vero e proprio atto rivoluzionario, racchiuso in un’opera intelligente, emozionante e visivamente stupefacente (basti citare, tra le innumerevoli sequenze memorabili, quella sul “pensiero astratto”). Perfetta e calibrata al millimetro la sceneggiatura, che riesce a districarsi in modo fluido e dinamico tra le diverse dimensioni - il mondo esteriore, quello interiore e la fase onirica – senza accusare mai fasi di stanca o passaggi a vuoto. Forse lo script più complesso e ambizioso di sempre tra quelli partoriti in trent’anni d’attività dallo studio d’animazione del patron John Lasseter, in grado di dosare e alternare i momenti più lievi e brillanti a quelli di maggior spessore e densità drammaturgica.
In novanta minuti Inside Out riesce a far ridere fino alle lacrime ma anche a commuovere a più riprese, senza risultare mai gratuito, furbo o ricattatorio.

Boris Schumacher

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Animazione


Scheda tecnica

Titolo originale: Inside Out
Anno: 2015
Regia: Pete Docter, Ronaldo Del Carmen
Sceneggiatura: Pete Docter, Ronaldo Del Carmen
Musiche: Michael Giacchino
Durata: 94’

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