ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

I SEGRETI DI OSAGE COUNTY - Linee di tensione

30/1/2014

0 Comments

 
Immagine
«Territorio aspro, ma incantevole»: sono le parole con cui John Wells, regista de I segreti di Osage County, tratteggia la contea di Osage; è con questa stessa espressione che si potrebbe definire il bozzolo familiare messo in scena così potentemente dal cast. 
«Io bevo, lei prende le pillole» è il compromesso raggiunto tra Beverly Weston (Sam Shepard) e sua moglie Violet (Meryl Streep); entrambi lo sanno, ma a volte lei, nonostante i sedativi e gli psicofarmaci, sbotta e forse è anche per questo che lui si assenta da casa per un tempo più o meno lungo. Purtroppo la vita sullo schermo del bravissimo Shepard è breve, ma sarà proprio la morte del suo personaggio a innescare i meccanismi di disvelamento dei segreti della famiglia.
Il merito dell'ultimo lungometraggio di Wells sta nell'aver dato un grande respiro al testo originario scritto da Tracy Letts, vincitore del Premio Pulitzer. Spesso un buon testo per la scena può essere schiacciato o appiattito dalla macchina da presa, riducendo il tutto a mero teatro filmato; ci sono però le eccezioni che confermano la “regola”, come Carnage di Roman Polanski (tratto dall'omonima pièce di Y. Reza) e la pellicola in questione. Noi, in Italia, non abbiamo potuto ancora ammirare una rappresentazione di August: Osage County, ma d'altro canto riconosciamo la forte matrice teatrale da cui il regista di The Company Men è partito per dar vita alla propria visione del paesaggio umano.
Quello che avviene nell'hic et nunc di una messa in scena, sul grande schermo può acquistare un maggior afflato grazie alla possibilità di girare in esterni; ne I segreti di Osage County sono proprio quelle scene a suggerire un senso profondo del luogo, permettendo allo spettatore di immergersi ancor più in una dimensione culturale frutto di quella spaziale. Il testo originale e il film mettono a tema un doppio senso di sopravvivenza: a un livello generale ci fanno intuire le difficoltà della popolazione nel vivere lì; nel particolare ci calano nella realtà della famiglia Weston. 
Ci si può seppellire in casa? Per i coniugi Weston la risposta è sì, basta iniziare a schermare le finestre così da non poter distinguere il giorno dalla notte. Ibsen docet: gli spettri vengono a galla incarnandosi in tutto ciò che è irrisolto tra madri e figlie e ogni altro rapporto di parentela.
Barbara (Julia Roberts), Ivy (Julianne Nicholson) e Caren (Juliette Lewis), le figlie di Beverly e Violet, si ritrovano a fare i conti con ciò da cui erano fuggite, a parte Ivy, immolatasi alla causa di restare a prendersi cura dei genitori, almeno finché qualcosa non scatta anche in lei. Tutto ruota intorno alla figura della madre, a cui (forse) poteva dar voce e corpo solo la Streep. «Cercavo la lite e tu me l'hai servita sul piatto d'argento»: dice una Barbara carica di rabbia. I confronti-scontri tra madre e figlia si scolpiscono nella mente per l'energia teatrale che sprigionano, raddoppiata da una messa in quadro che guida elegantemente lo sguardo spettatoriale. Wells costruisce, infatti, delle immaginarie linee di tensione tra i personaggi (come se fossimo in teatro) e, al contempo, cerca il contrasto visivo tra interno ed esterno, tra le distese assolate (un plauso va alla fotografia di Adriano Goldman) e quella casa claustrofobica. Ogni dettaglio scenografico è teso a rimarcare il gioco interno-esterno, persino lo specchio assume un valore simbolico e di filo rosso sottile dove i gesti e le posture della figlia richiamano quelli della madre.
Assistendo alla distruzione del mito della famiglia e della sorellanza tenera torna subito in mente Tennessee Williams (in particolare “Lo zoo di vetro”), abile nello smascherare le dinamiche anche più (inconsciamente) subdole o le proiezioni che una madre può avere; così lo sceneggiatore di Killer Joe mette a nudo i segreti, i desideri, i rimpianti, i giochi ricattatori di donne e uomini che non possono – e non vogliono - essere legati da un vincolo di sangue. Un cast da Oscar ci sbatte in faccia la cruda realtà della famiglia; ognuno di loro, chi più chi meno, si volta verso l'orizzonte e percorre quelle strade apparentemente infinite come se fossero dei punti di fuga. Ma dove porteranno? 

Maria Lucia Tangorra

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: August: Osage County
Anno: 2013
Regia:  John Wells
Sceneggiatura: Tracy Letts
Fotografia: Adriano Goldman
Montaggio: Stephen Mirrione
Scenografia: Nancy Haigh, David Gropman
Durata: 130'
Uscita in Italia: 30 gennaio 2014
Interpreti: Ewan McGregor, Julia Roberts, Meryl Streep, Juliette Lewis, Dermot Mulroney, Sam Shepard

0 Comments

DALLAS BUYERS CLUB - Diritto alla vita

29/1/2014

0 Comments

 
Immagine
Texas, 1985. Ron Woodroof (Matthew McConaughey) non è certo un eroe da romanzo. Tossicodipendente, puttaniere, omofobo, conduce la propria vita in modo dissoluto, nella vergogna malcelata delle azioni compiute dietro le porte serrate dei bagni pubblici. Difficile trovare una qualche empatia con lui. Texano da rodeo, cappello e stivali da cowboy, camminata da duro, ora Woodroof ha trovato un muro più alto di lui: l’HIV. Siamo negli anni ’80, il caso dell’attore Rock Hudson ha sconvolto l’America e ha creato un senso di panico e paura attorno all’AIDS, il tabù del secolo, il male inspiegabile che qualcuno si ostina a credere sia calato come una piaga biblica, una falce fatale sui miscredenti, gli immorali, i diversi.
Woodroof non accetta la spietata diagnosi: trenta giorni di vita. Woodroof sente in sé l’energia e la determinazione di non morire, di combattere contro l’inaccettabile data di scadenza. Il racconto fine-vita muta in una potente affermazione del diritto a esistere, a curarsi con i mezzi e le possibilità che la scienza, più o meno legale, può offrire.
Ron si trasformerà presto in consumatore e contrabbandiere di cure proibite fuori e dentro gli Stati Uniti, battendosi in ogni modo per il diritto alla cura, il diritto alla vita. Una battaglia politica prima che sanitaria. Una sfida culturale nell’America ristretta dell’ignoranza e della fobia. Ron non può farcela da solo, non può cambiare e forse non si aspetta nemmeno di cambiare il suo paese, ma, nella piccola rivoluzione che attua per la comunità di cui si fa portavoce, trova tanta partecipazione e affetto da trasformare se stesso e la percezione di sé, per prima cosa. Dalla prospettiva altra della malattia, Ron impara a incontrare le emozioni e l’umanità. Scopre un universo di anime escluse e abbandonate, ma non dome, persone che la società ha messo al bando come i reietti di un qualche dio ma che amano se stesse e la vita, cui corrono incontro con le braccia aperte e le mani tese al cielo. La conoscenza di Rayon (Jared Leto), transgender malato di AIDS, sarà il più importante e intenso legame di Ron, una figura poetica e illuminante, pura e ferita dalla crudeltà del mondo, il vero faro di umanità e bellezza in un racconto sempre molto ancorato alla verità biografica e alla realtà dei fatti.
Ron e Rayon rappresentano a un tempo la forza e la debolezza della propria epoca. Forza per la determinazione a sopravvivere, debolezza per la voragine che la società tutta - non solo quella degli anni ’80 - crea attorno alle storie di solitudine, malattia ed emarginazione. Quella di Ron è una storia vera di rivincita umana contro le bigotte leggi dei ‘benpensanti’ ma soprattutto contro l’idea di impossibile nella concezione del pensiero convenzionale. Ron vivrà ancora per sette anni dal giorno della diagnosi. Non trenta giorni.
Dallas Buyers Club è un lavoro rigoroso. Completamente spogliato di sentimentalismi e stereotipi, della retorica abusata della lacrima facile, il film è tagliato dal regista Jean-Marc Vallée come un atto d’accusa, tristemente valido ancora oggi, un dramma sociale coinvolgente ma costruito a tesi. Somigliante per certi versi a Puncture con Chris Evans (incentrato sulla sanità americana), il film conta su una sceneggiatura dinamica e intelligente, ma non sarebbe in prima linea nelle candidature agli Oscar senza le performance di Matthew McConaughey e Jared Leto. Inutile girarci intorno, il successo di questo piccolo film è tutto lì. Se ne parla dallo scorso anno, quando cominciarono a circolare sui magazine le prime foto di uno smagrito e irriconoscibile McConaughey: l’attore carismatico che è sempre stato (basti pensare a Frailty) trova ora anche l’attenzione della critica più snob. Killer Joe ne ha forse svelato il talento, con la benedizione del maestro Friedkin, ma lui è stato anche la parte migliore di Magic Mike, con l’autoironica interpretazione dello stripper tamarro.
Dallas Buyers Club arriva a consacrare una carriera da star in cui, come spesso accade, per dimostrare il suo valore McConaughey ha dovuto cercare una nuova corporeità. La sua è una performance poderosa, paradossalmente molto fisica, che acquista ancor più valore tanto è legata a quella delicata di Jared Leto. Interprete sensibile, trasformista da palcoscenico ma anche capace di incarnare lo spirito del personaggio, Leto è la vera sorpresa. Il suo Rayon ricorda molto l’Angel del musical Rent, angelo custode che mantiene intatta la sua purezza e dona amore a chi entra nella sua orbita. Struggente quando indossa i panni del figlio respinto. Il non voluto. Una piuma di poesia.
Sarebbe comunque riduttivo giudicare le interpretazioni soltanto pesando i chili persi dagli attori sulla bilancia; il film dipende dai suoi attori, ma Vallée vi ricama attorno un impercettibile argine: il confine è la storia, la realtà, la verità. Questa è la strada netta dell'opera, il percorso entro il quale si muovono gli outsider, interpreti dell’altro e di sé, sorprendenti e ispirati.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al Cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Dallas Buyers Club
Regia: Jean-Marc Valléè
Sceneggiatura: Craig Borten, Melisa Wallack
Montaggio: John Mac McMurphy (pseudonimo di Jean-Marc Vallée), Martin Pensa
Fotografia: Yves Bélanger
Interpreti: Matthew McConaughey, Jared Leto, Jennifer Garner, Denis O’Hare, Steve Zahn
Anno: 2013
Durata: 116 min.
Distribuzione in Italia: 30 gennaio 2014

0 Comments

THE WOLF OF WALL STREET - Osceno splendore

21/1/2014

0 Comments

 
Immagine
Jordan Belfort è un aspirante broker che mette ben presto da parte la sprovveduta ingenuità degli inizi per abbracciare un percorso di vita impossibile e delirante, votato al benessere ad ogni costo, al sempre di più, al sempre meglio. Come se non ci fosse un domani ma godendosi a pieni polmoni l’oggi. Risolvendo ogni problema diventando ricchi. Il suo socio, Donnie Azoff, lo affianca in questo viaggio sproporzionato, diventando il braccio destro di una sorta di “Robin Hood perverso” che ruba a tutti per dare a se stesso, che non conosce scrupolo, argine, senso della misura.
È un film di una scorrettezza incorreggibile, The Wolf of Wall Street: l’ultimo capolavoro di un Martin Scorsese che si specchia nello sguardo sul mondo a dir poco criminale del suo protagonista senza indulgere in moralismi, con generosità pornografica, facendo a pezzi ogni remora e qualsivoglia pudore a suon di terrificanti assurdità. Un’opera drogatissima ed esagitata come le mirabolanti imprese dei suoi anti-eroi, delle cui gesta estreme zio Marty intende riprodurre ritmi e devianze, poggiando su una visione schizofrenica, martellante, oltraggiosa oltre ogni lecito limite.
In questa consapevole gestione della dismisura sta tutto il genio di un regista che affronta la modernità e il contemporaneo di petto, usando il nostro passato recente come lente d’ingrandimento per risalire alle contraddizioni altrettanto mostruose dell’oggi, parto inevitabile di quegli scempi. Ed è per questo che The Wolf of Wall Street è un film in cui, all’onanismo di un vero e proprio “tsunami di follia”, come l’ha definito lo sceneggiatore Terence Winter, segue la vergogna, umiliante e distruttiva, di una testa che sanguina, di una famiglia vaporizzata, di un’esistenza in frantumi senza nemmeno essersene accorta. Non c’è e non ci potrebbe essere metafora più esemplificativa di questo titano della truffa ridicolo e immorale che sfascia un’automobile cubista e iper-accessoriata senza neanche rendersene conto, strafatto com’era di Quaalude scaduto (fuori moda oggi, ma non allora), ridottosi a mostro rantolante e bavoso. “Non voglio morire sobrio!”, gli urla contro Donnie durante un naufragio, altra sequenza d’antologia. Perché la sobrietà è noiosa, anonima, tragicamente incolore. Molto meglio il sonno della ragione, il circo subumano nel quale s’alternano, o meglio coesistono, yacht, donne da mozzare il fiato, scimmie, leoni, nani da mandare a bersaglio. Mancherebbero solo dei cavalli bardati da capo a piedi, per rendere Jordan un Caligola perfetto. Ma c’è comunque dell’altro. Tanto altro.
Dopotutto, The Wolf of Wall Street è prodigo di qualsiasi tipologia di esubero si possa immaginare: trattasi di un iper-testo di dimensioni colossali che il regista ha praticamente rigurgitato tutto d’un colpo e che noi guardiamo con la stessa fluidità, espirando solo alla fine. Dopo 180 minuti di apnea appagante, divertente come poche altre cose, zeppa di momenti che sono già cult e da mandare a memoria, ma anche mortificante. D’altronde, questa montagna russa di lussuria non è, banalmente, solo una storia di ascesa e di caduta. È un film sul baccanale sensistico generato e messo in moto dall’amore ancestrale e quasi neonatale per l’eccesso, per il lusso celebrato con infantilismo decerebrato, giustificandolo quasi come una predisposizione genetica. È il carme in morte di un’abilità sconfinata che, per generare profitto, godere della propria smisuratezza e continuare a esistere, cede con nonchalance al barocco più sfrenato e demenziale.
Non c’è però redenzione, nel sacrilego The Wolf of Wall Street. Stavolta non siamo davanti a una sceneggiatura del calvinista Paul Schrader, d’altronde, e il meccanismo viene sparigliato: tutto è diventato vitalismo senza rimorso e senza ritorno, con l’acceleratore premuto a mille senza paura di schiantarsi, di impattare contro la grande muraglia della realtà. Siamo a cavallo tra gli anni ’80 del reaganismo immemore e i ’90 permeati dalla convinzione di essere giunti alla fine del tempo e della storia, in prossimità di un imminente Millennium Bug non (più) scongiurabile. Tanto vale accumulare, stipare, vivere. In questa cavalcata la perversione non ha “fervore religioso”, espressione che pure ha usato Roger Moore sull’Arizona Daily Star, ma vive di insipienza, di fuga interlocutoria e non definita dalle responsabilità.
Scorsese, nel suo apologo amorale, ci crede pienamente, e vi si abbandona, anima e corpo, con tutti fucili e i cannoni spianati. Ci sarebbero lacrime da versare sul sogno americano e sulla land of opportunity, ma per quelle ci sarà tempo alla fine. Per il momento (un attimo prolungato all’inverosimile) c’è da consumare un’immersione totale in immagini bulimiche e tentacolari in cui l’invenzione diventa bassezza putrida, aggressione allo spettatore, giostra ansimante e boccheggiante.
Spinto dall’ossessione rinnovata di raccontare il proprio paese attraverso il gigantismo proteiforme, Scorsese aggiorna Casinò mostrandoci gli effetti delle colpe nascoste sotto il tappeto. Affermando, con smagliante crudeltà travestita da dark comedy da godere a crepapelle, che è già troppo tardi. È già tutto diventato un cartoon. Tutto parossismo, fumettistico e irreale. Ecco che allora Jordan (un Leonardo Di Caprio luciferino e sornione da applausi a scena aperta), nell’incredibile scena del “fucking phone” con Donnie (un sorprendente e sempre più bravo Jonah Hill), si gasa e riprende conoscenza davanti a un episodio di Braccio di Ferro; solo che lui a stimolarlo ha di norma ben altro rispetto agli spinaci, come recita in apertura in uno dei suoi tanti monologhi scandalosi. Una scena, quella del telefono, che è simbolo esemplare di personaggi che percepiscono il senso delle loro azioni da una prospettiva così bidimensionale da non porsi mai il problema della loro depravazione e delle puntuali conseguenze che dovranno prima o poi sopraggiungere. Come se l’idillio non potesse mai essere intaccato.
The Wolf of Wall Street, sotto la parvenza della baracconata colossale, si rivela di scena in scena una danza triviale e pagana in cui l’opulenza ha già profanato tutto ciò che poteva essere profanato e non resta che sniffarne, tra le tante altre cose, anche le ceneri. Si ritorna alla giungla, pronti ancora una volta a essere infinocchiati candidamente da un genio subdolo e fascinoso (l’inquadratura finale è da brividi). Sui titoli di coda, può ripartire allora il folgorante Mark Hanna di Matthew McConaughey col suo “Hum Hum Hum”. Battersi il pugno sul petto, in fondo, non equivale più a contrarsi in segno di pentimento producendo un atto di dolore, come nelle domeniche in chiesa. Adesso certifica solo un avvenuto patto col diavolo. Sono i lunedì (neri) della borsa, da trascorrere rigorosamente all’inferno.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Terence Winter, basata sul libro Il lupo di Wall Street di Jordan Belfort
Fotografia: Rodrigo Prieto 
Musica: Howard Shore
Durata: 180 min
Anno: 2013
Uscita in Italia: 23 gennaio 2014 
Attori: Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Rob Reiner, Jon Bernthal, Jon Favreau, Jean Dujardin 

0 Comments

CAPTAIN PHILLIPS - Il capitano d'America

21/1/2014

0 Comments

 
Immagine
Il capitano Phillips è prima di tutto un uomo, un padre di famiglia, un marito amorevole. Un americano qualunque, che si avvia al lavoro come chiunque. Solo che questo americano medio è anche il capitano di una nave, un leader riconosciuto dai suoi e con un carico di responsabilità di cui dovrà accollarsi il peso. Questo è il ritratto iniziale dello straordinario personaggio così umano e così eroico incarnato da Tom Hanks. Questa è l’istantanea che il regista Paul Greengrass ci offre nei primi minuti della sua ultima fatica, intitolata come il protagonista di questa serratissima avventura di mare.
Siamo immediatamente gettati nel pieno dell’azione. È tipico di Greengrass, dopotutto, coinvolgere lo spettatore nel cuore del film, come non esistesse altra via che la corsia di sorpasso. Non abbiamo tempo di elaborare, né di riflettere. La nave comandata dal capitano viene subito attaccata da un gruppo di pirati somali guidati da Muse (Barkhad Abdi), e quella che doveva essere una missione tranquilla e pacifica muta in una traversata impossibile per la salvezza, prima, e la sopravvivenza, poi. Due ore da capogiro in cui il duello tra due uomini per la supremazia si gioca come una partita a scacchi sul filo della nevrosi.
Paul Greengrass insiste con la sua analisi dell’America. Dopo il necessario United 93, opera catartica e metaforica che apre e chiude il capitolo sulla rappresentazione cinematografica esplicita dell’11 Settembre, il regista attraversa i cieli per solcare i mari. La nave di Capitan Phillips è uno Stato in movimento. È l’America che si sposta, che si regge sulle proprie regole, sulle proprie leggi, su un sistema in cui i marinai non sono solo lavoratori, ma cittadini e abitanti dello Stato galleggiante. Il capitano non è solo il leader del gruppo di prodi, ma il presidente, il re, il comandante in carica.
Greengrass è solito regalarci film d’azione non convenzionali in cui, dietro la bandiera di genere, splende l’originalità registica e di composizione. Tom Hanks è l’America. L’attore incarna l’ideale a stelle e strisce, icona del cinema amato dal pubblico, popolare e apprezzato dalla critica, un interprete che si è affermato a cavallo tra l’era reganiana, quella Clinton e Bush fino ad approdare - dagli idealistici abiti di Walt Disney (in Saving Mr. Banks, in uscita in queste settimane) - a quelli di eroe nell’età dell’Obama-Nation. Hanks è l’identità di questa America, orgogliosa e fiera, un po’ abbandonata a se stessa, invasa e minacciata dall’esterno, che può soltanto salvarsi da sola grazie alla propria capacità di adattamento, coraggio, forza interiore. Si parteggia così per la sorte del capitano, nel feroce e strepitoso climax verso la luce, dalla angosciante location che si fa sempre più angusta mano a mano che la tensione sale, che il senso di libertà si annienta e il filo della vita si fa sottile. Ancora una volta, Tom Hanks chiama Oscar… ma Oscar stavolta non risponde, mentre si accorge della spigolosa performance di Barkhad Abdi, nominata nella cinquina degli attori non protagonisti.
Difficile realizzare un film in mare. Si rischia un po’ l’effetto Tempesta perfetta e lo spauracchio di capitan Findus è sempre in agguato. Ma Greengrass è nel suo elemento, e cambia scenario come cambia le carte della narrazione. Utilizza i suoi due personaggi giocando abilmente sulle diversità non solo narrative ma degli attori stessi: diversità comunicative, linguistiche, fisiche. Phllips e Muse. Speculari. Opposti. Uno il riflesso dell’altro. Chi è il capitano, in questo duello tra individui che ha l’eco di una battaglia tra culture, tra stati? «Sono io il capitano» afferma Muse con il megafono. Ma questa battuta è talmente vuota, sbagliata, che servono le armi per darle una qualche consistenza. La leadership del terrore. Ma è Phillips ad affermare che il potere e il carisma si impongono a prescindere dalla violenza. I leader che sono veramente tali si fanno ostaggi e sono magnanimi. Vanno anche incontro alla morte, ma non crollano. Battaglia di nervi, battaglia di destini. Lotta senza quartiere per qualcosa, e chissà cos’è, per il futuro, per il diritto dell’avere, che ha forme e declinazioni anche inaccettabili, magari fuorilegge. Il diritto a conquistare un destino, a rubarlo, prenderlo per sé. Diritto alla libertà.
Tratto dal libro Il dovere di un capitano, che racconta la vera odissea del capitano Richard Phillips, il film di Paul Greengrass (che ingiustamente manca la candidatura agli Oscar per la regia) non è solo un thriller adrenalinico, e sarebbe sbagliato definire il regista come uno “specialista” di genere; parliamo di un filmmaker abituato a narrare la finzione nella cornice della verosimiglianza, come Bloody Sunday o United 93 hanno dimostrato, un autore capace di inquadrare la politica nelle ampie maglie dell’action movie, e fare anche dei grandi budget un mezzo per il racconto originale, tagliente e senza compromessi della realtà che ci circonda.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Captain Phillips
Regia: Paul Greengrass
Sceneggiatura: Billy Ray
Attori: Tom Hanks, Barkhad Abdi, Catherine Keener
Montaggio: Christopher Rouse
Musiche: Henry Jackman
Scenografia: Paul Kirby
Anno: 2013
Durata: 134'
Uscita in Italia: 31 ottobre 2013

0 Comments

THE COUNSELOR (IL PROCURATORE) - Il ghepardo e il coniglio

19/1/2014

0 Comments

 
Immagine
Una moto corre solitaria in una pianura arida e arsa dal sole; il motore si avverte in lontananza, ma lo sguardo dello spettatore è dirottato in un’alcova in cui la luce danza tra i panneggi candidi di bianche tende. Un mondo puro e incontaminato, in cui a regnare è l’amore di una coppia. Un universo a parte, isolato da tutto il resto, avvolto dal candore delle lenzuola come in una placenta; purezza, desiderio, amore e l’esplosione vitale di un orgasmo.
La moto continua a correre, collegando come un cordone ombelicale la visione dello spettatore con un’altra coppia. Ma qui l’amore non c’entra nulla: sono due identità affini, due anime che condividono lo stesso universo, marcio e dominato dall’avidità. La purezza è lontana e il desiderio non è un desiderio d’amore ma la brama di potere. Il fascino della caccia, la bellezza del cacciatore, che uccide in maniera incondizionata, la sublime meraviglia del ghepardo che rincorre la sua preda, nella piena consapevolezza che nella vita c’è chi bracca e chi è braccato; essere cacciatore o preda spesso però dipende dalle proprie azioni e dalle conseguenze che da esse scaturiscono.
Questa è la visione del mondo per Malkina (Cameron Diaz) e Reiner (Javier Bardem). Il procuratore del titolo, Michael Fassbender, è un avvocato cui fama e soldi di certo non mancano; in lui il tarlo dell’avidità sporca l’anima di pece. In fondo ingenuo e sprovveduto, cerca di mondare il suo daimon corrotto attraverso l’amore sincero e totalizzante per Laura (Penelope Cruz), totalmente candida, incarnazione della purezza ma ignara di ciò che è ben celato tra le pieghe dell’animo del suo uomo.
Basato sulla sceneggiatura originale dello scrittore Cormac McCarthy, il nuovo film diretto e prodotto da Ridley Scott è una solida architettura eretta sul logos, un noir dal cuore feroce che porta in scena personaggi marci, ricchi di zone d’ombra; ognuno di loro è colpevole, e la colpa è insita nelle proprie nature. Protagonisti multisfaccettati, complessi e originali, abilmente descritti dalla penna di McCarthy, che fanno della parola e dei dialoghi raffinati il loro punto di forza; più la loro anima è nera, più la verbosità si eleva in magnificenza e profondità. Dalla famelica Malkina, affascinante dark lady dalle unghie a specchio, secondo la quale “la verità non ha temperatura”, sino al boss dei boss, che in un sublime monologo cita il poeta Antonio Machado e la sua Cantares...: “Caminante no hay camino, se hace camino al andar...” (“Viandante non c’è cammino, la via si fa con l’andare…”), metafora che sottende e scivola nel corso di tutto lo svolgimento del film.
Ridley Scott e McCarthy fissano il loro sguardo sull’universo femminile, soffermandosi su diverse tipologie di donna che danno forza propulsiva allo scorrere della narrazione. Amate, temute, desiderate, ingranaggi propulsivi dell’universo di The Counselor, forti e ingenue, sono al tempo stesso vittime e carnefici dei loro uomini. Malkina, affascinante anima malvagia, mostra subito la natura feroce che le appartiene, ma è la sua fusis sincera a dettare le sue azioni; prova ad affacciarsi in un mondo che non le si confà, quello della sua nemesi Laura, ma se ne allontana, liquidandolo come “un mondo strano”, inevitabilmente distante dal suo universo di hobbesiana natura. La donna del procuratore, disegnata con abili pennellate di ingenuità dalla coppia Scott-McCarthy, è il barlume di luce nella vita del suo uomo, e subisce le conseguenze del suo amore cieco e folle, da cui è soggiogata; anche lei è perfettamente coerente con la sua natura, rappresentazione classica della donna, quella di cui prendersi cura e da tenere protetta dal male.
La bramosia di potere è il motore nevralgico della storia, il volersi accaparrare una fetta di torta in ogni modo, senza rendersi conto del costo effettivo. La hybris viene punita, e la punizione sarà più grave nei confronti di chi si illude che le proprie azioni non generino conseguenze, proprio come suggerisce Westray (Brad Pitt), il damerino cowboy, all'avvocato: “Se lei pensa di stare in questo mondo senza farne parte, si sbaglia”. Tutto gira intorno al logos, ai dialoghi raffinati; ogni personaggio riserva delle sorprese rappresentando un piccolo monolite di verbosa magnificenza; la sublime fascinazione che scaturisce dalla parola contribuisce alla costruzione stratificata dei protagonisti del film, a partire dallo splendido Reiner, un uomo che teme la donna che ama, definendo il sentimento che prova “mortifero”, e che regala allo spettatore un affresco gelido e appassionato di Malkina e del suo pesce gatto.
L’universo di The Counselor puzza di sudore, polvere e avidità umana, un homo homini lupus in bilico tra desiderio e morte, tra ciò che si brama e le conseguenze provocate dalle azioni. Nonostante la sceneggiatura presenti qualche lacuna, rendendo la narrazione a tratti incerta, l’azione ruba la scena, relegando in secondo piano le perplessità dello spettatore. Scott rinuncia alla magniloquenza, abbandona i barocchismi che hanno spesso caratterizzato in passato i suoi lavori, e confeziona immagini eleganti mettendo in primo piano la recitazione degli attori e i dialoghi, in un crescendo continuo di suspense dalla forte potenza visiva. Un deragliamento doloroso nell’antro cupo e feroce dell’animo umano segna l’ottimo ritorno dell'autore, con un noir ad alto tasso erotico, dal cuore nero e feroce, che scivola in un nichilismo cupo ma brillante di luce, pura come quella di un diamante.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Counselor
Anno: 2013
Regia: Ridley Scott
Sceneggiatura: Cormac McCarthy
Fotografia: Dariusz Wolski
Musica: Daniel Pemberton
Durata: 117 min
Uscita in Italia: 16 gennaio 2014
Interpreti principali: Michael Fassbender, Penelope Cruz, Cameron Diaz, Javier Bardem, Brad Pitt

0 Comments
    Immagine
    Immagine
    Immagine
    ULTIME RECENSIONI PUBBLICATE

    Roverdatter
    Holy Boom
    Demain et tous les autres jours
    Nos Batailles
    The Guilty
    ​Les Gardiennes
    ​
    LE NOSTRE
     PAGINE UFFICIALI
    Immagine
    Immagine


    ​ARCHIVIO RECENSIONI FILM AL CINEMA

    Aprile 2019
    Aprile 2017
    Marzo 2017
    Gennaio 2017
    Dicembre 2016
    Novembre 2016
    Settembre 2016
    Giugno 2016
    Maggio 2016
    Aprile 2016
    Marzo 2016
    Febbraio 2016
    Gennaio 2016
    Dicembre 2015
    Novembre 2015
    Ottobre 2015
    Settembre 2015
    Agosto 2015
    Luglio 2015
    Giugno 2015
    Maggio 2015
    Aprile 2015
    Marzo 2015
    Febbraio 2015
    Gennaio 2015
    Dicembre 2014
    Novembre 2014
    Ottobre 2014
    Settembre 2014
    Agosto 2014
    Luglio 2014
    Giugno 2014
    Maggio 2014
    Aprile 2014
    Marzo 2014
    Febbraio 2014
    Gennaio 2014
    Dicembre 2013
    Novembre 2013
    Ottobre 2013
    Settembre 2013
    Agosto 2013
    Luglio 2013
    Giugno 2013
    Maggio 2013
    Aprile 2013

    Feed RSS

Powered by Create your own unique website with customizable templates.